Da Il Manifesto del 25/03/1978

Come non subire

di Rossana Rossanda

Va dunque preso sul serio l'avvertimento delle Brigate rosse dopo il sequestro di Moro, che in questo momento sotto il mirino è soprattutto la democrazia cristiana. Questo, non solo la dimostrazione che in piena mobilitazione della polizia, possono colpire dove vogliono, mi sembra il vero senso dell'attentato a Picco. Nel mirino è quel che definiscono non solo lo stato, ma la sezione italiana d'uno stato imperialista. Poiché certo non credono che siffatto superstato si distrugga con la soppressione, uno per uno, dei suoi quadri principali o medi, è evidente che l'obiettivo è di spingerlo a una reazione come si usa dire, destabilizzante, provocarne una mossa, uno scarto. Fin quando la democrazia cristiana resisterà ad avere sequestrato il suo presidente e impallinati i suoi uomini, senza dividersi liberando le sue proprie tendenze eversive, in un processo cileno accelerato, o senza chiedere, per mantenere sotto controllo l'area di interessi e di corpi separati che essa copre, un prezzo altissimo ai suoi alleati? A questa difficile domanda mi par difficile sfuggire. Tanto più che c'è chi soffia sul fuoco. L'onorevole La Malfa, se ben intendiamo l'editoriale di ieri le rimprovera troppa flemma. Una così straordinaria inefficienza della polizia sembra calibrata per eccitare i riflessi alla De Carolis. La stupidità delle leggi d'eccezione, forcaiole e inefficaci, persuaderà immancabilmente qualcuno che ci vuol ben altro. Nel giro di alcune settimane il quadro politico può degradare rapidamente. Prima di ritrovarci tutti a dover sfilare in processioni antifasciste al minimo denominatore comune sarà bene che ci poniamo questo problema. E' tanto sciocco sfuggirgli, quanto difficile indicare una soluzione che non sia il rispondere fino in fondo alla possibilità e alla domanda che è venuta dai presidi operai di questi giorni. Sono, dicono, un intellettuale anch'io, e provo tanto fastidio verso l'ingiunzione del Pci a pronunciamenti nei quali si esige che la condanna al terrorismo, per essere insospettabile, comporti il silenzio su quel che c'è di marcio in Danimarca, sia l'insoddisfazione per la risposta: “io al ricatto: o con lo stato o con le Br non sto”. Neanche io ci sto, ma è sicuro che lo subisco, se non trovo qualcosa di più della denuncia dell'arretramento del fronte dell'offuscamento di un'idea di democrazia, di cui è stato essenziale nel nostro paese la critica risoluta, non all'idea dello stato - che non siamo di fronte a un concetto - ma a quella formazione storica precisa che è lo stato italiano e al ruolo che in esso ha avuto la democrazia cristiana. La questione è “come” arrestare una deriva a destra che domani può diventare più grave. “Come” impedire che ne resti macinata una sinistra che sembra non saper far fronte a pressioni sempre più squilibranti e dalle quali è sempre più squilibrata. Oppure il guasto è tale, che siamo ormai nelle mani di un gruppo di terroristi da un lato, della prevedibile risposta selvaggia del sistema dall'altro? Io credo che no. Che differentemente dalla Germania, in Italia possiamo ancora chiederci “come”. In nessun paese, che io sappia, è infatti avvenuto che in forme diverse di golpismo - giacché di questo si tratta - si sia avuto una risposta operaia come quella dei giorni scorsi. Per quel che mi consta, le masse in circostanze analoghe sono ammutolite, salvo nell'onda crescente del 1970 in Cile, di fronte all'uccisione del generale Schneider. Qui non ammutoliscono. E quel che dicono è determinante in due direzioni vitali: la prima è il prosciugamento d'un'area di rassegnata complicità con le Br, la seconda è l'avviso alle loro organizzazioni storiche che nulla può essere fatto senza tenere conto che le fabbriche sono all'erta, in qualche modo difendendole da una tentazione di totale cedimento alla crociata d'ordine. Questo comporta una maturazione politica di grande importanza. Coloro che hanno scioperato per Moro sanno di aver scioperato per il sequestro d'un avversario, non di un amico; hanno fatto cioè un ragionamento di secondo grado, non morale o difensivo, ma politico e aggressivo, rifiutando un certo tipo di attacco portato all'avversario perché in esso vedono la forma in cui il capitalismo può tentare una fascistizzazione, altre volte tentata e fallita. Se questo è vero, non solo vuol dire che in Italia esiste la possibilità di sfuggire al ricatto non con una fuga, ma con un salto in avanti; ma che ne esiste la richiesta di massa, e che questa è più avanzata che negli stessi distaccamenti d'avanguardia della sinistra. Ai quali, per essere a livello della pressione operaia, è richiesta l'elaborazione teorica e politica e la pratica del comportamento, anche in sede di una nuova idea delle “norme”, d'una società davanti a un lembo eversivo che le si leva contro, permettendole non solo di sfuggire alla tenaglia terrorismo-repressione, ma di usare in modo offensivo invece che difensivo del vuoto che si è aperto. Non è, credo, un tema diverso da quello della conservazione delle forze e dei varchi della rivoluzione italiana dopo gli anni sessanta. Se non vogliamo trasformarci solo in Cassandre della rivoluzione tradita e della democrazia che se ne va, dobbiamo sapere, per esempio, che a questa risposta il garantismo non basta e che il modulo leninista è finito. Ma in un quadro di rapporto di forze democratiche più debole o più forte che trent'anni fa? Io dico “più forte”. Mi chiedo in quanti di coloro che giustamente protestano sul ricatto d'ordine del Pci, la risposta sarebbe diversa da quella del Pci: “più debole”. Ma se è più forte non dobbiamo chiedere che il “presidio operaio” non si limiti ad emergere, ma si organizzi ed estenda? Se l'Italia diventa ora una rete di quei consigli di zona, che i riformisti hanno avversato e i rivoluzionari disprezzato, non solo il terreno del terrorismo sarebbe ridotto, socialmente e perfino come operatività tecnica, ma il compromesso istituzionale sarebbe sotto difesa, per quel che contiene di “patto democratico”, e sotto controllo per quel che alimenta come luogo di degenerazione autoritaria. E se, insieme, gli intellettuali della sinistra avanzassero la formazione di nuove trincee, anche d'analisi e di teoria, a sorreggere l'ossatura d'un principio di stato di transizione? Gli stati non cambiano se non quando un movimento di massa e di idee si innesta nel corso di una loro crisi. Lo sanno le Brigate rosse. Lo sa la risposta operaia. Non dovremmo saperlo anche noi, intellettuali di sinistra di professione?

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