Da Aljazira del 14/02/2005

A chi giova l'attentato a Hariri?

di Lorenzo Trombetta

Ancora gli alberghi più lussuosi della città sono al centro dell'ennesima autobomba che oggi ha dilaniato Beirut. Tra il Saint-Georges e il Phoenicia International, questa volta passava il convoglio blindato e super scortato dell'ex premier libanese Rafiq Hariri: morto assieme agli agenti della scorta e ad altri innocenti che si trovavano sul posto.

Ma perché Hariri e perché adesso?

L'ex primo ministro era da mesi una delle figure di spicco dell'opposizione che si preparava, nelle prossime elezioni legislative di maggio, a sfidare il blocco filo-siriano ancora oggi rappresentato dal presidente della repubblica, il generale Emile Lahud, acerrimo nemico dello stesso Hariri. Quest'ultimo, ricco uomo d'affari amico intimo del presidente francese Chirac e legato a filo doppio alla casa reale saudita, apparteneva alla comunità musulmano-sunnita del paese, ma era anche noto per la sua grande capaticà di unire le aspirazioni di molti libanesi al di là della differente appartenenza confessionale. Vi era riuscito nuovamente durante la difficile e lunga crisi di governo dell'autunno scorso.

Dopo che Damasco era infatti riuscita ai primi di settembre a imporre al parlamento libanese un emendamento della Costituzione che aveva permesso al presidente Lahud di rimanere in carica ai vertici dello Stato, le forze dell'opposizione si erano unite attorno alla figura carismatica del leader druso Walid Jumblat. Questi, in segno di protesta, aveva ritirato i suoi quattro ministri dal governo Hariri e, poche settimane più tardi, Marwan Hamade, proprio uno dei ministri dimissionari, si salvava per miracolo dall'esplosione di un'autobomba a lui destinata.

L'attentato fu attribuito immediatamente a chi non aveva mai digerito la posizione intransigente di Jumblat e dell'opposizione: Emile Lahud e, dietro di lui, la Siria. Intanto, alla fine di ottobre, non riuscendo a formare un secondo governo che accontentasse le richieste di Damasco e dell'opposizione, Rafiq Hariri preferiva rassegnare l'incarico di premier (lasciando il compito a Omar Karame, burattino di Lahud e della Siria) e tornava così nell'arena della politica non più come figura mediatrice tra Siria, opposizione libanese e Francia (tradizionalmente interessata a mantenere sotto controllo il paese dei Cedri), ma come alleato di Jumblat nel contrastare Lahud e i suoi protettori siriani.

La piattaforma di richieste su cui sia Hariri che il leader druso (e con loro altri attori politici libanesi) si erano trovati d'accordo era chiara: cessazione dell'interferenza di Damasco negli affari politici, economici e di sicurezza del Libano; drastica riduzione (se non completo ritiro) delle truppe siriane nel paese (oggi circa 14 mila). In molti infatti temevano che nelle prossime elezioni di maggio, la mano pesante di Damasco si sarebbe fatta sentire nuovamente per evitare che dalle urne uscisse un parlamento fuori dal proprio controllo.

Da questo complesso scenario emergerebbe quindi chiara la responsabilità dei servizi siriani nell'attentato contro Hariri. Ma non si può dimenticare però che, negli ultimi mesi, proprio Damasco aveva lanciato segnali di distensione verso il Libano: aveva ritirato dal paese tremila dei suoi uomini nell'inverno scorso, e aveva ripreso i colloqui col generale Michel 'Aun (un altro storico nemico della Siria e per questo esiliato dal 1991 a Parigi) facendo intravedere la possibilità di un suo ritorno proprio prima delle elezioni libanesi. Infine, la Siria sembrava rispondere positivamente alle sempre più pressanti richieste di Francia e Stati Uniti che le avevano intimato (si veda il testo della risoluzione Onu 1559 del settembre scorso) di metter fine al suo protettorato di fatto sul Libano: Damasco aveva annunciato, nel dicembre scorso, per bocca del suo premier Naji al-Otri, che un ritiro totale dal paese dei Cedri era un'opzione ormai presa in considerazione sia dalle autorità libanesi che da quelle siriane.

Perché allora tentare di uccidere prima Hamade e poi Hariri (entrambi noti come uomini di collegamento tra Damasco, Beirut e Parigi)? Perché esporsi ancor di più al fuoco di critiche e di pressioni internazionali che, da domani, si scatenerà senza dubbio su Damasco? Certamente la Francia come gli Stati Uniti, nel condannare l'accaduto, staranno già preparando accuse indirette alla Siria, che potrebbe cosi risultare, agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, il vero fattore di instabilità della regione (non bisogna dimenticare la questione dei porosi confini iracheni e il suo sostegno al partito di resistenza sciita libanese Hizbullah). Su questa base di accuse non provate, i peggiori nemici di Damasco (Israele in testa, ma anche la lobby cristiano-libanese e quella dei dissidenti siriani attivi negli Usa e in Europa) potrebbero soffiare sul fuoco della vicenda chiedendo un'operazione punitiva nei confronti del "ribelle" governo di Bashar al-Asad. La morte di Hariri non sembra andare quindi nell'interesse di Damasco, ma solo di chi vuole un Medio Oriente sempre più instabile e pronto alla frammentazione.

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