Da Diario del 25/04/2002

L'inchiesta vecchio stile

Cosa nostra, trattativa finale

Una lettera del boss Pietro Aglieri riapre il patteggiamento tra mafia e Stato. Dieci anni dopo le stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

di Gianni Barbacetto

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
PALERMO.
Questo testo. Nel biennio 1992-93 in Italia tutto cambia. Crolla il sistema dei partiti e scoppiano le bombe delle stragi. In sottofondo, una trattativa segreta tra Cosa nostra, apparati dello Stato, imprenditori del Nord. Dieci anni dopo, i nodi di quelle trattative stanno venendo al pettine. Quali impegni erano stati assunti? Quali promesse erano state fatte? E ora?

Si può vederla in due modi. Uno. Cosa nostra è sconfitta, la maggior parte dei suoi boss è in carcere e sta per essere seppellita dagli ergastoli, quelli rimasti liberi sono latitanti e braccati. Avviare una trattativa può servire allo Stato per chiudere una stagione, vedere riconosciuta la sua autorità, ottenere – dopo dieci anni di guerra – la vittoria finale: la resa, lo scioglimento dell’organizzazione criminale.
Due. Cosa nostra continua la sua attività, florida, sotterranea, sommersa. Ma ha un problema: decine di capi sono in carcere. Deve dare loro una via d’uscita, concludere una trattativa con lo Stato che permetta ai boss dentro di non essere sepolti a vita in una cella e all’organizzazione fuori di rifondarsi su basi nuove: affari, buoni rapporti con la politica, violenza ridotta al minimo. Una «Cosa nuova» ricca, silenziosa e invisibile.
Comunque la si guardi, in un modo o nell’altro il problema dei problemi, il nodo dei rapporti tra mafia e Stato oggi ha un solo nome: trattativa. Sono passati dieci anni dalle stragi di mafia che nel 1992 hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e hanno aperto una sfida allo Stato. Una guerra fatta a colpi di tritolo, con l’autostrada di Capaci sventrata, via D’Amelio come Beirut. E poi i kalashnikov contro i «pentiti» e le loro famiglie e, nel 1993, le bombe e i morti per la prima volta fuori dalla Sicilia, a Firenze, a Roma, a Milano. Oggi, dieci anni dopo, questa guerra è finita. Lo Stato ha reagito, ha varato leggi più severe, ha catturato molti dei grandi capi, li ha sottoposti in cella al regime duro, quello stabilito dall’articolo 41 bis del regolamento carcerario. Poi la stretta si è allentata, la memoria si è affievolita, le maglie della legge sono diventate più larghe. E ora, da una parte e dall’altra, c’è chi vuole trattare, scendere a patti, trovare una via d’uscita. Le grandi manovre sono già iniziate. Chi le conduce? Come reagisce la politica? E come andrà a finire?
Negli ultimi giorni la cronaca di cose mafiose ha registrato due avvenimenti rilevanti: la lettera scritta dal boss di Cosa nostra Pietro Aglieri e la cattura (grazie a una «soffiata») di un altro boss, Antonino Giuffrè. Molto probabilmente sono due episodi di un’unica storia: la storia della trattativa fra Stato e Cosa nostra.

LA LETTERA. Pietro Aglieri detto u signurinu al momento dell’arresto è stato trovato con libri di filosofia, di teologia e perfino un altare, dove pregava e ascoltava la messa. Ora ha ottenuto di iscriversi alla facoltà di lettere di Roma, indirizzo teologico. Il 28 marzo 2002 ha inviato una lettera al procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna e, per conoscenza, al procuratore di Palermo Piero Grasso («in modo che non ci possano essere fraintendimenti di sorta», spiega nella missiva). È un segnale di trattativa, fatto arrivare contemporaneamente ai mafiosi e ai politici. Un’apertura di dialogo, una dimostrazione di disponibilità ad aprire un patteggiamento.
«Avendo più volte appreso nel recente passato dai mezzi di informazione notizie fuorvianti e non corrispondenti al vero relative a una mia ipotetica dissociazione in accordo con altri, mi sono deciso a scriverle». Aglieri ribadisce «il no deciso a soluzioni individuali come la delazione e la dissociazione», si scaglia contro «le propalazioni di certi pseudo collaboratori che hanno dichiarato tutto e il contrario di tutto pur di uscire dal carcere». E ci somministra una lezione di garantismo, proponendo invece la ricerca di «soluzioni intelligenti e concrete»: «sicuramente i risultati sarebbero più duraturi, più profondi, più coerenti con la Costituzione di questo Paese». «Capisco che soluzioni alternative, che prescindano dalla collaborazione o dalla dissociazione, siano inevitabilmente più lunghe, più complesse e più articolate. Ma proprio per questo abbisognerebbero di un lavoro più attento e paziente, fatto e condotto da persone lungimiranti». Poi Aglieri lancia la sua proposta: «Solo se si prendesse in seria considerazione la possibilità di un ampio confronto fra detenuti si potrà trovare qualche sbocco». Attacca: «Non sarà con metodi o processi, che in certi casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di volere combattere, che uno Stato laico e democratico riuscirà a dare più sicurezza ai suoi cittadini». Infine Aglieri si dice disponibile, nel caso non fosse riuscito a essere sufficientemente «esaustivo ed esplicativo», a «qualsiasi approfondimento con chiunque», in modo da evitare «fraintendimenti di sorta» e troncare ogni «flatus vocis tendenzioso».
Aglieri invia innanzitutto un messaggio all’interno di Cosa nostra, rivolto ai boss: ho accettato di parlare in carcere con i magistrati, fa capire, ma «tenendo sempre presente la mia identità»; dunque state tranquilli, rifiuto la collaborazione (anzi, la «delazione») e perfino la dissociazione, «intesa come metodo di accuse anche se indiretto». Però dobbiamo trovare una via d’uscita, dunque parliamone tra noi, boss in carcere. Questa è la vera richiesta che ora Aglieri rivolge all’esterno, allo Stato: lasciatemi parlare con i capi di Cosa nostra, quelli dell’ala di Bernardo Provenzano e dei palermitani, a cui appartengo, ma anche con quelli dell’ala degli «stragisti» di Totò Riina e dei corleonesi. Una bella riunione della Commissione di Cosa nostra in carcere, per decidere insieme le prossime mosse. Chiunque prenda decisioni individuali sbaglia, rischia di passare per traditore. Prendiamola insieme, la decisione migliore per Cosa nostra.
L’avvocato Carlo Taormina, ex sottosegretario del governo Berlusconi, ha subito commentato la lettera con toni entusiastici: «Lo Stato deve prendere immediatamente atto della volontà di dissociazione che imputati e condannati per mafia vogliono effettuare, perché questo significa inginocchiarsi davanti alle istituzioni». Di parere opposto il procuratore Piero Grasso: «Si potrà cominciare a parlare di resa della mafia quando i commercianti non dovranno più essere salassati dal racket, gli imprenditori potranno partecipare alle gare d’appalto senza subire le prevaricazioni di imprese più forti perché protette dalla mafia, quando si consegneranno tutti i latitanti e verranno aperti gli arsenali pieni di esplosivi, quando scompariranno il contrabbando e le attività illegali, il totoscommesse, il traffico di droga». Anche Roberto Centaro, presidente della Commissione parlamentare antimafia, rifiuta le proposte di Aglieri: «Lo Stato non avvia trattative con Cosa nostra. Non lo farebbe mai, per principio, figuriamoci in questo caso in cui siamo di fronte a un proclama svuotato di ogni contenuto».

LA «SOFFIATA». Antonino Giuffrè detto Nino Manuzza, boss vicinissimo a Bernardo Provenzano, è stato arrestato all’alba del 16 aprile in un ovile. Era pieno di «pizzini», nelle tasche e perfino nelle mutande. I «pizzini» sono i foglietti con cui i capimafia latitanti comunicano tra loro: gli sms di Cosa nostra. Questi messaggi riguardavano soprattutto gli appalti, gli affari, i soldi, i piccioli a cui si dedica ora a tempo pieno l’organizzazione, chiusa la stagione delle stragi e dei morti. Ma Giuffrè è stato bloccato dai carabinieri a colpo sicuro, per effetto di una «soffiata». E proprio nei giorni in cui diventava pubblica la lettera di Aglieri. Chi ha tradito Manuzza? L’ipotesi di un investigatore molto esperto è inquietante: è la Cosa nostra di «quelli dentro» che manda a dire a Provenzano e a «quelli fuori», ma anche allo Stato, che la pazienza è finita, che devono scordarsi di pensare ai piccioli e alla politica e dimenticare i boss in carcere, che una soluzione va trovata, e al più presto.
Una volta, nei primi anni Novanta, Cosa nostra si divideva tra i «corleonesi» di Totò Riina, che volevano fare guerra allo Stato per poi trattare la pace, e i «palermitani» che avevano seguito, ma senza entusiasmi, il progetto stragista di Riina. Ora la divisione è un’altra: «quelli dentro», corleonesi e palermitani, che vogliono una speranza di non passare la vita in cella; e «quelli fuori», che vogliono una Cosa nostra nuova, sommersa, invisibile, dentro la politica come il topo dentro il formaggio, che non fa guerra a nessuno ma tesse affari, accumula piccioli. La Commissione, la Cupola dell’organizzazione, non c’è più: i suoi membri sono quasi tutti in carcere. È sostituita da un ristretto direttorio di cui fanno parte i latitanti superstiti, Salvatore Lo Piccolo, Matteo Messina Denaro. E Binnu Provenzano, naturalmente: che governa provvisoriamente Cosa nostra non per la sua forza, per il suo esercito (Messina Denaro, per esempio, è più forte militarmente ed economicamente), ma perché è l’unico capo di Cosa nostra che in un momento delicato come quello seguito alla sconfitta della strategia corleonese delle stragi ha potuto mettere in campo l’esperienza, le conoscenze, i rapporti, l’autorità, il prestigio necessari a tenere insieme l’organizzazione, a evitare i conflitti, a traghettarla verso la ricostruzione su basi nuove. La deve riorganizzare «fuori», e questo obiettivo è raggiunto: il controllo del territorio, le estorsioni, le imposizioni dei subappalti – gli affari insomma – continuano a pieno regime, con nuovi capi e nuovi soldati. Ma deve anche garantire il collegamento tra «quelli fuori» e «quelli dentro». Non deve, non può dimenticare il popolo di Cosa nostra finito in cella, che dentro ha tanti segreti da far tremare molti uomini della mafia e forse anche dello Stato; e fuori ha ancora uomini capaci di uccidere, o di far arrestare con una «soffiata».
Questo è il compito più difficile di Provenzano: tenere insieme le due anime di Cosa nostra oggi. Se ci riesce, trovando una «soluzione politica» per la «mafia armata» in carcere, manterrà il comando e traghetterà l’organizzazione verso una nuova Cosa nostra, forte e invisibile. Se non ci riuscirà, allora si riapriranno i conflitti: «quelli fuori», i giovani leoni degli affari, potrebbero essere tentati di abbandonare al loro destino «quelli dentro», ma allora torneranno a cantare i kalashnikov.
C’è un altro protagonista in questa vicenda: gli uomini della politica e dello Stato. Dieci anni fa, Riina aveva scritto il suo «papello», la madre di tutte le trattative, l’elenco delle cose che chiedeva allo Stato per sospendere il suo attacco terroristico. È stato sconfitto, ma il «papello» ha ancora una sua validità. In parte è già stato attuato: la nuova legge sui pentiti ha bloccato le nuove collaborazioni; il 41 bis è molto ammorbidito... Ma resta il problema degli ergastoli: un sei, sette «anni di branda», ha detto una volta Riina, un uomo d’onore è sempre pronto a farli; ma l’ergastolo no, l’ergastolo è la fine. È proprio quando gli ergastoli del maxiprocesso di Falcone sono diventati definitivi, alla soglia degli anni Novanta, che Riina ha scatenato la guerra contro lo Stato. Ora siamo a una svolta simile: a quelli del maxiprocesso si sono aggiunti gli ergastoli per le stragi del 1992-1993 e per altro ancora. Se qualcuno, dentro lo Stato e dentro la politica, ha trattato dieci anni fa con gli uomini di Cosa nostra, questo è il momento che mantenga i suoi patti. Altrimenti è prevedibile che ci siano nuove vittime eccellenti. Oggi siamo ai messaggi, alle lettere; domani un nuovo Salvo Lima potrebbe restare sul marciapiede di una città della Sicilia o del Nord. Per questo riprende vigore lo spirito della trattativa.

LA DISSOCIAZIONE. Domanda: Aglieri è in grado di scrivere da solo la lettera che ha firmato? La risposta è no. Domanda successiva: ma allora chi ha scritto quella lettera? Chi è il regista dell’«operazione trattativa»? «Non l’ho scritta io», risponde sorridendo, ancor prima di aver ricevuto la domanda, Rosalba Di Gregorio, avvocato di Aglieri, ma anche molto vicina alla famiglia di Vittorio Mangano e a Marcello Dell’Utri. Certo la lettera è arrivata al momento giusto, per tentare di riaprire un dibattito sulla «dissociazione» che ha già una lunga storia. Eccola.
Nella primavera del 2000 Vigna, dopo aver avviato una serie di colloqui investigativi con capi mafiosi in carcere, scrive al ministro della Giustizia (allora Piero Fassino) che quattro detenuti rinchiusi a Rebibbia (Aglieri, Salvatore Buscemi, Giuseppe Piddu Madonia, Giuseppe Farinella) chiedono di poter incontrare altri quattro detenuti (Nitto Santapaola, Salvuccio Madonia, Carlo Greco, Pippo Calò) per decidere la dissociazione da Cosa nostra. Il ministro Fassino investe della questione il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), diretto in quel momento da Gian Carlo Caselli, che blocca l’operazione, d’accordo con Alfonso Sabella, già magistrato a Palermo con Caselli e poi da lui chiamato a dirigere l’ufficio centrale ispettivo del Dap.
In quelle settimane del 2000, però, l’avvocato Taormina dice al Giornale che lo Stato deve accettare la dissociazione da Cosa nostra. E una cronista del Giornale passa a due colleghi, della Stampa e del manifesto, lo scoop della trattativa avviata a Rebibbia attraverso Vigna. Chi è la fonte della cronista? L’avvocato Di Gregorio. La possibilità della dissociazione comincia così a entrare nel circuito dei media. E Giovanni Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, concede un’intervista a Felice Cavallaro sul Corriere della Sera titolata così: «Dissociazione? Ero contrario, ora non più».
Nel febbraio 2001 il quotidiano la Repubblica dà la notizia che Salvatore Biondino sarebbe stato incaricato dai boss di trattare la resa dei carcerati. Sarebbe una grande novità, perché Biondino vuol dire Riina, di cui è stato braccio destro e autista fino al giorno dell’arresto. Nel novembre successivo Sabella viene a conoscenza che proprio Biondino avrebbe fatto richiesta di diventare «scopino», per potersi muoversi più liberamente nel carcere di Rebibbia e avere contatti con gli altri boss di Cosa nostra. Il 29 novembre Sabella scrive una lettera in cui informa del fatto Tinebra, che nel frattempo ha sostituito Caselli al vertice del Dap. Tinebra legge la lettera il 3 dicembre 2001 e commenta: «Ma questo Sabella come l’ha saputa ’sta notizia?». Invece di premiare l’efficienza del suo funzionario, il giorno 5 dicembre sopprime l’ufficio centrale ispettivo diretto da Sabella. Ritenendo di essere stato punito per aver bloccato la trattativa sulla dissociazione, Sabella scrive al nuovo ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che gli risponde di tornare a fare il magistrato. Poi scrive anche al Consiglio superiore della magistratura, che lo assegna alla Procura di Firenze. Il 16 febbraio 2002, dopo una lettera di Tinebra al prefetto di Firenze Achille Serra, a Sabella (che a Palermo ha fatto arrestare Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Carlo Greco e il figlio di Riina) viene tolta la scorta. E pensare che gli era stata riconfermata solo pochi giorni prima, il 29 gennaio 2002, quando sulla base della circolare del ministro Claudio Scajola le scorte erano state tolte a decine di magistrati in tutta Italia.

IL DILUVIO UNIVERSALE. Il procuratore di Palermo Piero Grasso è uomo dai toni pacati. Mai una parola sopra le righe. Tanto che qualcuno dei suoi magistrati, rimpiangendo il suo predecessore Caselli, gli rimprovera di essere perfino troppo morbido. Ma questa volta Grasso non ha potuto evitare di alzare la voce. A un convegno organizzato all’inizio d’aprile dai magistrati di Spoleto ha lanciato un grido d’allarme pesantissimo: «Non può passare il principio per il quale una maggioranza decida di sovvertire le regole della Costituzione. Non c’è bisogno della sfera di cristallo per prevedere che anni di successi nella lotta contro Cosa nostra saranno presto azzerati. Dobbiamo salvare il salvabile prima del diluvio universale». Ha raccontato: «Un boss mafioso, benché avesse collezionato già diversi ergastoli, parlava del suo futuro come se fosse imminente il suo ritorno in libertà. Lo avevamo preso per pazzo, invece i fatti gli stanno dando ragione».
I «fatti» sono una serie di leggi che in silenzio stanno sottraendo ai magistrati gli strumenti d’indagine e stanno imponendo ai giudici soglie più alte di prova per arrivare a una sentenza di condanna. È diventato – ricorda Grasso – sempre più difficile celebrare i processi. E sarà sempre più arduo condannare gli imputati, specie se sono colletti bianchi, specie se sono vicini alla politica. Ma anche chi è già condannato ora spera di trovare una via d’uscita: la revisione del processo. Dopo l’approvazione delle regole del cosiddetto «giusto processo», infatti, i mafiosi in carcere con centinaia d’ergastoli erogati con le regole processuali precedenti, «vecchie e barbare», cominciano a chiedere un nuovo giudizio. In Parlamento è stata depositata una proposta di legge che concede il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a chi è stato condannato prima dell’approvazione del «giusto processo». È una proposta bipartisan: firmata da Mario Pepe, Michele Saponara e altri nove deputati di Forza Italia, due dell’Udc, uno di An, uno della Lega, ma anche da deputati del centrosinistra, Giovanni Russo Spena ed Elettra Deiana di Rifondazione comunista, Franco Grillini e Franco Angioni dei Ds, Andrea Colasio della Margherita. «Se questa legge passasse», commenta Grasso, «andrebbero a revisione anche i processi sulle stragi Falcone e Borsellino e addirittura il maxiprocesso di Palermo. Finirà che i boss chiederanno e otterranno il risarcimento per essere stati in cella».
Non è la sola proposta di legge che preoccupa Grasso e i magistrati antimafia. La nuova disciplina del falso in bilancio rende più opache le società e più difficile indagare anche sull’area grigia della finanza, quella che ha contatti con i soldi mafiosi. Una legge proposta da Nino Mormino (di Forza Italia) vorrebbe togliere ai magistrati del pubblico ministero la guida della polizia giudiziaria, dunque delle indagini. Un’altra, proposta da Gian Franco Anedda (di An), prevede l’estensione dell’obbligo di concedere le attenuanti e dunque potrebbe finire per impedire che scattino le condanne all’ergastolo per i boss ancora incensurati; e poi regalerebbe ai mafiosi due armi formidabili: la possibilità di spostare i processi (Palermo è per definizione sede troppo «calda») e di ricusare i giudici (sarà sufficiente che abbiano parlato di «lotta alla mafia» in qualche scuola o, chissà, addirittura che tengano sulla scrivania la foto di Falcone e Borsellino). In Parlamento, dunque, la trattativa con Cosa nostra è già a buon punto.

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