Da La Repubblica del 28/04/2005

Inizia oggi l’udienza della Cassazione che potrebbe confermare l’assoluzione degli ultimi imputati: dopo 36 anni la strage rischia di restare senza colpevoli

«La verità su Piazza Fontana? La chiederei a Rauti e Andreotti»

L’ex procuratore D’Ambrosio: Freda e Ventura non andavano assolti. Mai emerse responsabilità dirette della Cia nella strategia della tensione

di Paolo Biondani

Piazza Fontana, ultimo atto. Da oggi la Cassazione è chiamata al giudizio finale sulla strage del 12 dicembre 1969, che segnò l’inizio del terrorismo politico in Italia ma è ancora impunita. Negli anni ’70 e ’80 il primo processo, trasferito da Milano a Catanzaro, si chiuse con l’assoluzione in appello per insufficienza di prove dei neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, condannati per altri 21 attentati, e dell’agente del Sid (il servizio segreto militare) Guido Giannettini. Le nuove indagini, aperte negli anni Novanta dal giudice Salvini, rischiano di chiudersi allo stesso modo: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, condannati in primo grado come presunti complici di Freda e Ventura, sono stati tutti assolti in appello.
Gerardo D’Ambrosio, prima come giudice istruttore e poi come procuratore, ha seguito 36 anni di processi ed è la memoria storica di piazza Fontana. In questa intervista, D’Ambrosio riassume «le verità che nessuno può mettere in dubbio» e «i tanti buchi neri che fanno di questa strage il lato più oscuro della storia d’Italia».
I ventenni di oggi, secondo molti sondaggi, sanno poco o nulla di piazza Fontana. Come la riassumerebbe?
«Con tre parole: strategia della tensione».
Per lei cosa significa?
«Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco ai servizi segreti (Sid), ai vertici militari e ad alcuni esponenti politici, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Il primo obiettivo era preparare la strada a un colpo di stato, sull’esempio del golpe del 1967 in Grecia. Ma poi altre forze più abili usarono la stessa strategia per mantenere lo status quo: l’importante era spaventare gli elettori moderati. E l’effetto politico veniva amplificato incolpando l’estrema sinistra. Questa è una verità accertata, nonostante tutto, già nei processi di Catanzaro e Bari. Su un piano storico, osservo che, guarda caso, i neofascisti hanno praticamente smesso di mettere bombe proprio quando le Brigate rosse hanno cominciato ad ammazzare».
La gravità assoluta di piazza Fontana, insomma, è questa: chi metteva le bombe riusciva a incolpare innocenti e farsi proteggere dallo Stato?
«I depistaggi sono partiti lo stesso pomeriggio della strage. Il 12 dicembre la polizia di Milano prese l’assurda decisione di far saltare l’unica bomba rimasta inesplosa, facendo così sparire qualsiasi frammento di prova. Ma l’inquinamento più grave fu l’arresto abusivo degli anarchici. Valpreda e Pinelli non c’entravano nulla con la strage. Ma abbiamo potuto dimostrarlo solo nel ’71, quando i giudici veneti scoprirono per caso un arsenale d’armi nella soffitta di un amico di Freda. Di errori la polizia ne fece a decine e tutti a favore dei neofascisti: per questo parlo di strategia. Quando abbiamo ritrovato la foto della borsa con la bomba inesplosa, abbiamo scoperto il famoso cordolo che portava a un negozio di Padova. Lì ci dissero che erano meravigliati: "Avevamo avvertito subito la questura, perché venite a interrogarci solo ora?". Poi scoprimmo che quei verbali, nascosti alla magistratura, erano finiti all’Ufficio affari riservati, dove avevano pure un frammento della borsa... Potrei fare cento altri esempi. Un dirigente di polizia perquisì tutti i parrucchieri cercando timer "ad apertura", impossibili da usare perché sarebbero scoppiati. Quando capimmo che erano "a deviazione", scoprimmo che Freda ne aveva comprati con tanto di fattura. Bene: quel poliziotto fece carriera, mentre l’unico commissario di Padova che aveva osato indagare su Freda fu trasferito a Matera».
A Catanzaro hanno assolto Freda dicendo che acquistò davvero quei timer così particolari, ma non si può escludere «l’eventualità» che per la strage ne siano stati usati altri identici.
«Per assolverlo hanno dovuto toglierci il processo ».
A spostarlo a Catanzaro fu la Cassazione.
«Fu una decisione abnorme: l’unico precedente era il Vajont. Avevamo scoperto che Giannettini era stato assunto al Sid dall’allora capo di Stato maggiore e che l’ammiraglio Henke continuava a pagarlo con i soldi dei servizi perfino durante la latitanza. La domenica dopo, la Cassazione ci tolse l’istruttoria accogliendo il ricorso di un imputato minore, che era figlio di un giudice di Vicenza. Ma la Cassazione interferì su tutto l’iter: il processo a Valpreda veniva tenuto incredibilmente fermo perché si voleva a tutti costi far giudicare gli anarchici insieme ai neofascisti, per confondere le idee ai cittadini».
Dopo 30 anni di processi, i neofascisti risultano innocenti come gli anarchici.
«Non è vero. Le nostre prove arrivarono a far confessare a Ventura tutte le bombe sui treni, nei tribunali e nelle fiere. E Freda ha pure scontata la condanna definitiva per i 21 attentati preparatori del 1969».
Ma per la strage, tutti assolti.
«Misteriosamente. O, forse, logicamente: i vertici del Sid erano arrivati a far scappare all’estero i nostri ricercati per terrorismo con passaporti di copertura dei servizi. Scoprirlo fu angosciante, ma almeno abbiamo fatto condannare Maletti e Labruna».
Che giudizio storico dà oggi del Sid?
«Sicuramente tollerò e favorì i terroristi di destra, forse ne fu complice».
Nel nuovo processo il pentito Digilio accusa anche la Cia.
«Sul piano storico, è innegabile che il Sid lavorava in stretto contatto, quasi in sudditanza con i servizi americani. Ma devo dire che allora non erano emersi elementi contro la Cia. Mentre erano forti i sospetti di coperture politiche».
Se fosse un familiare delle vittime, a quali politici chiederebbe la verità sulle stragi?
«Beh, Pino Rauti noi l’avevamo arrestato: ora prendo atto e rispetto la sua assoluzione; però forse dovrebbe spiegarci almeno perché andò a minacciare di morte e a intimare il silenzio all’elettricista Fabris che lavorava per Freda».
E sul lavoro sporco del Sid che politici sentirebbe?
«Sicuramente Andreotti. Ricordo il contrasto insanabile in assire a Catanzaro fra lui e Rumor, con l’uno che rimpallava sull’altro la responsabilità del segreto di Stato sul caso Giannettini. Il primo ad ammettere che era un agente del Sid, con la consueta intelligenza, fu Andreotti. Ma non lo disse a noi magistrati: lo rivelò in un’intervista e solo quando aMilano avevamo già emesso i mandati di cattura contro il Sid».
Che lezione si può ricavare da 36 anni di processi?
«Che almeno per i più gravi casi di terrorismo, il verdetto deve essere affidato ai giudici e ai giurati popolari che hanno sentito personalmente tutti i testimoni e visto tutte le prove. E’ inaccettabile che una corte d’assise d’appello, questa specie di popolo di secondo grado che esiste solo in Italia, possa rivalutare da zero le prove già formate davanti ad altri giudici. Nessun verbale scritto può rendere conto dei tremori, sudori e bava alla bocca di chi depone. Quando Andreotti fu condannato in appello per l’omicidio Pecorelli, non dicevano tutti che era il contrario del giusto processo? E perché il principio non dovrebbe valere per l’accusa?»

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