Da Corriere della Sera del 24/06/2006

Nell'86 per prevenire un attentato contro il presidente fu autorizzato l'intervento. Ma l'Irangate bloccò tutto

Reagan e la guerra a Gheddafi Quasi un Iraq vent'anni prima

di Ennio Caretto

WASHINGTON — Questo mese, l'America e la Libia hanno annunciato la riapertura delle relazioni diplomatiche rotte il 31 dicembre del '79, una svolta cruciale in Medio Oriente. Ma documenti della Casa Bianca e della Cia desecretati di recente dimostrano che vent'anni fa l'America sfiorò la guerra con la Libia.
Organizzò non un bombardamento, come avvenne il 15 aprile dell'86, ma più bombardamenti in serie. Lo fece, oltre che per stroncare il terrorismo libico, anche nell'intento di eliminare Gheddafi, o di rovesciarne il regime, dopo avere appreso che il colonnello aveva preparato un attentato contro il presidente Ronald Reagan. Il piano rientrò all'inizio dell'87, dopo lo scandalo Irangate, da cui emerse che l'amministrazione Usa aveva segretamente fornito missili all'Iran in cambio del rilascio di ostaggi americani in Libano, e ne aveva usato i proventi per armare i contras, i ribelli antisandinisti in Nicaragua. Uno scandalo che paralizzò il presidente e costò il posto a John Poindexter, il consigliere della sicurezza, e al vice di lui, il marine Oliver North.
Un memorandum della Casa Bianca del 21 marzo dell'86, a firma di James Stark, un alto funzionario, segnala la decisione del presidente di ricorrere alla forza contro Gheddafi. «Il Dipartimento di Stato — riferisce Stark — ha diramato un allarme in seguito al nostro ingresso nel Golfo della Sirte. Il colonnello ha minacciato di attaccarci, si prevedono atti terroristici». Quattro giorni dopo è battaglia tra le forze aeree navali americane e quelle libiche, e il 25 Stark ne trae le conseguenze, adombrando anche un complotto contro Reagan. «Negli ultimi tre mesi abbiamo raccolto prove che la Libia ha accelerato i suoi progetti di attentati. Dopo la sua batosta nella Sirte, ciò ci obbliga ad assumere una posizione ferma. Abbiamo numerosi piani nel caso che si dia al terrorismo. La domanda è: siamo pronti a usarli?».
La risposta, sì, arriva una settimana più tardi: il 2 aprile, quattro passeggeri muoiono allo scoppio di una bomba su un aereo Twa in volo da Roma ad Atene, e il 5 un'altra bomba fa due vittime al La Belle club, una discoteca di Berlino.
La Cia accerta che la matrice delle stragi è libica, e l'8 aprile Reagan ordina nascostamente di attaccare la Libia entro pochi giorni.
Il 12 il presidente manda in Europa, Italia compresa, il generale Vernon Walters, uno dei liberatori di Roma nel giugno del '44, per informarne gli alleati. Ma un altro memorandum di Stark rivela che gli alleati ne sono già al corrente. Datato 27 marzo, il memorandum sottolinea che «il Dipartimento di Stato ha inviato telegrammi all'Inghilterra, la Francia e l'Italia sulla minaccia libica e la nostra risposta. Ha anche precisato che potremmo chiedere che ci mettano a disposizione il loro spazio aereo». Stark anticipa bombardamenti a tappeto, fa il nome del piano: «Prairie fire», incendi della prateria. Domanda se «dobbiamo tenere davanti alla Libia le portaerei Saratoga e Coral sea, oppure sostituirle». Ricorda che c'è un lungo elenco di bersagli ma lamenta che «il Pentagono sia contrario a colpire più di quattro obiettivi militari». E sollecita un'immediata scelta del Consiglio di sicurezza in merito.
Dai documenti, è chiaro che l'amministrazione è divisa. Poindexter non si capacita delle esitazioni del Pentagono, e preme per il più massiccio attacco possibile, ma evitando «perdite collaterali», ossia stragi di civili. Fa eccezione Gheddafi: «Dobbiamo stargli dietro». Poindexter è anche ansioso di risparmiare «quei militari libici che simpatizzano con noi»: secondo la Cia ce ne sono, potrebbero tentare di rovesciare il regime. Il Dipartimento di Stato avanza invece delle riserve: «Teme che il colonnello chiuda gli aeroporti e ci impedisca di portare in salvo cittadini americani in caso di necessità» rileva Stark. Ma il funzionario resta dell'opinione che «occorra distruggere tutti gli impianti bellici libici». «Se subiremo delle perdite — dice — e potrebbe accadere, non dovranno essere vane». Saranno ulteriori congiure della Libia a fare pendere la bilancia dalla parte di Stark e di Poindexter. Tra di esse, una contro l'ambasciata Usa a Beirut, segnalata dal Dipartimento di Stato a Reginald Bartholomew, più tardi ambasciatore a Roma.
L'operazione «Prairie fire» scatta nelle prime ore del 15 aprile. I 18 F11 partiti dall'Inghilterra colpiscono il porto, l'aeroporto e le basi di Tripoli, e gli A6 e A7 delle portaerei America e Coral sea le basi di Bengasi. Gheddafi, di cui la Cia ha seguito i movimenti passo a passo, sopravvive per miracolo, e perde una figlia adottiva nell'attacco. Il colonnello scompare per 24 ore, si diffonde la voce che il 16 un reparto libico ribelle ne abbia assalito il quartier generale, e che stia maturando un golpe. Il 21, Reagan ammonisce gli americani che le ostilità potrebbero riprendere. Per tre settimane, l'amministrazione sogna la caduta di Gheddafi. Ma è un sogno irrealizzabile, a poco a poco Gheddafi sta riprendendo il controllo della situazione.
Il 5 maggio, Peter Rodman, un altro funzionario della Casa Bianca, constata che «in assenza di qualcosa di spettacolare da parte della Libia, le probabilità che la attacchiamo di nuovo sono poche». Rodman suggerisce tuttavia che «il Pentagono compili subito un'altra lista di bersagli». Se li dovessimo bombardare oggi, protesta, non saremmo preparati. Il Pentagono si lascia scappare la notizia, Poindexter si infuria: «A chi chiede informazioni, rispondete non discutiamo dei piani di emergenza». Ma la Casa Bianca ha troppa carne al fuoco, i contras e l'Iran innanzitutto, e l'operazione «Prairie fire due» viene accantonata, sebbene la Cia proclami che la Libia sponsorizza sempre il terrorismo. L'America cambia strategia, puntando sulle sanzioni. A novembre, l'Irangate segnerà la crisi più grave dell'amministrazione Reagan: si scoprirà persino che il presidente ha mandato a Teheran i suoi uomini con una bibbia e una torta per gli ayatollah. Nel Natale dell'88, gli Usa non reagiranno neppure alla strage del volo 103 della Pan Am a Lockerbie, in Scozia.
Un documento della Cia del marzo '87 ammette il fiasco del disegno reaganiano di isolare Gheddafi economicamente e politicamente. Oltre 200 imprese americane, nota la Cia, «trafficano con la Libia tramite affiliate straniere, e le esportazioni libiche di petrolio rimangono immutate. Se l'Europa non ci spalleggerà più vigorosamente, e noi ne dubitiamo, le sanzioni non sortiranno grossi effetti». Il rapporto se la prende con l'Italia, «che nell'86 ha aumentato l'importazione di greggio dalla Libia di 300 mila barili al giorno, e che lo lavora in impianti speciali in Sicilia e Sardegna». Con la Spagna «che raffina il petrolio libico per esportare benzina». E con il Belgio, «che ha sostituito la Francia come cliente della Libia nel settore». La Cia sconsiglia tuttavia al presidente di alleviare le sanzioni: «Gheddafi griderebbe alla vittoria, sembrerebbe che siamo incapaci di punirlo». E il rovesciamento del regime? A giudizio della Cia, il colonnello ha dato una stretta di vite alla nazione con la scusa della guerra del Ciad, è praticamente inamovibile.
Nel decennio successivo, Bush padre e Bill Clinton aumentano le pressioni su Gheddafi. Nel '92, al loro cambio della guardia, la Cia evidenzia che «la Libia gestisce ancora almeno cinque campi di addestramento per terroristi: Sette aprile, Al Qalah, Sidi Bilal, Bin Gashir, Rajal Hilal». E ammonisce che il colonnello sta cercando di procurarsi armi di sterminio. Il braccio di ferro si intensifica pericolosamente. Soltanto nel 2003, dopo che Bush figlio ordinerà l'invasione dell'Iraq, Gheddafi darà i primi, palesi segni di un ripensamento.
 
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