Da Narcomafie del 01/11/2005

Politici, religiosi, comuni cittadini: tutti uniti contro la ’Ndrangheta. Durerà o, stemperata l’indignazione generale, tornerà tutto come prima?

Non chiamiamola "Primavera". Per scaramanzia

Un rappresentante delle istituzioni accasciato al suolo in una pozza di sangue. Un killer a volto semiscoperto che colpisce in pieno giorno, in mezzo a decine di potenziali testimoni, e si allontana, senza fretta, senza lasciare indizi. La disperazione dei famigliari, gli sguardi vitrei dei politici ai funerali, le promesse di riscossa da parte dei rappresentanti dello Stato. E la gente in piazza, gli applausi alla bara, gli striscioni indignati dei ragazzi, le lenzuola bianche alle finestre. Immagini già viste, flash di un canovaccio triste che si ripete ogni volta che un crimine efferato contro le istituzioni ci riporta alla realtà di un Paese che sta perdendo la sovranità su ampie zone del suo territorio.

di Marco Nebiolo

Un brusco risveglio. Così un’Italia smemorata riscopre per l’ennesima volta il problema ’Ndrangheta e la questione Calabria. Come se anni di cronache giornalistiche, di denunce di politici locali e della società civile fossero scivolati via invano.
Scopriamo oggi che in poco più di 12 mesi ci sono state oltre 300 intimidazioni nei confronti di amministratori locali, semplici cittadini, imprenditori. Che la Calabria è la regione con il Pil più basso d’Italia, nettamente inferiore – secondo l’Eurispes – alla ricchezza accumulata dalla mafia locale. Che è una regione isolata, fiaccata da infrastrutture obsolete. Che il presidente degli industriali calabresi, Pippo Callipo, invoca da più di un anno, a volte tra le lacrime, misure eccezionali per ristabilire un livello di legalità minimo necessario alle imprese per lavorare. Che, come denunciato da «Il Sole 24 ore» (20 ottobre 2005), le compagnie di assicurazione si rifiutano di stipulare contratti con le vittime del racket, che in certe zone affligge oltre l’80% degli operatori economici. Che non si è venuti a capo di nessuno dei 23 omicidi perpetrati nella locride nell’ultimo anno.
Oggi scopriamo la ’Ndrangheta come negli anni 80 gli attentati mafiosi contro alti esponenti dello Stato ci fecero scoprire Cosa Nostra. Il delitto Fortugno dello scorso 16 ottobre è paragonabile ai più gravi fatti di sangue avvenuti in Sicilia in quel periodo. È vero che in Calabria non c’è stata la mattanza di rappresentanti dello Stato che si perpetrò al di là dello Stretto. Ma la ’Ndrangheta ha una tradizionale modalità di interagire con il potere differente da quella di Cosa Nostra: sempre in ombra, sempre sottotraccia. Per questo come precedenti troviamo solo l’omicidio di Ludovico Ligato, l’ex presidente delle Fs ucciso il 27 agosto 1989, e l’omicidio del giudice Antonio Scopelliti, assassinato il 9 agosto 1991 a Villa San Giovanni. Ma quest’ultimo fu colpito per fare un favore a Cosa Nostra: Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in Cassazione contro gli imputati del maxiprocesso.

Un (altro) “piano straordinario”. Il 28 ottobre il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Interno Pisanu, ha nominato Prefetto di Reggio Calabria Luigi De Sena, già vicecapo della polizia e direttore della Criminalpol, con l’incarico di coordinare tutte le attività di sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità organizzata in Calabria. Una nomina salutata positivamente da tutti gli schieramenti politici, per la professionalità del neoprefetto, considerato uno dei migliori investigatori italiani. È una delle risposte «non emotive, non eclatanti, ma fredde, dure e proporzionate» annunciate da Pisanu nei giorni successivi alla morte di Fortugno. De Sena dovrà curare il piano di interventi straordinari contro la ’Ndrangheta varato dal Governo.
Chi è attento alla cronaca si entusiasma poco all’annuncio di piani straordinari: a fronte dell’aumento delle intimidazioni che si registrò nell’autunno scorso – e del momentaneo interesse dei media per la situazione calabrese – il 23 ottobre 2004 lo stesso Pisanu si recò in fretta e furia a Reggio Calabria per partecipare a un Consiglio regionale infuocato. In quell’occasione presentò il “piano straordinario per la sicurezza” che il Governo aveva predisposto per rispondere alle invocazioni d’aiuto dei calabresi. Un piano in tre punti, di cui «Narcomafie» diede conto nel dossier sulla ’Ndrangheta del dicembre 2004. Già in quelle misure erano previste indagini più penetranti affidate a strutture interforze, invio di altri uomini delle forze dell’ordine, monitoraggio delle grandi opere pubbliche, contrasto a intimidazioni ed estorsioni. Oltre a una serie di interventi che avrebbero dovuto sortire effetti a lungo termine. Non sappiamo se i risultati non ci siano stati perché il piano era inadeguato o solo perché non è stato attuato. Quel che sappiamo è che era stato elaborato dal vicecapo della polizia, prefetto De Sena. E che, nonostante quelle misure – allora considerate idonee a rispondere all’offensiva ’ndranghetista – le intimidazioni e le estorsioni sono continuate in un crescendo culminato nell’omicidio del 16 ottobre.

Altri superprefetti. Immaginare che una persona, pur con l’esperienza e le capacità di De Sena, possa risolvere una situazione incancrenita come quella calabrese è illusorio. Significa creare aspettative ingiustificate che si scontrano con il buon senso e con la memoria storica. Come dimenticare la vicenda del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva combattuto con successo il terrorismo, e fu nominato, dopo l’assassinio di Pio La Torre, prefetto di Palermo per risolvere la questione mafia? Fu ucciso il 3 settembre 1982, poche settimane dopo il suo insediamento a Palermo. Dalla Chiesa venne lasciato solo e non gli furono concessi gli ampi poteri che aveva richiesto e che oggi, invece, pare siano stati concessi al neoprefetto di Reggio Calabria. Poteri straordinari ebbe invece, oltre mezzo secolo prima, quel Cesare Mori – detto il “prefetto di ferro ” – che Mussolini inviò a Palermo nell’ottobre 1925: nei quattro anni in cui operò nell’isola ottenne consistenti risultati nei confronti della cosiddetta “bassa mafia”, ma dopo aver riempito le carceri siciliane di “picciotti” fu repentinamente prepensionato quando osò spingersi sulla soglia dell’“alta mafia”, quella dei proprietari terrieri che il Regime stava progressivamente arruolando.
Cosa accadrà con De Sena? Dopo l’arresto di qualche latitante (già quest’anno ne sono stati assicurati alla giustizia di importanti e l’organizzazione non ne ha risentito), dopo che i riflettori dei media si saranno spostati su qualche altra emergenza, lo Stato rimarrà fermo nel considerare la Calabria una priorità? Quando De Sena e i suoi investigatori si spingeranno nel ginepraio di connivenze che imbrigliano la società calabrese saranno ancora sostenuti da Roma o saranno lasciati soli? Monterà nei suoi confronti il consueto fastidio istituzionale, magari trasversale alle forze politiche, che si genera regolarmente verso chi non sa stare al suo posto? In nome di un malinteso garantismo, si chiederà “maggiore cautela in certe inchieste”? Verrà stigmatizzato il clima da caccia alle streghe che “frena lo sviluppo della Calabria”?

Un primo polverone. Dire che i problemi da affrontare sono complessi è un eufemismo. La storia dell’antimafia insegna che tutti coloro che hanno cercato di cambiare le cose concretamente hanno puntualmente incontrato sulla loro strada trabocchetti e sabbie mobili, nella quali, prima o poi, si sono impantanati.
Il primo polverone è stato sollevato nelle ore successive alla morte di Fortugno. Dal nulla sono comparsi alcuni tabulati telefonici che, tra centinaia di migliaia di telefonate controllate nell’ambito del processo celebrato a Milano contro i narcotrafficanti del clan Morabito, rivelano alcuni contatti tra la vittima e Giuseppe Pansera, medico di Melito Porto Salvo, genero del boss Giuseppe Morabito, detto “’u Tiradrittu”. Entrambi, genero e suocero, furono arrestati in un nascondiglio in Aspromonte nel febbraio 2004 e oggi Pansera sconta una condanna a 16 anni per traffico di stupefacenti nel carcere di Parma. Le telefonate risalgono al periodo tra il 1997 e il 2000, quando Pansera non era ancora ricercato dalle forze dell’ordine. La vedova Maria Grazia Laganà ha presto chiarito con gli inquirenti che si trattava di normali comunicazioni tra colleghi (Fortugno era primario del pronto soccorso dell’ospedale di Locri) relative al rinnovo del Consiglio provinciale dell’Ordine dei medici. Dodici telefonate in tutto, tutte di poche secondi, ritenute ininfluenti dagli investigatori ai fini dell’inchiesta sul delitto. Ma per giorni è stata diffusa l’idea su alcuni quotidiani che questo primario della Locride (con moglie direttore sanitario, con suocero un democristiano storico come Mario Laganà), proprio pulito probabilmente non fosse. Ma chi aveva interesse a insinuare il dubbio sulla personalità di Fortugno? Perché gettare fango sul suo cadavere ancora caldo? Forse per disinnescare un’imminente reazione dello Stato? Per stemperare l’attenzione su un omicidio che si voleva far passare come un regolamento di conti all’interno di ambienti poco limpidi?

Magistratura in crisi. Se sarà solo l’inizio di una nuova stagione di veleni volta a stroncare sul nascere ogni velleità di rinnovamento si capirà presto. Certamente De Sena opererà in una realtà fatta di inefficienze e collusioni che coinvolgono non solo i politici, ma anche i rappresentanti delle forze dell’ordine e gli stessi magistrati. Per quanto riguarda i primi, se le cose non stessero così il Ministro Pisanu non avrebbe insistito sulla necessità di inviare in Calabria investigatori di altre Regioni, «immuni da condizionamenti ambientali». Segno che quei condizionamenti ci sono, e che sono pesanti (ma bisognava proprio aspettare il morto eccellente per rendersene conto?). Per quanto riguarda le inefficienze della magistratura calabrese, sono un fatto arcinoto. Lo Stato non si è mai interessato di quelle Procure di frontiera valorizzandole come meritavano. Le colpe sono sia della politica (Governo e Parlamento) sia del Csm, che negli anni hanno lasciato che si deteriorassero situazioni complesse (spesso definite sui giornali “verminai”), fatte di lotte intestine all’interno delle Procure principali (Catanzaro e Reggio), rivalità tra le stesse, di contrasti tra magistrati divisi da differenti concezioni dell’azione antimafia. Tutto ciò ha creato una situazione di stallo: nelle Procure Calabresi nessuno vuole andare, spesso le inchieste finiscono nelle mani di magistrati giovani e inesperti, che appena possibile chiedono il trasferimento. Così non si formano conoscenze approfondite e la memoria storica delle cosche si disperde. Come ha dichiarato il senatore Ds Guido Calvi, «in Calabria l’intero apparato di contrasto alla ’Ndrangheta è dissolto, a cominciare dalla magistratura. E per questo abbandono sono tutti responsabili. Non ci sono innocenti».

Film già visto? Di fronte a tale scenario, la sensazione di assistere all’ennesimo episodio di una vicenda già vista, priva di lieto fine, è difficile da rimuovere. La storia dell’antimafia è ricca di manifestazioni popolari indignate presto assopite, di lenzuola alle finestre rapidamente ripiegate, di aspettative dei giovani a breve tradite. Di fronte alla manifestazione di Locri, all’ottimismo che sorge dal vedere finalmente tanti ragazzi – e non solo – scendere in piazza contro la mafia, si contrappone il pessimismo della ragione, che non può dimenticare di aver visto altre “primavere” sfiorire precocemente. Abbiamo già visto Presidenti della Repubblica abbracciare i figli delle vittime, abbiamo già visto superprefetti calati nelle terre di mafia come “deus ex machina” fallire perché non sostenuti da una volontà politica determinata a mantenere alto il livello dello scontro una volta esaurito il pathos dell’emergenza. Lo ha ribadito recentemente il vescovo di Locri, monsignor Brigantini: «Il problema è Roma, che ogni volta manda qualcuno a fare discorsi indignati e poi, il giorno dopo, dimentica». Praticamente le stesse parole che pronunciò il cardinale Pappalardo durante l’omelia del funerale Dalla Chiesa: «“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata. Questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra». La storia, purtroppo, si ripete...

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