Da Famiglia cristiana del 14/12/2003

Esclusivo: omicidio Li Causi, nuove inquietanti rivelazioni

In morte di uno 007

L’inchiesta sull’assassinio dell’uomo dei servizi segreti in Somalia è stata archiviata. Ma per ben due volte un presunto killer sarebbe stato identificato. E non arrestato.

di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari

È un giallo che dura da 10 anni. Nessuno sembra volerlo o poterlo risolvere. Punta di diamante del Sismi, addestratore di Gladio, capo del misterioso Centro scorpione di Trapani, da più parti indicato come uomo degli Ossi (Operatori speciali servizi italiani), il maresciallo Vincenzo Li Causi muore in Somalia il 12 novembre 1993, vittima di un agguato mai chiarito.

Un giallo di rado finito in prima pagina. Nei giorni scorsi, però, il quotidiano Avvenire ha riacceso i riflettori sulla vicenda. L’inchiesta condotta dal pm romano Franco Ionta è finita con la richiesta d’archiviazione; per ben due volte il ministero della Giustizia (all’epoca guidato prima da Flick e poi da Diliberto) ha negato l’autorizzazione a indagare su un somalo sospettato di essere colpevole. I ministri smentiscono di essersi mai occupati del caso: sulle loro scrivanie, dicono, quelle carte non sono mai arrivate. Perché? Un giallo nel giallo.

Oggi Famiglia Cristiana è in grado di rivelare nuovi inquietanti particolari. Il nome del maresciallo Li Causi e quello del suo collega del Sismi Giulivo Conti (al suo fianco, in Somalia, anche durante l’agguato mortale) compaiono nelle carte relative alle indagini sulla Falange armata, sigla usata per rivendicare una lunga serie di attentati, dagli omicidi di Falcone e Borsellino alle stragi mafiose del 1993, e dietro la quale gli investigatori hanno spesso intravisto l’ombra di pezzi deviati delle istituzioni. Sia Li Causi sia Conti hanno fatto parte della VII Divisione del Sismi, che aveva anche il compito di gestire la struttura di Stay Behind, ovvero Gladio. Non solo. Nell’ambito dell’inchiesta sulla Falange armata risulta che gli investigatori, nel 1994, abbiano svolto accertamenti anche su Giulivo Conti e Vincenzo Li Causi. Si sa, comunque, che successivamente la VII Divisione fu sciolta.

Una biografia da "Rambo"

Ma chi è veramente Vincenzo Li Causi? Nato a Partanna, in provincia di Trapani, nel 1952, carabiniere, Li Causi s’addestra con i duri del Comsubin, gli incursori della Marina. A 22 anni entra nel Sid (vecchio nome dei servizi). Nel 1975 diventa istruttore di Gladio. In una lettera datata 23 settembre 1997 e spedita ai presidenti delle Commissioni antimafia e di Controllo sui servizi segreti, Falco Accame scrive che Li Causi faceva parte anche degli "Ossi", la struttura segretissima di Gladio che effettuava operazioni di "guerra non-ortodossa", e che la II Corte di assise di Roma ha dichiarato eversiva dell’ordine costituzionale. L’esistenza degli "Ossi", del resto, era stata confermata, nel suo libro di memorie, dallo stesso ex direttore del Sismi ammiraglio Fulvio Martini.

Tra l’80 e l’81, Li Causi segue l’attività di Abu Abbas, il leader del Fronte di liberazione della Palestina che, proprio in quel periodo, si sarebbe recato più volte a La Spezia per preparare il sequestro della nave Achille Lauro, poi avvenuto nell’ottobre del 1985. Partecipa a operazioni importanti, come la liberazione del generale Dozier, rapito dalle Brigate rosse (1981). Nel 1987, a Li Causi viene affidata una delicata missione in Perú, ufficialmente per addestrare la scorta del presidente Garcia e per consegnare materiale militare.

Secondo una nostra fonte – un ex "gladiatore" che chiede l’anonimato – il viaggio in realtà serve a recuperare il denaro nascosto da Roberto Calvi dopo il crack del Banco Ambrosiano. Tra il 1987 e il 1990, Li Causi dirige il Centro scorpione di Trapani. Nel 1993 è in Somalia, al seguito del contingente militare italiano che opera nell’ambito della missione Unosom. Muore all’imbrunire del 12 novembre di 10 anni fa.

Sin da subito le versioni si contraddicono. Le prime notizie raccontano una rapina finita male, tentata da un gruppo di banditi somali appostati lungo la strada Mogadiscio-Balad. Con Li Causi ci sarebbe stato un solo altro uomo. Ma il generale Carmine Fiore, comandante del contingente italiano, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla cooperazione sostiene che gli uomini con Li Causi erano quattro e che le cose andarono diversamente.

Famiglia Cristiana ha rintracciato tre dei militari presenti all’agguato: Baldassare Pollari (oggi in congedo), Alessandro Mantuano e Gianfranco Colosimo, entrambi ancora nell’Esercito. Manca il quarto uomo. Che è appunto Giulivo Conti detto Ivo, agente del Sismi distaccato a Balad. Cos’è accaduto in realtà? Le testimonianze raccolte risultano concordare su alcuni punti. Il primo: la "missione" quel pomeriggio era solo una battuta di caccia, non un’operazione d’intelligence come detto a caldo.

La scena dell’agguato

Nel tardo pomeriggio il mezzo militare VM-90, con i cinque a bordo, si avvia sulla strada del ritorno. Nei pressi di una curva, dove la pista attraversa la boscaglia, il mezzo rallenta. Li Causi, che si trova in piedi nella posizione più elevata, vede qualcosa che lo insospettisce e intima all’autista di fermarsi. Dopo pochi secondi si scatena un inferno di fuoco. I somali (quattro o cinque) sparano, i nostri soldati rispondono. Ivo scende dal mezzo, sempre sparando. Cerca di individuare gli aggressori, aggira il VM-90, corre in avanti, lo supera di qualche decina di metri sulla destra.

Li Causi è l’unico che resta in piedi, al centro del cassone scoperto. Fa in tempo a vedere qualcuno, gli grida: «Ehi, tu, che ci fai qua, togliti di mezzo». Chiede al compagno più vicino di passargli la mitraglietta. Poi viene colpito alla schiena, all’altezza del rene destro, con una traiettoria dal basso verso l’alto. La jeep riparte, Ivo risale al volo, si mette al volante e corre a tutta velocità verso il comando di Balad, dove Li Causi – a quanto riferiscono concordemente i tre commilitoni – arriva senza vita. Un esame del mezzo permetterà di verificare un fatto singolare: della gragnuola di colpi che ha investito i cinque, solo pochissimi proiettili hanno raggiunto il bersaglio. Uno ha ucciso Li Causi, un altro paio ha trapassato il blindato.

Questo il racconto di chi era con lui. Famiglia Cristiana ha rintracciato anche coloro che l’hanno accolto al campo di Balad: vivo, non morto. Il medico, Salvatore Neri, in particolare dichiara: «Quando Li Causi è arrivato al campo di Balad era vivo. Sono accorso appena mi hanno chiamato, 8-10 minuti al massimo. Era agonizzante, ma vivo».

Lo confermano anche gli altri presenti: il generale Carmine Fiore e il colonnello Giuseppe Attanasio. Il medico aggiunge dettagli importanti: «Ho redatto io il referto dell’esame del corpo. Vincenzo aveva una forte emorragia interna. Era stato colpito da un proiettile ad alta velocità. Lo si evince dal foro d’ingresso, molto piccolo, e da quello d’uscita più grande ma non devastante».

E a proposito dell’arma, l’ex gladiatore ci fornisce un elemento ulteriore: a sparare il colpo mortale non sarebbe stato un AK-47, cioè un kalashnikov, ma un fucile di precisione a telemetro "dragunov", arma di produzione sovietica che utilizza gli stessi proiettili dell’AK-47. Arma che i somali non hanno.

«Li Causi il giorno dopo doveva rientrare in Italia per essere interrogato dai giudici che si occupavano di Gladio e del Centro Scorpione», aggiunge la nostra fonte. «Vincenzo conosceva bene Ilaria Alpi e probabilmente ha parlato con lei di argomenti intoccabili». L’amicizia tra Li Causi e la Alpi ci è stata confermata dai colonnelli Giuseppe Attanasio e Franco Carlini, nonché dal maresciallo dei carabinieri Francesco Aloi.

L’ex capitano della polizia somala

L’inchiesta del pm Franco Ionta, tuttavia, è stata archiviata. Il magistrato ha dovuto fermarsi, come abbiamo già accennato, di fronte al rifiuto ministeriale di proseguire nelle indagini su un presunto colpevole somalo.

«È stato ascoltato l’ex capitano della polizia somala I.M.M., il quale ha dichiarato di aver svolto indagini sulla morte di Vincenzo Li Causi riuscendo a identificare l’assassino», scrive tra l’altro il dottor Ionta nella richiesta di archiviazione datata 26 giugno 1999. A dare impulso all’inchiesta era stata in effetti una nota riservata dello Stato maggiore dell’Esercito, datata 13 marzo 1998, in cui si ricostruiva puntualmente la vicenda.

Sorprende il fatto che diversi testimoni sentiti dal magistrato riferiscano che il sospettato fosse stato individuato già all’indomani dell’omicidio: i militari italiani erano pronti a catturarlo, ma vennero bloccati dal capocentro Sismi di Mogadiscio, che avrebbe avocato al servizio segreto il compito di rendere giustizia al collega. Di fatto, si sono perse ben due occasioni per chiarire il caso.

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