Da La Repubblica del 15/04/2005

CRIMINI DI ALLORA, OMERTÀ DI OGGI E UN PROCESSO INTERNAZIONALE CHE NON PARTE

La Norimberga che nessuno vuole

di Federico Rampini

È la Norimberga che nessuno vuole. A trent´anni dalla presa di potere dei khmer rossi in Cambogia una rete di omertà locali e internazionali protegge ancora i responsabili di uno dei genocidi più atroci della storia. Gli eredi del sanguinario Pol Pot che sono tuttora al governo; la Cina; perfino l´America: c´è di tutto nella coalizione di forze che finora hanno ritardato il processo internazionale. Eppure il bisogno di giustizia è evidente. Da quel 17 aprile del 1975 in cui Pol Pot e le sue truppe "liberarono" la capitale Phnom Penh, in soli tre anni otto mesi e venti giorni sterminarono un quarto della popolazione della Cambogia: in proporzione, Pol Pot merita un posto a fianco di Hitler e Stalin.
Anche quelli che scamparono ai "killing fields" spesso subirono ferite incurabili: i traumi psicologici patiti nei campi di rieducazione dove i khmer rossi dovevano creare l´uomo nuovo, il comunista perfetto. Kofi Annan ha parlato di «crimini di una dimensione quasi impossibile da comprendere». Non c´è famiglia in Cambogia che non abbia perso qualcuno sotto le armi dei khmer rossi. «Questa gente deve vedere un po´ di giustizia per poter sperare che simili orrori non si ripeteranno più», ha detto Thun Saray, presidente della Cambodian human rights and development Association. Con un quarto di secolo di ritardo, nel gennaio 2001 il parlamento di Phnom Penh ha finalmente varato una legge che stabilisce il principio di un tribunale straordinario. Le Nazioni Unite ci hanno messo poi altri due anni e mezzo per adottare una risoluzione che stabilisce le regole del tribunale: la composizione mista (cambogiani e stranieri), le pene previste, la durata di tre anni, i finanziamenti da ripartire fra più paesi. A quel punto è cominciato un altro gioco al rinvio sugli stanziamenti dei fondi: brillano in questa tattica dilatoria la Cambogia - che almeno ha l´alibi della povertà - e gli Stati Uniti. Intanto Pol Pot è morto da sette anni, solo dieci ex leader dei khmer rossi sono attualmente passibili di incriminazione, e solo due sono detenuti: Ta Mok detto "il macellaio" e Kaing Khek Ieu, comandante del campo della morte Tuol Sleng dove fece uccidere 20 mila persone. «Nella Cambogia di oggi - ha detto Thomas Hammarberg che vi ha lavorato a lungo come rappresentante dell´Onu - il più grosso problema dei diritti umani è l´impunità. Ci sono dei serial killer, degli sterminatori di massa che girano in tutta libertà, alcuni perfino trattati come vip».
L´attuale premier Hun Sen, al potere da vent´anni e capace di pilotare lentamente la Cambogia verso la rispettabilità internazionale, è un campione di ambiguità. Nel 1998 prese pubblicamente le distanze dall´idea del tribunale, bollandola come «il ritorno della guerra civile». Secondo lui la ricetta giusta è, letteralmente, «scavare un buco e seppellirci il passato». Che a lui convenga è comprensibile. Ex khmer rosso, Hun Sen è andato al potere stringendo un patto con i due più stretti collaboratori di Pol Pot, l´ex premier Khieu Sampan e Noun Chea, che ora si godono un´agiata pensione nella zona franca di Pailin, con l´immunità a vita. Ma il premier cambogiano governa una nazione poverissima, dipendente dagli aiuti esterni. Se fosse sottoposto a una vera pressione della comunità internazionale dovrebbe cedere. Lo sconcertante ritardo del tribunale chiama in causa attori ben più potenti. La Cina appare invisibile in questa vicenda, come se non la riguardasse. Ufficialmente, non è ancora abbastanza ricca per partecipare al finanziamento del tribunale internazionale (il donatore più generoso è il Giappone, che ha versato 21,6 milioni di dollari). In realtà se c´è un paese che non ha voglia di veder rivangare le atrocità dei khmer rossi è proprio la Cina. Pol Pot era un vassallo di Pechino. Un po´ per la sua evidente filiazione ideologica dalla Rivoluzione culturale maoista, e soprattutto per motivi geostrategici, i cinesi lo sostenevano. Perfino il pragmatico Deng Xiaoping - che con la Rivoluzione culturale delle Guardie rosse non aveva alcuna affinità - si guardò bene dal mollare i khmer rossi che fungevano da Stato-cuscinetto (come la Corea del Nord). Quando il Vietnam comunista all´inizio del 1979 invase la Cambogia e cacciò Pol Pot, la Cina di Deng decise che l´affronto non poteva restare impunito. Pechino reagì con un´altra aggressione fratricida, lanciò il suo Esercito di Liberazione popolare in una sanguinosa (e disastrosa) invasione del territorio vietnamita. Furono gli anni dei boat-people, il periodo dei feroci regolamenti dei conti all´interno di ogni paese e fra regimi comunisti, che oltre ai milioni di morti costrinsero molti a cercare scampo in una disperata fuga via mare. I fortunati arrivarono in America, i più morirono nelle tempeste o negli attacchi dei pirati.
Gli Stati Uniti, che a oggi non hanno versato un solo dollaro per il tribunale, hanno i loro scheletri nell´armadio: in base alla regola che "il nemico del mio nemico è mio amico", appena ritiratisi dal Vietnam cominciarono a sostenere clandestinamente i khmer rossi, solo perché erano una spina nel fianco dell´odiato regime di Hanoi. Seguendo questa limpida coerenza democratica, gli americani si batterono per anni perché Pol Pot conservasse il suo seggio alle Nazioni Unite.
Quasi invisibile, in mezzo a tanti interessi coalizzati dentro il partito dell´omertà, chi ha davvero bisogno di Norimberga è il popolo cambogiano. E insieme a lui tanti altri popoli oppressi, fino al Darfur. Vedere gli autori delle stragi davanti a un tribunale è l´unico barlume di speranza per un futuro diverso.

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