Da Corriere della Sera del 23/10/2005
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/10_Ottobre/23/banelli...

Parla l’ex terrorista Cinzia Banelli: «Un giorno le Br potrebbero tornare»

«Il mio ultimo esame sui libri di Biagi quattro giorni prima di essere arrestata»

di Giovanni Bianconi

PISA — Università di Siena, 20 ottobre 2003, giorno d’esami in Diritto del lavoro, prova scritta. Per prepararsi gli studenti hanno studiato sui libri del professor Marco Biagi e una delle domande riguarda il contenuto della cosiddetta «legge Biagi» sul lavoro subordinato, la collaborazione coordinata continuativa. Tra i dottorandi che devono rispondere c’è pure Banelli Cinzia, un diploma da tecnico di laboratorio da convertire in laurea di primo livello. Quattro giorni più tardi la polizia bussa in casa sua per arrestarla: è una brigatista rossa, nome di battaglia «Sonia», ha fatto parte del commando che uccise il professor Biagi un anno e sette mesi prima di quell’esame. «Ricordo che qualche settimana più tardi, durante un colloquio in carcere, mio marito mi disse che avevo preso 30. Io i testi di Biagi li conoscevo già...».
Li conosceva da quando aveva detto sì all’omicidio del professore, partecipato ai pedinamenti e poi all’esecuzione del delitto. Più tardi quei testi l’aiutarono a superare un esame col massimo dei voti. E’ uno dei paradossi di una vicenda drammatica e assurda insieme, la rinascita del terrorismo politico in Italia ad oltre dieci anni di distanza dallo smantellamento delle vecchie Brigate rosse. E’ la storia della nuove Br raccontata per la prima volta fuori da un’aula di giustizia dall’ex brigatista Cinzia Banelli, 42 anni da compiere tra pochi giorni, oggi pentita ma senza la protezione che lo Stato assicura normalmente ai collaboratori. «Sono una traditrice per i miei ex compagni, un’opportunista per l’opinione pubblica e non so che cosa per lo Stato — dice nell’intervista realizzata tramite il suo avvocato — ma rifarei ugualmente questa scelta».

PRIMO OMICIDIO

Nella villetta a due piani lungo la strada che divide il piccolo centro di Vecchiano, alle porte di Pisa, dove Cinzia Banelli vive agli arresti domiciliari, la donna aspetta che si svegli suo figlio Filippo, nato un anno emezzo fa mentre lei era in carcere. In casa ci sono anche i genitori, i nonni di Filippo, che devono portarlo al parco; lei non può, divieto d’uscita. Il marito è al lavoro, dove ogni giorno lo accompagna una scorta armata. Fuori, una camionetta dei carabinieri è il segno che questa è una casa prigione, i militari controllano chi entra, chi esce, chi passa. E’ il tran-tran di una vita cambiata una mattina di maggio del 1999, quando Cinzia Banelli prese un treno per Roma, andò in via Salaria e partecipò all’assassinio di Massimo D’Antona, la prima vittima delle nuove Br. «Durante il viaggio d’andata pensavo solo a ciò che avrei dovuto fare nell’azione — racconta l’ex brigatista — ripetevo le frasi da dire via radio, come dovevo muovermi. C’era una preparazione meticolosa emilitare, senza il tempo per altri pensieri. Ero convinta di andare a compiere un’operazione politica, non un omicidio».
Massimo D’Antona, consulente del ministro del Lavoro Bassolino, il 20 maggio 99 morì ammazzato da sei colpi di pistola. «Dopo il delitto mi sono allontanata secondo il programma prestabilito. Sul treno del ritorno a casa il peso e la responsabilità di ciò che avevamo appena fatto si fecero sentire. Io avevo votato per l’eliminazione dell’obiettivo, pur senza aver sparato avevo portato il mio compagno Mario Galesi a farlo. Ebbi la sensazione di aver provocato qualcosa che cambiava non solo la vita di altre persone, ma pure la mia. Per sempre».
La sera, a casa col fidanzato ignaro di tutto, Cinzia Banelli seguì il telegiornale provando a cambiare discorso. E cominciò ad affrontare il disagio che l’avvolgeva ogni volta che usciva dal microcosmo brigatista rientrando nel mondo: in famiglia, al lavoro, con gli amici, «quelli che sapevano delle mie idee rivoluzionarie ma mi consideravano un’utopista. Qualcuno mi ci prendeva anche in giro». L’avvicinamento alla politica per Cinzia Banelli avvenne alla fine degli anni Ottanta, quando giunse a Pisa da Grosseto. «Avevo già 26 anni e cominciai a frequentare ambienti e discorsi di un certo tipo. Tutto ancora nell’ambito della legalità, con toni estremisti ma mai violenti. Io non sono mai stata attratta dalla violenza diffusa né la violenza diffusa c’entra con la lotta armata». In quegli ambienti cominciarono a circolare gli scritti dei «prigionieri politici» delle Br, gli irriducibili chiusi in carcere. «Dalla lettura di quei testi s’avviò un dibattito che poi è proseguito in ambito più ristretto». Da lì nacquero i Nuclei comunisti combattenti, poi divenuti Brigate rosse con l’omicidio D’Antona. Tra loro c’era Cinzia Banelli diventata Sonia, «So.» nel linguaggio cifrato brigatista.

RIUNIONE AL BAR

Com’è possibile che a 11 anni di distanza dall’ultima azione brigatista si possa pensare che la lotta armata sia ancora praticabile in Italia, senza più il «contesto» sociale e politico che la favorì negli anni Settanta? «Ma noi abbiamo ripreso il discorso là dove s’era interrotto, nel 1988 con l’omicidio Ruffilli, quando già quel contesto non c’era più —risponde la Banelli —. Conta la strategia, che si fa testimonianza: la volontà di tenere accesa una fiaccola, di dire che c’è ancora spazio per un’opposizione combattente anche se non arriverà alla vittoria. Io non ho mai pensato di fare la rivoluzione, ma di riproporre il patrimonio politico-teorico delle Br, la strategia della lotta armata a prescindere di una lotta di classe diffusa». Quindi l’assenza del «contesto» non è un anticorpo contro il terrorismo? «No e la nostra storia lo dimostra. Per questo penso che un giorno le Br potrebbero tornare. Non oggi né domani, ma un giorno... E’ possibile ».
Tre anni dopo D’Antona toccò a Marco Biagi, consulente del ministro del lavoro Maroni. In mezzo, per Cinzia Banelli, un matrimonio molto borghese nascosto ai compagni delle Br — «sapevano soltanto della mia convivenza» — qualche scontro politico e non solo: «Nel 2000 mi proposero di passare all’impiego part-time per aumentare il lavoro nell’organizzazione, ma dissi di no. Ebbi degli scontri con Galesi perché mettevo il limite della mia vita privata all’impegno politico. Per lui le Br erano tutto, mi diceva sempre che girava armato per non farsi prendere vivo. Com’è accaduto».
La preparazione del delitto Biagi, «deciso in un’ultima riunione tenutasi in un American bar di viale dei Mille a Firenze, con i tavolini all’interno», coinvolse direttamente la brigatista amezzo servizio. La sera del 19 marzo 2002 Biagi fu ucciso sotto casa, Cinzia Banelli faceva parte del commando e come sempre aveva il problema di non far sorgere sospetti nei suoi familiari: «Era la festa del papà e in quell’occasione telefonavo sempre a mio padre. Lo feci anche quel giorno, da Porretta Terme, altrimenti si sarebbe chiesto come mai non gli avevo fatto gli auguri. Poi pensai che stavo uccidendo un padre... Ti senti un verme, ma l’idea che lo fai per un fine che consideri più alto ti porta a superare anche questo... Purtroppo è così. Solo al di fuori del progetto brigatista la vita umana riacquista il suo valore».
Cinzia Banelli ne uscì all’indomani dell’omicidio Biagi, in concomitanza con una crisi al vertice dell’organizzazione, rimasta decapitata sul treno Roma-Firenze, il 2 marzo 2003. Mario Galesi morì dopo aver ucciso il sovrintendente di polizia Emanuele Petri, Nadia Lioce finì in carcere con la prospettiva dell’ergastolo.
«Proprio loro che m’imputavano uno scarso rispetto delle regole — commenta la pentita —l e avevano violate. Viaggiare nello stesso scompartimento, una sola arma, numeri di telefono da cui si poteva risalire ad altri. Ci avevano detto che erano state prese tutte le precauzioni, ma evidentemente non era così». Da quei numeri di telefono gli investigatori arrivarono anche alla casetta di Vecchiano abitata da marito e moglie con figlio in arrivo: «In non pensavo che potessero risalire a me. Non avevo una storia politica alle spalle, ormai ero fuori dalle Br sia nella realtà che mentalmente. Tanto da decidere di mettere al mondo un figlio».Mauna notte, il campanello della villetta suonò. Andò a rispondere il marito di Cinzia. «Disse che era la polizia, capii subito tutto».

IL PENTIMENTO

In carcere, la strada verso la collaborazione è stata lunga e tortuosa. Al primo tentativo l’aspirante pentita ha provato a chiamarsi fuori dagli omicidi. «Stupidamente» ha detto davanti ai giudici. E adesso spiega: «Non è facile accusarsi di essere un’assassina davanti ai propri familiari. Temevo l’ergastolo ma al tempo stesso di proteggere l’organizzazione. Così mi sono decisa a dire tutto, anche di quei due delitti». E in famiglia come l’hanno presa? «Hanno scelto di restarmi vicini. Tutti. Anche mio padre, vecchio militante del pci, che se avesse saputo qualcosa prima mi avrebbe denunciato. Mi hanno detto che a loro non dovevo rendere conto, "è con la vedova del professor Biagi che devi parlare"».
Alle mogli di Marco Biagi e Massimo D’Antona, Cinzia Banelli ha scritto due lettere, consegnate in busta chiusa tramite gli avvocati. La notizia è venuta fuori durante il processo di Bologna e le due vedove hanno mostrato di non aver gradito. Oggi la donna che ha aiutato a uccidere i loro mariti dice: «Per quanto poco possano valere, io ritenevo dovute quelle scuse e non intendevo farle diventare pubbliche. Ovviamente loro hanno tutto il diritto di rifiutarle e non ho alcun titolo per invadere ancora la loro vita. Purtroppo non posso ripagare nulla».
La scelta della collaborazione è soprattutto per dare un futuro al bambino: «Durante la mia detenzione una agente penitenziaria captò una conversazione tra Lioce e Morandi. Lui non voleva credere che avessi deciso di collaborare e diceva che doveva essere a causa di mio figlio; lei replicò che sbagliavo, perché un giorno mio figlio mi avrebbe chiesto conto del mio tradimento. Vorrei dirle che la sua profezia non mi spaventa affatto, sono pronta a spiegargli che si può sbagliare e imparare dai propri errori, che cambiare idea può essere anche indice volontà riparatrice e risarcitoria. Piuttosto mi terrorizzava l’idea di dover dire a mio figlio che l’avevo abbandonato per coerenza e fedeltà a un’idea nella quale non credevo neanche più, che apparteneva a pochi e che seminava morte. Capisco che questi sentimenti possano sembrare un retaggio borghese, ma io li trovo solo profondamente umani e mi basta».

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