Da Gnosis del 01/03/2006
Originale su http://www.sisde.it/Gnosis/Rivista6.nsf/ServNavig/11

La banda 'XXII ottobre' a Genova e la malavita come terrorismo

di Leonardo Marino

Lo scopo per cui nacque il gruppo 'XXII ottobre' - per stessa ammissione dei suoi appartenenti- era stato quello di introdurre, nella vita politica italiana, il metodo della guerriglia urbana, caratterizzato da esplosioni, incendi e sabotaggi, dandone la maggiore pubblicità possibile nella speranza di ottenere, così, il progressivo diffondersi di un sostegno popolare alle proprie azioni ed ai propri obiettivi. Per utilizzare lo stesso linguaggio dei componenti della banda, il fine perseguito dal gruppo 'XXII ottobre' era quello di "scardinare i poteri dello Stato".
Questo almeno è quanto emergeva dai propositi manifestati dai membri dell'organizzazione; non si può certo nascondere che, da una rilettura critica delle vicende legate alla vita del gruppo, lo spessore politico dei suoi appartenenti -vertice incluso- fosse piuttosto modesto e che a muovere l'organizzazione sia stata, forse, la ricerca, ad ogni costo, di un cambiamento radicale in evidente dissenso dal modo con cui il PCI dell'epoca portava avanti le proprie battaglie politiche.
Sotto il profilo prettamente operativo la banda 'XXII ottobre' non faceva mistero di ispirarsi ai metodi della guerriglia urbana, teorizzati dal rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella nel suo "Piccolo Manuale del guerrigliero urbano". Molte delle azioni, poste in essere dal gruppo, collimavano perfettamente, quanto anche gli obiettivi prescelti, con i contenuti del manuale che individuava nei rappresentanti del mondo capitalistico ed industriale (tra cui gli Stati Uniti d'America), ed in coloro che ne preservavano l'integrità, i nemici contro cui condurre una sfiancante e sistematica azione di sabotaggio e distruzione.
Non è un caso se, tra le imprese delittuose realizzate dal gruppo 'XXII ottobre', vi siano stati attentati incendiari nei confronti di aziende o gruppi industriali che rappresentavano, all'epoca, i simboli più chiari del capitalismo italiano (tra cui la Ignis e la raffineria Garrone) e, altresì, all'indirizzo di obiettivi di evidente rappresentatività istituzionale (sede del consolato USA di Genova o caserme dell'Arma dei Carabinieri).
Ma l'aspetto che più segnò, in negativo, le sorti della banda e ne compromise ogni velleità di futuro consolidamento ed affermazione fu l'incapacità di far leva sul movimento di protesta che si era formato in Italia, sul finire degli anni '60, e di creare con esso un terreno di confronto e, al contempo, di sostegno alle proprie azioni.
Era prevalsa, probabilmente, la convinzione-presunzione che la Genova dell'inizio degli anni '70 avesse ancora conservato i connotati che l'avevano caratterizzata nel corso del secondo conflitto mondiale, che erano valsi, peraltro, a conferire alla cittadinanza la medaglia d'oro della resistenza - o, in epoca più recente, le stesse pulsioni che avevano portato alla caduta del governo Tambroni, per i noti episodi di Piazza de' Ferrari dell'estate del 1960.
In realtà, questa aspirazione, quella cioè di unire in un unico contesto sociale i movimenti studenteschi dell'autunno caldo del 1969 e le lotte operaie per i diritti sindacali nelle fabbriche, si concretizzò solo qualche anno più tardi a partire dal 1975, epoca in cui la 'XXII ottobre' poteva oramai solo essere ricordata come una tra le tante pagine tristi e sanguinose che segnarono la storia del terrorismo rosso nella città di Genova.
Non che la banda avesse sottovalutato l'importanza dell'attività di propaganda e, soprattutto, la necessità di rimarcare il legame ideologico con i movimenti del passato. Le famose interferenze sul primo canale della R.A.I., con cui il gruppo rivendicò le sue prime azioni delittuose, e, poi, tutte le altre iniziative realizzate nel corso del 1970 e del 1971, dimostravano l'attenzione riposta dall'organizzazione verso una forma embrionale di propaganda mediatica e, ancor più, il richiamo che in esse si faceva alla denominazione di GAP (Gruppi di Azione Partigiana) ed alla lotta verso il capitalismo, il fascismo, gli industriali, gli Usa, la Nato e la Spagna franchista, denotavano, almeno in teoria, la volontà di far leva sullo spirito di lotta contro l'oppressore, che era stato il propulsore emotivo della resistenza condotta dai primi gruppi di azione partigiana genovesi dopo il settembre del 1943.


Il gruppo e i suoi appartenenti

Leader indiscusso della compagine associativa fu il genovese Mario Rossi, all'epoca dei fatti poco più che trentenne. Assieme a lui furono individuati come fondatori del gruppo, che prende il nome dal giorno in cui fu costituito - ossia il 22 ottobre 1969 - Augusto Viel, Giuseppe Battaglia, Adolfo Sanguineti e Alfredo Maino.
La stragrande maggioranza dei suoi appartenenti, che arriveranno ad essere in tutto non più di 25, nel periodo di massima capacità organica del gruppo, proveniva dalla Val Bisagno (1) ed erano, per lo più, esponenti del ceto proletario, anche se, come si vedrà, il dato più caratteristico della 'XXII ottobre' era quello della eterogeneità delle provenienze politiche dei suoi appartenenti.
Alcuni di essi vantavano anche un' iscrizione al Partito Comunista Italiano, ma è assodato che gli stessi maturarono, ben prima dell'avvio delle azioni della banda, un orientamento di decisa rottura con la politica e l'organizzazione del PCI, aderendo, in particolare, ai nascenti gruppi maoisti.
Ma a far parte della 'XXII ottobre' furono anche soggetti che, per i trascorsi ed i precedenti giudiziari, erano del tutto estranei ad una connotazione politica, che concepivano l'appartenenza alla compagine associativa nel più puro spirito utilitaristico di ripartizione dei proventi economici delle azioni criminali e che in maniera alcuna risultavano mossi da spinte o moti ideologici.
Fu proprio la tolleranza verso la presenza di sodali indifferenti alla causa ideologica del gruppo, a minarne la compattezza.
Occorre scartare, come già si è detto, l'idea che si sia trattata di una aggregazione spontanea o meramente ideologica, mentre, invece, è più aderente alla realtà sostenere che la banda 'XXII ottobre' sia stata il risultato, invero modesto, di una "operazione politica" che ha saputo pescare il materiale umano tra quattro realtà dell'estremismo ligure: gruppi con tendenze maoiste, gruppi di quartiere, gruppi afferenti alla criminalità comune e gruppi di fascisti (era il caso del militante Diego Vandelli).


La progettualità del gruppo

E' certa la possibilità di ripartire in due fasi, distinte ma non separate, la vita della compagine terroristica. Una prima, che vede la costituzione di un nucleo eterogeneo di persone, accomunate da una critica, generica e confusa, alla linea politica espressa dal movimento operaio ed il successivo contatto tra alcune sue componenti e personaggi equivoci, appartenenti al locale sottobosco politico.
Una seconda, contrassegnata, invece, dalla repentina decisione del gruppo di darsi un'organizzazione militare sul modello dei guerriglieri sudamericani (ne furono chiara testimonianza le giornate di addestramento, in vero e proprio stile militare, svolte dal gruppo nelle zone collinari circostanti la località di Pigna (IM) che, nell'idea originaria del Rossi, sarebbero dovute servire sia ad accrescere il potenziale organizzativo-militare del gruppo sia a far maturare, nei singoli, quel comune senso di appartenenza di cui i militanti erano ancora privi).
Vi è stato un periodo in cui queste due anime della 'XXII ottobre' si sono venute fondendo: è grosso modo l'epoca in cui Rossi e compagni organizzarono una serie di azioni, con metodo di guerriglia, per portare il proprio attacco e manifestare, con violenza, il proprio dissenso nei confronti degli esponenti di quel capitalismo filo-americano considerato reo di finanziare e proteggere, nella loro visione, le trame nere del Paese.
In tale ottica si collocano le iniziative alla raffineria petrolifera di Arquata Scrivia (AL), del 18 febbraio 1971, di proprietà di quell'Edoardo Garrone che i militanti della 'XXII ottobre' ritenevano un "gran corruttore di Stato", un "avvelenatore dei proletari", nonché "fascista, vicino alla idee del Principe nero Junio Valerio Borghese" (2) .
Come fu ricostruito dagli inquirenti, gli autori avevano utilizzato del tritolo o della dinamite per perforare, all'interno della raffineria, le pareti del contenitore a sfera, pieno di propano-butano, provocando così la micidiale esplosione ed il conseguente incendio, ricorrendo, poi, alle solite interferenze televisive per rivendicare l'azione e propagandarne i risultati.
L'operazione alla raffineria Garrone fu un successo, sia sotto il profilo della valenza politica, in quanto i danni causati dall'incendio avevano portato un duro colpo economico per la famiglia ed un inevitabile rallentamento delle attività produttive, sia sotto quello militare poiché tutte le operazioni, a cominciare da quella di sopralluogo nelle settimane precedenti l'attentato, erano state eseguite alla perfezione e senza alcuna difficoltà.
Di pochi giorni precedente l'esplosione alla raffineria Garrone era stato l'attentato al deposito della Ignis, del 6 febbraio 1971. Come per l'attentato alla raffineria Garrone, l'azione alla Ignis di Sestri Ponente, da cui divampò un incendio di enormi proporzioni, fu rivendicata attraverso le medesime modalità; la voce, inserita nelle trasmissioni televisive, questa volta aveva di mira l'imprenditore Donghi, proprietario della Ignis, "reo di arricchirsi sulle spalle degli operai e di finanziare le squadriglie fasciste".
Nello stesso iter programmatico dovevano essere collocati gli attentati alla sede del Consolato Usa di Genova di Piazza Portello dell' 8 maggio 1970, ed alla sede del Partito Socialista Unitario di via Teano del 24 aprile 1970.
Entrambe le iniziative, così come quella nei confronti di un autoblindo dei Carabinieri,posteggiato nei pressi della Caserma di via Moresco a Genova, si caratterizzavano per le medesime modalità operative. Erano stati utilizzati dei cilindri di dinamite o di gelatina esplosiva collegati ad una miccia che si era spenta nel corso della combustione o, nel caso del consolato Usa, era stata fortunosamente scollegata dal personale di guardia evitando così, per puro caso, lo scoppio finale.
Evidente, quindi, che solo una pura fatalità fu ad impedire che, in tutte le descritte iniziative, non vi fossero stati morti o feriti ma solo danni materiali. L'arco notturno in cui erano stati realizzati gli attentati incendiari sembrava rispondere, maggiormente, alla scelta di rendere più difficile l'identificazione ed agevole la fuga, che non a quella di limitare al massimo il coinvolgimento di esseri umani.D'altronde era lo stesso manuale del guerrigliero, cui, più volte, Rossi e compagni si erano ispirati, a prescrivere l'effettuazione nottetempo delle iniziative.


l sequestro Gadolla e la rapina
all'Istituto Autonomo Case Popolari

La parabola criminale del gruppo 'XXII ottobre' inizia e termina con due azioni tipicamente dirette al sostentamento economico dell'organizzazione.
E' un destino curioso quello che lega i due episodi delittuosi: il primo consacra la comparsa di Rossi e dei suoi sodali nella galassia delle organizzazioni criminali dell'epoca, il secondo, relativo all'iniziativa all' Istituto Autonomo Case Popolari (IACP), invece, ne saggerà la pochezza delle capacità operative e l'approssimativa organizzazione, sancendone, inevitabilmente, la fine.
Il sequestro del figlio dell'industriale genovese Gadolla apre, a Genova, la lunga serie di sequestri di persona che caratterizzeranno tutta l'area ligure-piemontese nel corso del decennio 1970-1980.
Sarebbe, tuttavia, un errore accostare, semplicisticamente, il sequestro di Sergio Gadolla, ad opera del gruppo 'XXII ottobre', a quello del magistrato Mario Sossi, di qualche anno più tardi, messo in atto dalle Brigate Rosse.
E' certo, infatti, che a spingere il gruppo di Rossi e sodali a sottrarre alla propria famiglia il giovane Gadolla non fu la ricerca di un' affermazione politica o di un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato, bensì la necessità di sopperire alle esigenze di carattere economico, di cui necessitava la compagine associativa agli inizi della sua esistenza. Per alcuni dei membri del gruppo (in primis il Viel) l'azione aveva avuto una finalità di puro arricchimento personale, obiettivo che un' azione isolata ed individuale non avrebbe sicuramente garantito.
Ecco perché, già da un punto di vista di dignità politica, il sequestro Gadolla non ebbe nulla a che vedere con esigenze di affermazione, all' esterno, dell'esistenza del gruppo.
Peraltro, la riuscita dell' azione fu più il risultato di una combinazione di circostanze fortunose che non la sintesi delle capacità organizzative della 'XXII ottobre'; più volte Rossi e compagni furono sul punto di desistere dal proseguire l'azione delittuosa e solo la caparbietà di alcuni dei suoi appartenenti consentì di portarla a termine.
Nei mesi successivi all'ottenimento del riscatto si registrarono, infatti, alcune defezioni e fuoriuscite dall'organizzazione, a conferma dell'atteggiamento prettamente utilitaristico assunto da alcuni dei partecipanti al sequestro del giovane Gadolla.
Nonostante alcuni grossolani errori commessi dal gruppo 'XXII ottobre' nel corso dell'azione, come le numerose impronte digitali rinvenute dalle forze di polizia all'interno dell' autovettura abbandonata dai sequestratori o, addirittura, gli indumenti di alcuni degli appartenenti della banda dimenticati nel bagagliaio della stessa, il sequestro Gadolla fu vissuto dall'opinione pubblica con preoccupata attenzione, accresciuta dalla novità di una tipologia di azione che, prima di allora, non aveva avuto eguali in Genova e dintorni.
Era nettamente palpabile, tra la popolazione e tra gli addetti ai lavori, la sensazione che ci si trovasse di fronte ad una impresa del tutto fuori portata per la malavita genovese, più propensa al controllo ed alla gestione diretta dei traffici di droga e prostituzione, nei pressi dello scalo marittimo, che ad imbarcarsi in un' impresa tanto rischiosa e dal risultato finale così incerto. Né le modalità con cui era stata condotta l'azione e la richiesta di riscatto avanzata autorizzavano ad individuare nel banditismo sardo l'area di riferimento investigativo.
Troppo diverso dai rapimenti gestiti, in quegli anni, dai sardi, era stato il sequestro Gadolla, così come, differente era stato, l'atteggiamento tenuto dai sequestratori del giovane rispetto alle modalità con cui i sequestratori sardi erano soliti gestire i contatti con la famiglia del rapito.
Si era diffusa rapidamente l'idea che il sequestro Gadolla fosse il segnale di un mutamento delle condizioni e degli equilibri criminali che si erano venuti creando e si erano sedimentati nel corso del tempo, nel capoluogo ligure; rottura di equilibri che solo un fenomeno così peculiare, come quello, emergente, del terrorismo, poteva creare.
Ed anche le ferventi consultazioni con le fonti di informazione, che le forze di polizia avevano sollecitato nei giorni successivi al rapimento, conducevano tutte nella stessa direzione: escludevano, con certezza, la possibilità di attribuire al contesto criminale genovese la responsabilità di un' azione così eclatante.
Le responsabilità del rapimento erano da ricercarsi, sì nel medesimo contesto geografico, ma in tutt'altra linea direttrice.
L'effetto sorpresa sulle forze dell'ordine fu tale da rendere vani e decisamente poco produttivi gli sforzi investigativi attivati nell'immediatezza. Fu gioco facile, per i componenti del gruppo, portare a termine l'operazione, assicurandosi l'intera somma del riscatto, circa 200 milioni, che, per l'epoca, costituiva un importo certamente considerevole.
Furono solo i dissidi interiori e le difficoltà incontrate nella custodia del prigioniero, sulle alture del monte Bue, accresciute dalle precarie condizioni atmosferiche, a rappresentare una seria minaccia per la riuscita del sequestro.
Tuttavia, l'errore di fondo commesso dal Rossi e dagli altri consociati fu di non aver saputo ben parametrare l'effettiva consistenza dei mezzi a disposizione, sia umani che materiali nella scelta degli obiettivi delle proprie azioni.
E' fuori discussione che, rispetto alle azioni incendiarie e dimostrative di cui si è fatto cenno in precedenza, ben altra preparazione richiedevano azioni come quella, rivelatasi poi fatale per il gruppo, della rapina in danno all'Istituto Autonomo Case Popolari (IACP).
Mai come in questa ipotesi delittuosa furono evidenti i limiti organizzativi dei membri della 'XXII ottobre' che parteciparono all'iniziativa.
La scelta di rapinare lo IACP era stata, infatti, determinata, semplicemente, dalla convinzione di poter contare sulle informazioni fornite da uno degli appartenenti del gruppo, Battaglia, all'epoca impiegato presso l'Istituto. Inutile dire che la scelta dell'obiettivo si rivelò, a posteriori, doppiamente infausta. Ciò, non solo per la imprevista resistenza del fattorino, Alessandro Floris, che trasportava la borsa contenente il denaro -ucciso poi, dai colpi di pistola sparati dal Rossi - ma per l'errore valutativo di aver scelto come obiettivo un Istituto che, per eccellenza, incarnava gli interessi del mondo proletario e dei suoi appartenenti.
Fu questo, senza dubbio, l'errore strategico più madornale, commesso da Rossi e sodali. Un errore che fu, ulteriormente, amplificato ed enfatizzato dalla morte di un giovane impiegato, di umilissime origini, ammazzato nel compimento del proprio dovere; la tragica fine di Floris celava, inoltre, dietro di sé anche il consumarsi di un tradimento, quello del Battaglia, che aveva rivenduto all'organizzazione le informazioni sugli orari e modalità di trasporto dei soldi dell'Istituto.
Questi aspetti, certo, influirono nel qualificare oltremodo negativamente le gesta criminali della banda 'XXII ottobre', al di là delle, già gravi, responsabilità connesse alla rapina sfociata in omicidio. A rivelarsi fatali, come anticipato, furono, anche qui, le imprecisioni e l'approssimazione che avevano contraddistinto le fasi esecutive dell'azione.
Pur potendo contare sulle informazioni fornite dal Battaglia, Rossi e compagni non erano stati in grado di mettere a punto un piano particolareggiato ed efficace, idoneo a far fronte, anche, ad eventuali imprevisti.
Fu sufficiente la modifica del percorso solitamente effettuato dai fattorini dello IACP per far saltare i già labili schemi operativi e per gettare nella confusione il Rossi che, dopo aver sottratto la borsa ad uno dei fattorini, pensò bene di arrestarne l'inseguimento sparandogli alcuni colpi di pistola. Gli ultimi istanti della vita di Alessandro Floris furono immortalati in alcune istantanee realizzate da un fotoamatore posizionato alla finestra della propria abitazione, proprio negli istanti in cui si consumava la tragedia. Le immagini, cristallizzate nelle foto, furono un marchio indelebile per Rossi, non solo ai fini dell'accertamento della sua responsabilità in sede processuale ma per l'intera opinione pubblica, che potè apprezzare visivamente la ferocia mortale del Rossi nell'atto di sparare all'inerme fattorino.
Questo spiega l'atteggiamento di intransigenza anche da parte di settori che, per tradizione ideologica, avrebbero dovuto assumere un comportamento di maggiore indulgenza nei confronti di Rossi e compagni.
D'altronde, come più volte ribadito, il Manuale di Carlos Marighella, bibbia ispiratrice delle azioni del gruppo, dedicava nelle sue pagine un ampio risalto alla necessità che ogni azione, dimostrativa o diretta all'autofinanziamento, non sfociasse nella morte o, anche solo, nel ferimento di popolazione civile.


Il processo al gruppo 'XXII ottobre'

L'intera vicenda giudiziaria, che si aprì con l'arresto in flagranza del Rossi e del Viel, dopo il loro vano tentativo di fuga, ebbe un vasto eco mediatico, non solo su Genova e sul territorio nazionale ma, anche, all'estero. In Italia il clima del processo al gruppo 'XXII ottobre' rifletteva, in ogni aspetto, lo sdegno e la riprovazione per chi non aveva esitato ad uccidere barbaramente un uomo pur di ottenere un vantaggio economico.
Ma accanto ad una così estesa richiesta di punizione esemplare, il processo alla banda registrò anche la vibrante protesta delle difese degli imputati che, a più riprese, lamentavano la sistematica violazione del diritto di difesa verificatasi nel corso dell'iter giudiziario.
In particolare, ad essere contestate furono la regolarità di molti degli interrogatori degli imputati e la limitata possibilità lasciata alle difese di contestare, anche attraverso ricostruzioni alternative, le conclusioni cui era giunta l'accusa.
E le presunte distorsioni che avrebbero connotato il processo alla 'XXII ottobre' ricevettero, comunque, un interesse anche transnazionale, per il sostegno che i militanti del gruppo ricevettero dalla sinistra francese, attraverso le pagine del quotidiano Liberation. In Francia si registrò, addirittura, il formarsi di un movimento denominato "Comité aux camarades du XXII ottobre" in sostegno alla causa morale dei compagni italiani, sottoposti ad un processo, a loro dire, "degno delle dittature sudamericane".
Ad aderire al "comitato" furono anche autorevoli esponenti della cultura francese, tra cui lo scrittore Jean Paul Sartre ed il regista Jean Luc Godard, che condivisero, a pieno, i proclami e gli anatemi che, attraverso le sue colonne, il quotidiano Liberation aveva lanciato all'indirizzo dell'apparato giudiziario italiano, colpevole di aver trasformato un omicidio involontario in un omicidio volontario e di avere, in definitiva, condannato, come complici, anche coloro che non avevano partecipato alla tragica azione delittuosa.

Si sanzionava, in particolare, l'operato dei giudici, senza distinzione di ruolo e funzione, rei di aver irrogato pesanti condanne senza prove effettive, attraverso testimonianze definite "ridicole", ed approfittando di un'opinione pubblica distratta dall'aumento dei prezzi, dallo scandalo del petrolio, dalla corruzione dei governanti; in sintesi, si imputava all'autorità giudiziaria di aver soffocato la difesa processuale dei membri della 'XXII ottobre' e di averla resa oltremodo difficoltosa, anche a causa dei numerosi e sistematici spostamenti, da un istituto penitenziario all'altro, cui erano continuamente sottoposti i membri del gruppo.
Tra le immagini che più emblematicamente descrivono lo stato d'animo e lo sconforto dei membri del gruppo, vi è quella che ritraeva Mario Rossi, con barba lunga e pugno chiuso, che, da dietro le sbarre, invitava, in maniera veemente e sfrontata, i giudici della Corte d'Assise d'appello a chiudere rapidamente il processo ed a confermare le condanne inflitte in primo grado.
Va detto che la detenzione subita dal Rossi, nel periodo a cavallo del processo di primo e secondo grado, ne aveva, in parte, mitizzato la figura.
Quella che poteva sembrare, all'inizio, l'icona di un trentenne un po' sbandato e dedito, come molti suoi coetanei dell'epoca, alle rapine ed alla politica fatta nelle strade a suon di botte e slogan urlati durante le manifestazioni di protesta, si era progressivamente venuta modificando, senza che Rossi in verità vi avesse realmente contribuito.
Era stato il fenomeno di quella che potremmo definire "mitizzazione carceraria" a far divenire Mario Rossi il leader di un vero e proprio piccolo partito armato, non certo la sua modesta produzione politico-teorica.
E, ancor più, lo era stato l'accostamento, invero eccessivamente semplicistico, tra i Gruppi di azione partigiana (GAP), vera anima della resistenza genovese, ed i militanti della 'XXII ottobre'; accostamento decisamente azzardato sotto il profilo storico, che aveva finito per riconoscere a Rossi e sodali uno spessore ideologico che non teneva conto della reale consistenza del gruppo.
Si era, allora, fatta largo, soprattutto in ambito giornalistico, l'idea che questa sopravvalutazione delle potenzialità del gruppo rispondesse ad una precisa scelta strategico-repressiva, frutto della necessità di dover trovare un'adeguata giustificazione alle pesanti condanne inflitte ai componenti della banda.
Sarebbe stata, in altri termini, una costruzione giudiziaria, il moto ideologico che avrebbe animato Rossi e compagni nel loro percorso criminale, culminato con l'uccisione del povero Floris.
D'altronde, come già si è detto, la produzione teorica del gruppo passava per il solo Mario Rossi ed è chiaro che il ritratto di un leader impegnato a trascrivere, dietro le sbarre, su carta igienica, il proprio manuale del guerrigliero, attingendo a piene mani dall'opera di Marighella, non rappresentava certo, per l'epoca, elemento di sicura consistenza ideologica dell'organizzazione.
Ma nella storia della 'XXII ottobre' è possibile scorgervene una più piccola, quella cioè, che prende le mosse dal magistrato, rappresentante dell'ufficio del Pubblico Ministero, che condusse le indagini e poi l'accusa nel processo alla banda 'XXII ottobre': Mario Sossi.
In virtù della fama da "duro", che si era guadagnato sin dalle prime inchieste di un certo spessore e clamore, condotte a Genova nei primissimi anni '70, Mario Sossi rappresentava, per gli ambienti della sinistra radicale genovese, l'emblema dell'apparato repressivo dello Stato fascista. Si spiega così la montante protesta ed il coro di reazioni violente che si scatenarono negli ambienti ideologicamente vicini alle idee di Rossi e compagni quando fu chiaro che le sorti giudiziarie del gruppo 'XXII ottobre' sarebbero passate anche per le valutazioni di detto magistrato.
A Sossi venne, ben presto, attribuita la paternità e gli esiti decisionali di un processo giudicato privo dei requisiti minimi di legalità. Si trattava di un segnale preoccupante, la cui gravità fu però ampiamente sottovalutata; nessuno, all'epoca, era arrivato ad ipotizzare che quella che appariva, ai più, come una semplice guerra psicologica, condotta nei confronti di un magistrato a colpi di slogan e scritte sui muri o comunque come una campagna fortemente critica del suo operato scrupoloso e fermo, potesse lasciare il posto, dopo soli pochi mesi dalla conclusione degli eventi giudiziari, al suo rapimento ad opera delle neo costituite Brigate Rosse.
Ma soprattutto, nessuno avrebbe mai immaginato che il prezzo richiesto per la liberazione del Dott. Sossi potesse essere quello della rimessione in libertà dei militanti della 'XXII ottobre' cui, peraltro, anche dopo il giudizio d'appello, erano state confermate le condanne emesse in primo grado.
Con il sequestro del giudice Sossi si scrive forse l'ultima, ma decisiva, tappa della storia della 'XXII ottobre', sicuramente fondamentale per comprendere, con maggiore chiarezza, le origini del fenomeno terroristico di sinistra.
Con la richiesta di liberazione di Rossi e compagni fu, universalmente, chiara l'esistenza di un legame genetico tra il gruppo 'XXII ottobre' e le Brigate Rosse; un vincolo che, pur non dimostrato sul piano giudiziario, autorizzava a ricondurre le prime BR nel solco politico ideologico, ancorché sfumato, che Rossi e compagni avevano tracciato con le proprie iniziative.
D'improvviso, quelli che erano stati, forse non a torto ma con eccessiva frettolosità, qualificati come figli del dissesto culturale ed ideologico o altrimenti come lo spaccato più cruento del "movimento" che si andava diffondendo in quegli anni, vennero ribattezzati come i padri putativi della realtà terroristica emergente.
A distanza di anni, si può ragionevolmente sostenere che il rapporto di filiazione che sembrava legare le BR al gruppo 'XXII ottobre' fosse più apparente che concreto.
Gli esempi, purtroppo anche recenti, che la storia più che trentennale del terrorismo italiano ha fornito, autorizzano una valutazione differente rispetto a quella elaborata, a caldo, in quegli anni. Nel senso, cioè, di poter affermare che non ogni azione terroristica, che si esteriorizzava anche attraverso richieste di liberazione di compagni prigionieri appartenenti a formazioni eversive differenti, valeva ad attribuire un sicuro rapporto di filiazione tra gruppi.
E' vero, invece, che simili atteggiamenti devono essere letti piuttosto come rivelazione di una condivisione di un percorso politico strategico comune, di una vera e propria adesione intellettuale alla progettualità altrui.
Ed allora se anche il rapporto
BR - 'XXII ottobre' viene letto in questi termini, si può dare una spiegazione alle difficoltà degli investigatori nell'individuare un riscontro rivelatore dell'esistenza di una sorta di passaggio di consegne tra le due formazioni.
Con la scelta delle BR di liberare il dottor Sossi, senza il rilascio, in contraccambio, di alcun detenuto del gruppo 'XXII ottobre', cala definitivamente il sipario sull'organizzazione di Mario Rossi e compagni.


Conclusioni

Come spesso accade nella storia italiana, anche le gesta criminali del gruppo 'XXII ottobre' e la sua breve, ma pur intensa, esistenza sono state, in più occasioni, riportate alla memoria quando, nella città di Genova, si sono verificati negli anni a seguire, altri episodi di lotta politica culminati con il versamento di sangue.
Per Genova e la sua cittadinanza il sinistro ricordo delle azioni di Rossi e compagni ritornava prepotentemente d'attualità ogni volta che le cronache giudiziarie degli anni '70 e '80 davano notizia di morti e feriti, nel nome di un' assurda lotta armata.
Ma c'è un dato peculiare che accomuna la Genova della 'XXII ottobre' a quella delle Brigate Rosse ed è quello costituito dal netto rifiuto che la cittadinanza genovese seppe opporre alla preoccupante avanzata del fenomeno terroristico.
Bisogna togliersi dalla mente che, in fondo, fenomeni come la 'XXII ottobre' e, poi, le Brigate Rosse fossero il naturale frutto della storia della resistenza genovese.
Il capoluogo ligure fu una delle poche città in cui più evidente fu il contrasto al fenomeno terroristico e in cui più netta fu la collaborazione della cittadinanza con le forze dell'ordine. Il sacrificio di personaggi come il sindacalista Guido Rossa costituisce l'emblema più evidente della resistenza del tessuto sociale genovese alla ideologia della lotta armata.
Era questa la vera essenza della resistenza genovese, quella di una città in cui il movimento operaio, altrove vera e propria fucina delle organizzazioni terroristiche, era stato, almeno nella sua maggioranza, in grado di resistere alle lusinghe di chi, dietro il falso mito della dittatura del proletariato, aveva saputo solo seminare morte e tragedia.
Annotazioni − (1) Quest'area del capoluogo ligure, già durante il secondo conflitto mondiale, si era segnalata per essere la zona di origine di gran parte dei partigiani che avevano alimentato le lotte sulle montagne dell'Appennino ligure-piemontese.
(2) Così espressamente dagli atti processuali.

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