Da Corriere della Sera del 09/05/2008
Giornata della memoria, il Quirinale include Giorgiana Masi
Vittime del terrorismo, la lista del Colle
Per la prima volta si celebrano tutti i caduti degli anni di piombo. Il ricordo in un volume
di Giovanni Bianconi
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ROMA - Molti sorridono, da quella galleria di foto che compongono una sorta di unica, grande lapide. A cominciare dall'ultimo in ordine di tempo, primo dell'elenco che ripercorre la storia a ritroso, il sovrintendente capo della polizia di Stato Emanuele Petri, ucciso nello scontro a fuoco coi brigatisti rossi intercettati sul treno Roma-Firenze, la mattina di domenica 2 marzo 2003. Da lì cominciò l'indagine che smantellò il gruppo responsabile degli omicidi di Marco Biagi e Massimo D'Antona; anche il volto di quest'ultimo sorride dalla pagina seguente.
L'elenco comprende 378 nomi e foto di vittime del terrorismo, ma più in generale della violenza politica che ha attraversato l'Italia a partire dagli anni Sessanta, con gli attentati in Sud Tirolo, passando per quella mafiosa di matrice stragista, con le bombe sul continente del 1993. «Ci siamo proposti di colmare un vuoto», scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell'introduzione al volume Per le vittime del terrorismo nell'Italia repubblicana, pubblicato in occasione del «giorno della memoria» che si celebra oggi. E prosegue: «Ci siamo proposti di rendere omaggio, nel modo più solenne, a tutti coloro — fossero essi semplici cittadini, umili e fedeli servitori dello Stato, o protagonisti della storia repubblicana — che in quel contesto pagarono col sacrificio della loro vita i servigi resi alle istituzioni repubblicane». Ma nella galleria composta dall'ufficio relazione esterne del Quirinale, assieme a quelli per gli Affari interni e per gli Affari di giustizia, compaiono anche i nomi e le foto di chi non aveva — probabilmente — intenzione di rendere alcun servigio, allo Stato o a chicchessia.
Sono i morti per caso provocati dalle bombe, e le facce delle 85 vittime della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna sembrano interrogare chi le guarda sul perché dell'eccidio che ha spezzato le loro vite; qualcuna giovanissima, come Angela Fresu che non aveva ancora 3 anni, qualche altra proveniente dal secolo precedente come Antonio Montanari, classe 1894. E sono i morti per errore, come il cuoco Luigi Allegretti, assassinato a Roma dai «Compagni armati per il comunismo» che lo scambiarono per un dirigente locale del Msi, o come l'impiegato ventiquattrenne Antonio Leandri, ammazzato dai neofascisti dei Nar al posto di un avvocato ritenuto colpevole di aver fatto arrestare un «camerata ». Tra le vittime ricordate c'è perfino chi, se non fosse stato ucciso, avrebbe portato avanti la sua militanza politica e di contestazione alle istituzioni. Magari rivoluzionaria.
Per esempio Walter Rossi, un aderente a Lotta continua assassinato il 30 settembre 1977 da un proiettile sparato da avversari politici radunatisi intorno a una sede missina; e Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni caduta a Roma il 12 maggio dello stesso anno, per un colpo di pistola vagante di cui furono accusati i corpi di polizia presenti in piazza, anche se il libro precisa che «l'inchiesta non consentirà di individuare l'autore dell'omicidio». Sul fronte dell'estremismo opposto ecco i volti e i nomi di Miki Mantakas e Sergio Ramelli, militanti della destra ammazzati dai «rossi» nel 1975, e dei tre uccisi davanti alla sezione romana del Msi di via Acca Larentia; compreso Stefano Recchioni, morto per mano di un carabiniere nei disordini seguiti all'agguato in cui persero la vita Bigonzetti e Ciavatta. Era il 7 gennaio 1978, e da quell'episodio prese forma, anche per reazione, il gruppo armato dei Nar. Nei testi che sintetizzano i fatti si intravede la mano di chi ha vissuto quagli anni, li ha studiati e indagati, arrivando a capire — e a raccontare oggi — che i morti provocati dalla violenza politica diffusa nelle città d'Italia degli anni Settanta, hanno a che fare col terrorismo; perché da quegli snodi sono nate sigle che hanno firmato nuovi attentati, o perché hanno provocato nuovi ingressi in clandestinità.
Pure le vittime degli scontri di piazza e degli agguati fuori dalle sedi dei partiti, insomma, hanno alimentato il terrorismo che nell'omaggio rivolto dal Quirinale a tutte le vittime viene ricostruito, per una volta, solo dalla parte di chi ne ha pagato le conseguenze. I nomi degli assassini non ci sono, anche quando le sentenze hanno accertato le singole responsabilità; stavolta bastano quelli degli assassinati. Come Emilio Alessandrini, uno dei tanti giudici uccisi nella lunga stagione di sangue: «Prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare, un personaggio simbolo, rappresentante di quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli», scrisse sul Corriere Walter Tobagi. Il volto di Alessandrini sorride dalla pagina a lui dedicata, e in un'altra sorride quello di Tobagi, ammazzato un anno e quattro mesi più tardi.
L'elenco comprende 378 nomi e foto di vittime del terrorismo, ma più in generale della violenza politica che ha attraversato l'Italia a partire dagli anni Sessanta, con gli attentati in Sud Tirolo, passando per quella mafiosa di matrice stragista, con le bombe sul continente del 1993. «Ci siamo proposti di colmare un vuoto», scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell'introduzione al volume Per le vittime del terrorismo nell'Italia repubblicana, pubblicato in occasione del «giorno della memoria» che si celebra oggi. E prosegue: «Ci siamo proposti di rendere omaggio, nel modo più solenne, a tutti coloro — fossero essi semplici cittadini, umili e fedeli servitori dello Stato, o protagonisti della storia repubblicana — che in quel contesto pagarono col sacrificio della loro vita i servigi resi alle istituzioni repubblicane». Ma nella galleria composta dall'ufficio relazione esterne del Quirinale, assieme a quelli per gli Affari interni e per gli Affari di giustizia, compaiono anche i nomi e le foto di chi non aveva — probabilmente — intenzione di rendere alcun servigio, allo Stato o a chicchessia.
Sono i morti per caso provocati dalle bombe, e le facce delle 85 vittime della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna sembrano interrogare chi le guarda sul perché dell'eccidio che ha spezzato le loro vite; qualcuna giovanissima, come Angela Fresu che non aveva ancora 3 anni, qualche altra proveniente dal secolo precedente come Antonio Montanari, classe 1894. E sono i morti per errore, come il cuoco Luigi Allegretti, assassinato a Roma dai «Compagni armati per il comunismo» che lo scambiarono per un dirigente locale del Msi, o come l'impiegato ventiquattrenne Antonio Leandri, ammazzato dai neofascisti dei Nar al posto di un avvocato ritenuto colpevole di aver fatto arrestare un «camerata ». Tra le vittime ricordate c'è perfino chi, se non fosse stato ucciso, avrebbe portato avanti la sua militanza politica e di contestazione alle istituzioni. Magari rivoluzionaria.
Per esempio Walter Rossi, un aderente a Lotta continua assassinato il 30 settembre 1977 da un proiettile sparato da avversari politici radunatisi intorno a una sede missina; e Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni caduta a Roma il 12 maggio dello stesso anno, per un colpo di pistola vagante di cui furono accusati i corpi di polizia presenti in piazza, anche se il libro precisa che «l'inchiesta non consentirà di individuare l'autore dell'omicidio». Sul fronte dell'estremismo opposto ecco i volti e i nomi di Miki Mantakas e Sergio Ramelli, militanti della destra ammazzati dai «rossi» nel 1975, e dei tre uccisi davanti alla sezione romana del Msi di via Acca Larentia; compreso Stefano Recchioni, morto per mano di un carabiniere nei disordini seguiti all'agguato in cui persero la vita Bigonzetti e Ciavatta. Era il 7 gennaio 1978, e da quell'episodio prese forma, anche per reazione, il gruppo armato dei Nar. Nei testi che sintetizzano i fatti si intravede la mano di chi ha vissuto quagli anni, li ha studiati e indagati, arrivando a capire — e a raccontare oggi — che i morti provocati dalla violenza politica diffusa nelle città d'Italia degli anni Settanta, hanno a che fare col terrorismo; perché da quegli snodi sono nate sigle che hanno firmato nuovi attentati, o perché hanno provocato nuovi ingressi in clandestinità.
Pure le vittime degli scontri di piazza e degli agguati fuori dalle sedi dei partiti, insomma, hanno alimentato il terrorismo che nell'omaggio rivolto dal Quirinale a tutte le vittime viene ricostruito, per una volta, solo dalla parte di chi ne ha pagato le conseguenze. I nomi degli assassini non ci sono, anche quando le sentenze hanno accertato le singole responsabilità; stavolta bastano quelli degli assassinati. Come Emilio Alessandrini, uno dei tanti giudici uccisi nella lunga stagione di sangue: «Prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare, un personaggio simbolo, rappresentante di quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli», scrisse sul Corriere Walter Tobagi. Il volto di Alessandrini sorride dalla pagina a lui dedicata, e in un'altra sorride quello di Tobagi, ammazzato un anno e quattro mesi più tardi.
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