Da Diario del 16/01/2004

L'inchiesta vecchio stile

Le Parmalat prossime venture

E ora, a chi tocca? In Italia e nel mondo c’è chi se lo chiede con preoccupazione, dopo i crac globali. Ma esiste un modo semplice per chiudere con le supertruffe: vietare alle società quotate di avere rapporti con finanziarie insediate nei paradisi fiscali

di Domenico Marcello

Quante altre Parmalat ci sono in giro? La risposta dipende solo dalla bontà d’animo e dall’educazione ricevuta dai nostri capitani di industria. Se hanno il profilo etico «madre Teresa», gli azionisti, gli obbligazionisti e i dipendenti sono in una botte di ferro. Se invece tendono all’opzione Calisto Tanzi, si può solo pregare.
I controlli? Le nuove autorità di sorveglianza? Di fronte alle architetture societarie e alle partnership internazionali di grandi, medi e piccoli gruppi quotati, non esiste controllo che tenga. Parmalat lo dice chiaramente. Una volta, per una buona truffa, ci voleva ingegno. Il truffatore doveva studiare le leggi, conoscere mezzi e cavilli, dominare i segreti dell’animo umano. Con Calisto Tanzi è tutto finito. Non ha neppure dovuto pagare i politici come hanno fatto i manager di Enron negli Stati Uniti e forse, se lo ha fatto, è stato all’inizio, ai tempi di Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e della Confagricoltura targata Dc. Allo smemorato di Collecchio è bastato autocertificarsi un deposito di 4 miliardi di euro presso la Bank of America, primario istituto, e corrompere un po’ di revisori, sindaci, amministratori, funzionari e dirigenti di banca.

La Parmalat era l’ideale per questo business. L’azienda di Collecchio comprava uno yoghurt e lo pagava dopo un anno. Ma voi lo pagavate dopo mezz’ora al massimo, alla cassa. Il vostro euro, moltiplicato per miliardi di pezzi, aveva dodici mesi di tempo per farsi il giro del mondo: Brasile, Venezuela, Ecuador, Ungheria. Magari si trovava bene e non tornava più a casa. Dove si trasferiva? Il Brasile e il Venezuela sono belli, ma c’è la delinquenza. Il vostro euro preferiva le Bahamas, le Isole Vergini Britanniche, le Cayman, Curaçao, Malta e tutti quei posti sicuri dove si possono creare società senza pagare le tasse e senza timore di controlli. Diario se ne occupò all’indomani delle Twin Towers (sul numero 40 del 2001), quando George Bush aveva promesso di sbaraccarli per tagliare i viveri a Osama. Ma loro sono ancora là.

AL RIPARO DAL FISCO. In inglese si chiamano tax havens. Haven significa porto, riparo, ma assomiglia a heaven (cielo) e dunque paradiso. Dai paradisi fiscali e societari si costruisce la catena. Non serve un genio. Basta un contabile, il Fausto Tonna di turno, e un avvocato per le pratiche. Niente di troppo costoso. La catena deve arrivare in Italia, al vostro yoghurt, in modo che gli anelli principali non siano identificabili. Per esempio, la magistratura sta verificando l’ipotesi che i grossisti della Parmalat, cioè quelli che raccoglievano latte e yoghurt dagli allevatori e lo rivendevano ai Tanzi, fossero in società con gli stessi Tanzi. Nel paradiso delle Antille olandesi. Quindi Tanzi, schermato, fatturava alla Parmalat. Si può immaginare che questi grossisti spuntassero prezzi vantaggiosi. Se i fornitori risultavano così esosi da mettere in crisi conti aziendali, l’impresa si indebitava. Se invece i conti andavano bene, si investiva l’utile, per esempio, nel fondo Epicurum di Grand Cayman. Purché in entrambi i casi si coinvolgessero società o istituzioni fuori, o lontanissime, da ogni possibilità di identificazione.

Quante società quotate italiane hanno a che fare con società e istituzioni finanziarie insediate in paradisi fiscali o societari? Moltissime. È evidente che l’Eni non può fare a meno di concludere affari con società straniere. Quando gli affari erano tangenti, come dimostra il processo che si è chiuso a Milano in primo grado l’anno scorso, si ricorreva a Pierfrancesco Pacini Battaglia che disponeva di una banca e di una galassia di società insediate in paradisi fiscali e societari. Grandi affari all’estero anche per Fininvest nella fase precedente la quotazione di Mediaset, quando bisognava rendere voluminosa la library dei diritti cinematografici attraverso le società amministrate da David McKenzie Mills. Ma parecchi grandi gruppi ricorrono a entrambi i livelli della catena a scomparsa. Non solo nel business corrente ma anche nel controllo. La filiera di controllo di Telecom e dei suoi azionisti dopo la privatizzazione è stata spesso affidata a società estere e in parte lo è tuttora. I finanzieri emersi dalla prima scalata alla compagnia telefonica nazionale, come Roberto Colaninno e Chicco Gnutti, usano strutture esterovestite in modo massiccio. Anche la famiglia Benetton, socia di Marco Tronchetti in Telecom, controlla Autostrade attraverso Edizione Finance Sa. L’elenco è lungo. Senza minimamente paragonare le intenzioni di questi imprenditori con quelle di Tanzi, fra le loro società e la Parmalat esiste, oltre al ricorso a entità estere, una seconda analogia. Caselli, ristori autostradali, bollette, carte prepagate sono tutte attività che generano flussi di cassa enormi. Sono come banche, ma senza i controlli che subiscono gli istituti di credito. Né Bankitalia, né la Bce (la Banca centrale europea), hanno titolo o diritto per chiedere informazioni in base alle norme in vigore.

La terza analogia è che queste imprese hanno la capacità di produrre una massa di debiti colossale. Come la Fininvest prima di quotare in Borsa le tv e come la Parmalat prima di crollare, queste aziende incassano tantissimo, spesso guadagnano tanto ma, per una ragione o per l’altra, devono chiedere soldi di continuo. È il caso ancora di Telecom che ha appena varato un prestito obbligazionario da 3 miliardi di euro per rifinanziare il debito esistente. Nonostante la vendita di Seat, l’indebitamento netto è pari alla cifra mostruosa di 34,2 miliardi al settembre 2003 contro un fatturato di 22,6 miliardi nei primi tre trimestri dello scorso anno.
La moda delle catene paradisiache ha investito anche le nuove star degli investimenti che hanno debuttato nel 2003. Capitalia, l’istituto che rischia di più dai crac Parmalat e Cirio, ha accolto fra i suoi azionisti di spicco Stefano Ricucci, ex odontotecnico che – sono parole sue – faceva «trading di sportelli bancari» partendo da un piccolo prestito (20 milioni di lire) garantito dalla busta paga del padre, autista dell’Atac. I suoi soldi arrivano dal Lussemburgo, Paese Ue, ma nessuno può essere certo dell’identità dei proprietari della Magiste International di Ricucci conferita a una fiduciaria di Guernsey (Baring trustees).

Lo stesso vale per Danilo Coppola che ha messo i soldi in Banca nazionale del lavoro, dove alla fine dello scorso anno è entrato anche Ricucci. Immobiliarista di non eccelse fortune, indebitato, Coppola fa tutto attraverso due holding lussemburghesi. Una si chiama Keope ed è controllata dalla lussemburghese Sfinge (all’inizio si chiamava Finge, ma forse non era il caso) che è controllata da Lirepa (anche questa lussemburghese) che è controllata da non si sa chi. In questo caso il governatore Antonio Fazio potrebbe avere subodorato qualche stranezza. Ma sembra proprio di no, fino a prova contraria. Allora Giulio Tremonti tenta di farlo fuori attribuendogli il cadavere di Parmalat, anche se lì l’«organo apicale» (come Bankitalia chiama se stessa con caratteristica modestia) c’entra poco, anzi niente.
La Banca d’Italia, mitizzata dalla sinistra dai tempi dello scontro fra Guido Carli e Michele Sindona fino agli attuali girotondi pro Fazio di Piero Fassino ed Enrico Letta, lavora sui cosiddetti ratios, che sono rapporti matematici fra poste di bilancio. La Parmalat li rispettava, grazie ai falsi. Erano, bisogna ripeterlo, falsi banali. Fra gli specialisti del riciclaggio sono noti da almeno quindici anni come truffe delle promissory notes (usate anche da Igor Marini, che le ha citate nei suoi interrogatori sul caso Telekom-Serbia): con un certificato di deposito si va in una banca, si mollano un po’ di mazzette e si tenta di ottenere un finanziamento o un’ulteriore garanzia da scontare in una terza banca. Il tesoro è sempre da qualche parte, lontano, in un posto sicuro e fuori controllo. A volte c’è (mafiosi), a volte non c’è (bidonisti semplici).

GLI SPECIALISTI DELLE TRUFFE. Varie associazioni criminali, dalla ’Ndrangheta ai russi, hanno tentato di sfruttare questo schema, con scarse soddisfazioni. Primo, perché la corruzione è una spesa e, se si vogliono corrompere i pezzi grossi, bisogna rischiare milioni. Secondo, perché ad alto livello la truffa con le promissory notes non la beve più nessuno da anni. Il caso più recente, che riguarda il tesoro dell’ex dittatore indonesiano Sukarno e per il quale è in corso un processo a Trento, è una truffa fra commercialisti di provincia. Questo accade anche perché la lotta al riciclaggio mafioso, con tutti i suoi limiti, si è data una struttura internazionale. L’Ocse e il Gafi pubblicano quasi di mese in mese le loro liste nere e chiedono sanzioni. Nell’insieme, non funzionano tanto peggio della mitica Sec, additata come esempio da molti, ma incapace di impedire i botti di Enron e Worldcom, o lo scandalo che ha coinvolto la Nyse, la Borsa di New York, per il maxi stipendio elargito al suo ex capo, Richard Grasso, oggi sotto inchiesta. Oggi, in campo internazionale, sotto osservazione sono società come Adecco, Shell, Ahold...
Eppure non sarebbe difficile prevenire almeno le truffe. È vero che i malvagi ci saranno sempre e che nessuna polizia ha mai estinto il crimine. Però la soluzione esiste ed è ortodossa sul piano giuridico. È sufficiente vietare alle società quotate di avere rapporti economici di una certa entità con società e istituzioni finanziarie insediate in paradisi fiscali o societari. Il principio è quello dell’identità certa in operazioni che abbiano a che fare con la sicurezza pubblica.
In questo caso, la sicurezza del pubblico risparmio. Se accadesse, è certo che centinaia di prestanome a Jersey, Madeira, Vaduz, Montecarlo, Nassau e così via dovrebbero trovarsi un lavoro onesto. Ma il problema non sono i livelli occupazionali. Se i paradisi chiudono, i ricchi devono pagare le tasse. Arrivederci alla prossima Parmalat.

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