Da La Stampa del 03/07/2006
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200607articoli/71...

BOSS E REVISIONISMO LA NUOVA VERITA’ DOPO GLI ULTIMI ARRESTI

Guerra di mafia. Riscritta la storia del golpe di Riina

«Furono i palermitani ad attaccare i corleonesi»

di Francesco Licata

PALERMO. Il 29 dicembre del 2004 è una data che difficilmente gli uomini di Cosa nostra dimenticheranno. Quella «vigilia di festa», per dirla con le parole di Nino Rotolo (uno dei 45 boss finiti in carcere dopo essere stato intercettato per quasi due anni) rimarrà nella memoria collettiva della mafia. Da lì cominciarono i «mali discorsi» che contribuirono ad incrinare la pax mafiosa di Bernardo Provenzano. E da quei dialoghi, carpiti dalle microspie nascoste dentro il capannonne che consentiva a Rotolo di tenere assemblee pur essendo agli arresti domiciliari, gli investigatori sono risaliti ad una versione dell'origine della guerra di mafia degli Ottanta inedita e diversa da quella accreditata nel maxiprocesso. Sono stati gli stessi uomini d'onore, ascoltati in «viva voce», a fare questa sorta di revisionismo storico che rivela come in realtà non furono i «corleonesi» a scatenare la faida che avrebbe provocato più di mille morti.
L'involontaria «confessione» fa parte della lunga e intricatissima diatriba sorta dentro Cosa nostra in seguito al ritorno a Palermo di alcuni esponenti della «famiglia» Inzerillo, a sua tempo «condannati» all'esilio negli Stati Uniti ed «avvertiti» che mai avrebbero dovuto rimettere piede in Italia. Ma il 29 dicembre del 2004, diviene ufficiale la notizia che è tornato a Palermo, Rosario Inzerillo, fratello di «Totuccio», il capomandamento della borgata di Passo di Rigano ucciso dai «corleonesi» il 10 maggio 1981. Rosario è uno di quelli a suo tempo «esiliati» e il suo ritorno finirà per rappresentare un «serio problema» per i fragili equilibri di Cosa nostra, tenuti da Bernardo Provenzano attraverso il sistema di comunicazione dei pizzini.

Il dollaro in bocca
La storia va raccontata dall’inizio. Quando fu assassinato Totuccio, il capo della «famiglia», gli Inzerillo rappresentavano forse il clan più potente di Palermo, anche per via dell'amicizia coi Gambino di New York, coi quali esistevano forti vincoli di parentela. Sedici giorni dopo Totuccio, sparì nel nulla il fratello Santo; sei mesi dopo toccò a Pietro. L'onorabilità del giovane - strangolato con le corde di un pianoforte - era «sfregiata» da un biglietto di un dollaro ficcato in bocca. Come a voler dire: sei un uomo che vale poco. Ma anche Cosa nostra ha un codice deontologico e così la Commissione decretò che non si potevano ammazzare tutti gli Inzerillo. Si decise, perciò, di «salvargli la vita» imponendo loro di restarsene negli Usa col divieto assoluto di tornare a Palermo. Nasceva così la categoria dei cosiddetti «scappati».
Una decisione che 25 anni dopo veniva posta in discussione dal rientro di «Sarino» e, in verità, da un altro precedente: l'arrivo (nel 1997) di Franco Inzerillo, espulso dagli Usa e, quindi, «esonerato» dall' «esilio» per motivi di forza maggiore. E non è tutto: ad aggravare la situazione interveniva la scarcerazione di Tommaso Inzerillo e la riapparizione di vecchi «scappati» come Salvatore Di Maio, sottocapo della famiglia della Noce. E' a quel punto che nasce il problema del ritorno degli «scappati», non di secondaria importanza, a giudicare dalla verve con cui Nino Rotolo si fa promotore di una campagna per la cacciata degli «scappati». Fino a entrare in rotta di collisione con l'altro capo, Salvatore Lo Piccolo, e ad incrinare i rapporti con lo stesso Provenzano, più volte chiamato in causa perchè risolva il problema. Ma don Binu prima tergiversa: «Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c'è più nessuno», scrive Provenzano. E diplomaticamente sentenzia: «A decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo». Insomma, il solito Provenzano che prende tempo, adombra l'ipotesi del perdono per gli «scappati» e dichiara incredibilmente: «Fatemi sapere quali sono gli impegni precedenti, perchè io non li so». Chiara e netta, invece, l'avversione di Rotolo per Lo Piccolo e per «tutta la razza degli scappati»: «...perchè la decisione è questa, il programma è questo, per tutti uguale, cioè, per gli scappati... ci sarà questo programma , per loro c'era uno stabilito "se ne stanno in America... si devono rivolgere a Sarino, se vengono in Italia li ammazziamo tutti...».
Sarino sarebbe Rosario Naimo, il «tutore degli scappati», l'uomo a suo tempo investito dell'incarico di far rispettare il decreto della Commissione. E per convincere gli altri uomini d'onore a non dare ascolto a Lo Piccolo, fautore del rientro degli Inzerillo, Rotolo racconta che Franco Inzerillo ha già tentato di ucciderlo. La tensione si stempererà dopo un incontro fra Lo Piccolo e Nino Cinà, alleato di Rotolo. Entrambi scriveranno a Provenzano di un «avvenuto chiarimento».

«Sono stati loro»
Ma tra un discorso e l'altro, Rotolo dà la sua versione della guerra di mafia degli Ottanta. Il boss la racconta ad un nipote di Totuccio Inzerillo. «Tu sei nipote di Totuccio Inzerillo - dice Rotolo ad Alessandro Mannino - il quale Totuccio Inzerillo ed altri, senza ragione, senza ragione alcuna, sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci han- no trovato! Non siamo stati noi a cercarli! E si è creata questa si- tuazione di lutti e di carceri e la resposnabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e ci sono carcerati! Quindi io ti dico che non c'è differenza tra voi che ave- te i morti e fra famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perchè sono morti vivi o sono pu- re morti». Altro che Corleonesi cattivi che infieriscono sulla mafia palermitana «buona», altro che «colpo di stato» di Riina. A sentire Rotolo fu «legittima difesa», contro un gruppo (Bontade/Inzerillo) assetato di soldi e potere.

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