I differenti obiettivi all'interno delle BR

Documento aggiornato al 25/02/2004
Il consenso unanime delle colonne e la copertura del nucleo storico sulla sorte del prigioniero non risolsero i problemi delle BR. Nella colonna romana, che dal punto di vista operativo gestiva il sequestro, erano infatti presenti acute contraddizioni.
L'area del terrorismo era da tempo divisa tra chi riteneva le BR la formazione che per esperienza, rapporti internazionali, struttura, mezzi, doveva costituire il punto di riferimento e il modello della lotta armata e chi, invece, pur considerando questa organizzazione la più importante tra quelle operanti in Italia, ne criticava la struttura troppo militarizzata, le regole eccessivamente rigide, la esasperata clandestinità, e proponeva invece che la lotta armata si svolgesse secondo linee progressive capaci di sviluppare un consenso ed una mobilitazione di massa. Non quindi azioni di altissimo livello, ma un moltiplicarsi di interventi la cui pericolosità derivasse non tanto dalla gravità di ciascuno di essi ma dalla sua capacità di diffondersi, di ripetersi, di essere imitato, conferendo così una dimensione di massa all'attacco terroristico. Questo secondo orientamento faceva capo politicamente ad un gruppo di intellettuali già distintisi per essere i capi del disciolto Potere Operaio i quali, con alcune distinzioni interne, da un lato propagandavano il terrorismo di massa e dall'altro candidavano se stessi ad un ruolo-guida delle varie formazioni terroristiche, in un progetto che tendeva a saldare la capacità di attacco dimostrata dalle BR con la capacità di mobilitazione delle organizzazioni dell'Autonomia. Era questo il senso della nota espressione "coniugare la terribile bellezza del 12 marzo a Roma con la geometrica potenza di via Fani diventa la porta stretta attraverso cui può crescere o perire il processo di sovversione in Italia", scritta da Franco Piperno su "Pre-print", supplemento al n. 0 di "Metropoli" nel dicembre 1978.
Scalzone a Milano, Negri a Padova, Piperno a Roma, erano coloro che invitavano alla diffusione dell'antagonismo armato da un lato e ad una saldatura tra la lotta armata praticata dalle BR e quella del cosiddetto movimento terrorista dall'altra. Ciascuno di costoro, aveva i suoi circoli, le sue prerogative, le sue aree di influenza, le tecniche con le quali da un lato offrire coperture ideologiche, e dall'altro istigare concretamente a specifici fatti di aggressione armata.
Negli ambienti del terrorismo romano erano Piperno e il così detto progetto Metropoli a svolgere questo ruolo. Piperno era fiancheggiato da Lanfranco Pace - che era uscito dall'organizzazione delle BR poco prima del sequestro Moro, ma era ancora in contatto con i brigatisti - ed aveva una sua longa manus nelle BR costituita dai terroristi Valerio Morucci e Adriana Faranda. Questi rivestivano funzioni elevate all'epoca della preparazione e dell'esecuzione della strage e del sequestro e parteciparono entrambi agli omicidi di via Fani.
Essi non contestavano la finalità di destabilizzazione del progetto politico di cui era portatore Aldo Moro, ma dissentivano dalle BR in ordine alla soluzione della vicenda. Sostenevano che il sistema politico sarebbe stato assai più destabilizzato dalla restituzione di Moro che dal suo omicidio. Un Moro che dalla prigionia avesse duramente criticato il proprio partito ed i suoi dirigenti, avesse contestato le scelte di quella alleanza politica che egli stesso aveva contribuito a far nascere, avrebbe potuto destabilizzare il sistema politico più da vivo che da morto. La linea da loro sostenuta non aveva nulla di umanitario: non si trattava di salvare una vita umana, ma di scegliere ciò che più giovava al loro programma. Temevano di non riuscire a reggere lo scontro che si sarebbe aperto tra paese civile e organizzazioni eversive se Moro fosse stato ucciso. I loro progetti di destabilizzazione progressiva e avvolgente sarebbero stati bloccati dall'esplosione di un dramma che avrebbe svegliato le coscienze di tutti e tutti reso consapevoli dei pericoli che stavano correndo.
Poiché il futuro della lotta armata è nella sua massima diffusione, occorreva evitare che si sviluppasse da parte degli organi dello Stato un massiccio e diffuso programma di intervento antiterroristico, che colpisse innanzitutto le organizzazioni di Autonomia alle quali attingeva il reclutamento brigatista e che erano i canali di diffusione della violenza. Era in gioco non solo il futuro della lotta armata, ma la destabilizzazione del sistema democratico e l'egemonia della lotta armata. Piperno, con Lanfranco Pace, con Morucci e con gli altri coinvolti nel così detto progetto Metropoli cercavano di trarre il massimo personale vantaggio per acquisire la direzione politica del progetto eversivo. Se le BR rilasciavano Moro, vinceva la loro tesi, e la loro posizione si sarebbe rafforzata: essi giocavano senza scrupolo tutte le loro carte in questa direzione avvalendosi sostanzialmente di due strade, quella interna alle BR, costituita da Morucci e Faranda, e quella esterna fondata sui propri rapporti con taluni esponenti socialisti. Il PSI cercò appunto attraverso Piperno e Pace di capire cosa si poteva fare per ottenere la liberazione di Moro, anche al di fuori degli sforzi istituzionali. Piperno e Pace cercarono di rafforzare il tentativo del PSI per conseguire le proprie finalità.
Per un complesso di motivi, assai diversi tra loro, in parte meritevoli di rispettosa considerazione, in parte addirittura coincidenti con gli interessi del terrorismo, si svilupparono così iniziative dirette allo scambio tra Moro e alcuni terroristi detenuti, che non furono comunicate alle autorità dello Stato e che perciò in qualche modo garantirono una sorta di impermeabilità delle BR.
 
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