5. La difficile posizione della DC. L'atteggiamento degli altri partiti

Documento aggiornato al 27/12/2004
Particolarmente delicata e difficile era la posizione della Democrazia cristiana. Colpita in uno dei suoi leader più prestigiosi, che era anche presidente del partito, allora direttamente e più di altri impegnato nella gestione della politica di solidarietà nazionale, la DC, come partito di maggioranza relativa, aveva le principali responsabilità nel Governo e nelle istituzioni, la cui tenuta doveva garantire.
Riunita in permanenza da subito dopo l'agguato del 16 marzo, la sua Direzione centrale operò per tutti i cinquantacinque giorni del sequestro preoccupandosi che fossero salvaguardati "lo Stato democratico e le sue istituzioni, le sue leggi e le sue esigenze", e tuttavia nel convincimento che, nel rispetto dei principi costituzionali e nella piena salvaguardia delle prerogative dello Stato repubblicano, fosse necessario non lasciare inesplorata nessuna strada né disattesa alcuna possibilità di restituire Aldo Moro alla famiglia, al Paese, al partito. A tale fine essa ricercò iniziative esterne che, per autorevolezza o anche solo per efficacia, potessero essere risolutive del grave problema.
Ma essa non deviò mai dalla linea concordata con gli altri partiti e con il Governo, e mai interruppe i contatti con gli altri partiti, la cui solidarietà anzi fu continuamente ed esplicitamente sollecitata. La posizione della DC fu sempre assunta in piena autonomia ed in nessuna occasione fu influenzata da altre forze politiche. L'ipotesi di un condizionamento esterno è stata fermamente smentita dall'onorevole Zaccagnini e nulla di diverso è emerso dalle deposizioni di tutti i leaders politici ascoltati.
Era evidente che i terroristi, insistendo sull'equiparazione DC-Governo e sollecitando la trattativa soprattutto con la DC, tentavano di rompere l'unità interna di quel partito, e soprattutto la coesione delle forze che si erano espresse a favore della linea di solidarietà nazionale: e tale disegno andava decisamente sventato.
La Direzione della DC, ancora il 13 aprile, approvava all'unanimità un documento di conferma della linea della fermezza fino ad allora seguita; ma ribadiva altresì il convincimento che, nel rispetto dei principi costituzionali e nello piena salvaguardia delle prerogative dello Stato repubblicano, fosse necessario non lasciare inesplorata nessuna strada, né disattesa alcuna possibilità di liberare l'onorevole Moro. Anche di fronte al comunicato n. 6 delle Br, che ne annunciava la condanna a morte, sul "Popolo" del 16 aprile si esprimeva la comune disponibilità delle forze democratiche a fare tutto il possibile, a non lasciare nulla di intentato per salvare la vita dell'onorevole Moro, nel rispetto dell'ordinamento.
Si giunse così ad aprire ai brigatisti la prospettiva di atti di clemenza. "In ogni caso la Repubblica - disse testualmente l'onorevole Zaccagnini attraverso le forze che la esprimono, dinanzi alla restituzione in libertà di Aldo Moro ed a comportamenti che indicassero una svolta nell'uso della violenza avrebbe saputo certamente trovare forme di generosità e di clemenza coerenti con gli ideali e le norme della Costituzione".
L'onorevole Zaccagnini ha dichiarato alla Commissione che la Democrazia cristiana ritenne di dover agire secondo la sua ispirazione ideale di partito garante della libertà e della democrazia, a sostegno dello Stato inteso come comunità di cittadini e delle istituzioni come strumento di servizio e di crescita degli stessi.
Questa linea fu assunta in serena coscienza, pur divisi tra il tenacissimo legame di affetto e di convinzioni ideali con Aldo Moro e il sentimento di responsabilità nazionale che implica il dovere di rispondere, per l'oggi e per l'avvenire, della libertà e della sicurezza dei cittadini, tutti ugualmente esposti al pericolo della violenza e del terrorismo.
E tuttavia furono perciò esplorate con impegno tutte le soluzioni che non comportassero una violazione della Costituzione.
Anche il PCI sosteneva che si dovesse tentare ogni strada per salvare a vita del Presidente democristiano, a condizione che ciò non comportasse violazione delle leggi fondamentali dello Stato o il riconoscimento politico delle BR. Cedere al ricatto liberando uno o più detenuti in violazione delle leggi avrebbe infatti incoraggiato le organizzazioni terroristiche a nuovi e sempre più gravi ricatti e inferto un durissimo colpo alla tenuta dei corpi dello Stato e delle forze dell'ordine impegnate nella lotta al terrorismo. Così, il 23 aprile, chiudendo a Firenze il congresso dei giovani comunisti, l'onorevole Berlinguer affermò di "condividere non solo l'ansia accorata per la vita dell'onorevole Aldo Moro ma ogni altro appello, ogni altra iniziativa umanitaria volta a restituirlo ai suoi affetti".
I comunisti non mossero obiezioni all'appello rivolto dal Papa, né ai contatti con la Caritas e con Amnesty, mentre concordarono sull'impraticabilità della iniziativa sollecitata alla Croce Rossa, peraltro dichiaratasi indisponibile per l'assenza di un indispensabile presupposto: il riconoscimento della qualità di belligerante delle BR.
A giudizio dell'onorevole Berlinguer la condotta del PSI si rivelò dannosa proprio in quanto ruppe il fronte delle forze democratiche, lasciando in travedere possibilità di cedimento. Dell'eventuale liberazione di detenuti appartenenti ad organizzazioni terroristiche, oltre a quello che si sapeva dai giornali, l'onorevole Berlinguer ha detto di avere avuto notizia in un colloquio del 2 maggio con l'onorevole Craxi, presenti l'onorevole Vincenzo Balzamo e il senatore Edoardo Perna.
La disponibilità del PSDI a intraprendere tutte le iniziative e a percorrere le strade che potessero portare alla liberazione dell'onorevole Moro, con il preciso limite che esse non implicassero il riconoscimento, sotto qualsiasi forma, del terrorismo e il cedimento dello Stato in una trattativa su un piano di parità con i terroristi, è stata riferita dall'allora segretario, onorevole Romita.
Egli ha pure informato la Commissione di un colloquio da lui avuto, all'incirca a metà di aprile, con l'avvocato genovese Giovanni Battista Gramatica, con il quale avviò un discorso di possibili contatti con difensori di detenuti terroristi al fine di conseguire la liberazione dell'onorevole Moro in cambio di alcune contropartite.
L'onorevole Romita chiarì l'esigenza che non si scendesse ad una trattativa su un piano di parità, e suggerì che vi fosse da parte dei terroristi una dichiarazione di rinunzia, di resa allo Stato democratico. Il discorso quindi si sarebbe potuto avviare solo con la certezza che un'eventuale trattativa rappresentasse il punto conclusivo dell'attività terroristica contro lo Stato.
Di questo tentativo l'onorevole Romita informò il Presidente del Consiglio.
L'avvocato Gramatica ha riferito che egli telefonò all'avvocato Arnaldi, che difendeva alcuni brigatisti al processo di Torino. Tali contatti non furono concludenti, in quanto Arnaldi tendeva a sottolineare di essere soltanto un avvocato e non risultava in grado di dare tempestive risposte. D'altro canto, l'onorevole Romita proponeva di pensare alla liberazione all'estero di un uomo politico vicino alle BR o simpatizzante, con una operazione tipo Corvalan, oppure allo scioglimento delle Brigate Rosse, o alla loro rinuncia alla banda armata. La proposta, riferita all'avvocato Arnaldi, venne respinta e non se ne fece più nulla.
Dal canto suo, l'onorevole Biasini, all'epoca segretario del Partito repubblicano, ha fatto presente che, per i repubblicani, l'assunzione della posizione della fermezza non era giustificata tanto dal timore delle ripercussioni negative che la linea della trattativa avrebbe potuto avere sulle forze dell'ordine, ma soprattutto dalla scelta prioritaria della tutela della dignità dello Stato. Infatti, quando si ventilarono ipotesi di trattativa con i terroristi, non ad opera dello Stato ma di altre istituzioni, come Amnesty International o la Croce Rossa, il Partito repubblicano restò molto diffidente e addirittura inviò un telegramma, abbastanza risentito, allo stesso Kurt Waldheim quando questi, con il suo intervento, sembrò quasi mettere sullo stesso piano le Brigate Rosse e lo Stato italiano.
Secondo il segretario del Partito liberale, onorevole Zanone, occorreva fare tutto il possibile per liberare il sequestrato, e tuttavia era necessario mantenersi entro limiti di legalità: non già per una parossistica statolatria, ma per rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini che sono vittime potenziali del terrorismo.
Uscire dalla legalità avrebbe infatti creato una serie di pericoli maggiori di quelli in atto in quel momento: la successione dei comunicati confermò che proprio questo i terroristi volevano ottenere. Quindi per la via del cedimento non si sarebbe raggiunto un risultato utile.
 
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