Osservazioni dell'onorevole Stefano Rodotà

Osservazioni dell'onorevole Stefano Rodotà alla Relazione di maggioranza (Gruppo Misto - Indipendente di Sinistra)


Documento aggiornato il 27/12/2004
A proposito del giudizio espresso nel capitolo primo sulla esperienza di governo del periodo 1976-78 si dichiara di non condividere la valutazione positiva di quella esperienza e si osserva che quel giudizio politico non rientra strettamente tra le competenze proprie della Commissione ed appare irrilevante ai fini della ricostruzione delle motivazioni del rapimento e dell'assassinio dell'onorevole Aldo Moro. Quel che rileva ai fini dell'inchiesta, infatti, è la rappresentazione soggettiva di quella esperienza che si può ritenere propria delle Brigate Rosse, non l'opinione della maggioranza dei membri della Commissione.
A proposito della ricostruzione complessiva del fenomeno terroristico, e più in particolare del tipo di rapporti esistenti tra Brigate Rosse e Autonomia, si osserva che:
a) tale ricostruzione appartiene alla seconda parte dell'inchiesta, che la Commissione ha correttamente inteso tener distinta dalle risposte ai quesiti proposti dalla legge istitutiva in relazione al rapimento e all'assassinio dell'onorevole Moro ed alla strage della sua scorta;
b) proprio in considerazione del dato formale appena richiamato, la Commissione aveva rinviato lo svolgimento di una serie di autonomi accertamenti tendenti ad acquisire elementi di giudizio su aspetti anche fondamentali del fenomeno del terrorismo di destra e di sinistra in Italia;
c) accade, di conseguenza, che ricostruzioni e giudizi sono in alcuni casi formulati in maniera eccessivamente sintetica e sommaria, talora in forma assertiva non adeguatamente sorretta da accurate analisi dei fatti (si vedano, ad esempio, le pagine relative al fenomeno del terrorismo e dell'eversione nel citato capitolo primo);
d) più specificatamente, la presentazione dei rapporti tra le Brigate Rosse e Autonomia organizzata (a parte i riferimenti ad elementi di fatto che attendono ancora una verifica in sede processuale e che, quindi, avrebbero dovuto essere riferiti e adoperati con maggiore cautela) viene fatta in maniera tale da farli apparire come rapporti tra entità entrambe omogenee. Ora, se l'unicità del progetto e dell'organizzazione è certamente sostenibile a proposito delle Brigate Rosse, elementi raccolti da questa Commissione mostrano variazioni notevoli dei moduli organizzativi e operativi delle diverse entità indicate sinteticamente con la formula "Autonomia organizzata". In questa direzione, ad esempio, vanno indicazioni molteplici, raccolte soprattutto in relazione al gruppo romano di Autonomia, alle cui caratteristiche, per ragioni inerenti all'oggetto della prima parte dell'inchiesta, la Commissione ha rivolto in maniera più approfondita la sua attenzione. In questa prospettiva, per esemplificare ulteriormente, non appaiono sostenute da adeguati elementi di fatto, le affermazioni che pongono sullo stesso piano le posizioni di Scalzone, Negri e Piperno, mentre solo la posizione di quest'ultimo è stata adeguatamente approfondita dalla Commissione.
A proposito del capitolo decimo, si osserva che le conclusioni sono espresse in forma eccessivamente schematica e sommaria e che una maggiore prudenza deduttiva sarebbe stata opportuna nella utilizzazione delle indicazioni fornite da alcuni "pentiti" a proposito dell'istituto Hyperion di Parigi.

Osservazioni relative ai capitoli III e IV.

1. Poiché più volte, nel corso delle audizioni e in passi della stessa Relazione, si accenna a ritardi culturali , che avrebbero impedito agli apparati dello Stato di giungere con strumenti adeguati alla fase in cui più duro si manifestò l'attacco terroristico, si ritiene opportuno formulare le osservazioni seguenti, che s'intendono riferite ai capitoli III (Le indagini di polizia: risultati e problemi) e IV (L'attività della magistratura inquirente), peraltro condivisi nella loro ricostruzione dei fatti, di cui tuttavia si vuol qui indicare una ulteriore e più netta linea interpretativa.
Basta consultare le tre relazioni presentate al Parlamento dal ministro dell'Interno "sull'attuazione delle misure finanziarie straordinarie per il potenziamento e l'ammodernamento tecnologico dei servizi per la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica", per rendersi conto dell'inadeguatezza drammatica dei mezzi materiali a disposizione delle forze di polizia. A tale inadeguatezza si comincia a far fronte con provvedimenti legislativi parziali solo nel luglio del 1977: ma si deve arrivare al 1979 per trovare stanziamenti e avvii di piani d'intervento in grado di adeguare le capacità operative delle forze di polizia alla realtà individuata dai fenomeni terroristici.
Su queste indicazioni cronologiche conviene riflettere.

2. La giustificazione corrente di impreparazioni e disattenzioni viene ricercata in una sorta di ritardo culturale, che fece sottovalutare caratteri e ampiezza del terrorismo. La perentorietà di questa affermazione è contraddetta dal fatto che, proprio con la giustificazione della crescita del terrorismo e della criminalità comune, già nel periodo tra il 1974 e il 1977 si succedono provvedimenti legislativi tendenti appunto ad adeguare lo strumentario normativo ad una realtà i cui caratteri nuovi erano nettamente percepiti, anzi fortemente enfatizzati, come si può ricavare da una analisi delle relazioni che accompagnano quei provvedimenti legislativi e delle discussioni parlamentari.
Sembra, allora, possibile indicare una diversa - e assai più plausibile - linea di ricerca. Non si fu tanto in presenza di una sottovalutazione del fenomeno terroristico e di una conseguente assenza di una qualsiasi risposta da parte dello Stato. La risposta fu avviata, ma esclusivamente sul terreno "ordinamentale" (per usare il termine del ministro Cossiga), conformemente ad una cultura che ritrovava nella carenza di norme, piuttosto che nell'inadeguatezza degli apparati, la debolezza dello Stato nei confronti del terrorismo. Lo sforzo maggiore venne quindi rivolto alla messa a punto della "legislazione dell'emergenza", per la quale si contano otto provvedimenti assai significativi (a cominciare dalla cosiddetta "legge Reale") già nella fase della presunta "disattenzione" (1974-1977). Nulla, o quasi, viene fatto nel medesimo periodo per l'adeguamento degli apparati, malgrado esplicite segnalazioni in questo senso da parte di chi criticava la linea dell'inasprimento del sistema penale non solo dal punto di vista del restringimento degli spazi di libertà, ma pure da quello dell'efficienza.
Né si può sostenere che questo fosse soltanto un abbaglio dei legislatori, visto che da parte degli alti quadri della polizia, nello stesso periodo, vengono formulate richieste sostanzialmente analoghe.
Le condizioni reali in cui operavano i corpi di polizia, invece, venivano messe in evidenza soprattutto da persone e gruppi che cercavano di mostrare come una strategia antiterroristica richiedesse una logica di riforme capaci di investire e rinnovare gli stessi apparati. Il da questi ambienti, in primo luogo dai gruppi che danno vita al movimento per la riforma della polizia, che vengono ripetutamente segnalate le condizioni in cui realmente opera il corpo degli agenti di pubblica sicurezza: nel 1978 la forza effettiva ammonta a 68.927 persone su un organico di 84.450 unità (14.523 posti vacanti); inoltre, solo il 16% del personale effettivamente in servizio (quindi poco più di 1 1.000 uomini) è impiegato nella lotta contro la criminalità e il terrorismo; più della metà degli appartenenti al corpo di pubblica sicurezza possiede solo la licenza elementare e la loro preparazione professionale è del tutto insufficiente.
Un diverso, ma altrettanto significativo, esempio delle distorsioni determinate da un'ottica che privilegiava in modo ossessivo il momento dell'inasprimento legislativo, può essere ritrovato nella vicenda della carcerazione preventiva. Giustificato con la necessità di impedire la scarcerazione di persone pericolose per effetto della durata eccessiva di istruttorie e processi, l'allungamento dei termini della custodia preventiva finisce con il distogliere l'attenzione dall'urgenza delle riforme processuali e dell'adeguamento delle relative strutture, aggravando anche la situazione carceraria. Anche in questi settori, quindi, l'inasprimento della legislazione surroga una politica degli apparati.
D'altra parte, i più lunghi termini di custodia preventiva peggiorano ulteriormente la situazione carceraria, accrescendo l'affollamento dei diversi penitenziari. Anche qui l'intervento si snoda unicamente lungo la linea repressiva: incarico al generale Dalla Chiesa per la sicurezza esterna delle carceri, dopo le polemiche seguite ad un periodo di evasioni e di mancati rientri dai permessi concessi in base alla legge di riforma penitenziaria del 1975 (le relative cifre provocano una messa a punto polemica del Consiglio superiore della magistratura nei confronti del Presidente del consiglio dell'epoca, Giulio Andreotti); creazione delle carceri speciali; generalizzazione del regime "differenziato" previsto dall'articolo 90 dell'ordinamento penitenziario. Viene, invece, trascurata la riforma del corpo degli agenti di custodia, e il piano di edilizia penitenziaria risulta in gravissimo ritardo.
Si può concludere che una seria politica degli apparati è stata gravemente ritardata da una "cultura" che ha privilegiato l'inasprimento delle risposte legislative e amministrative.
3. Una distorsione dell'analisi può essere determinata pure da una accettazione della tesi, già ricordata, secondo cui gli apparati dello Stato si ritrovarono "senza occhi e senza orecchie" proprio nel momento più delicato, quello della strage di via Fani. Il riferimento, evidentemente, è alla situazione dei servizi di sicurezza e, almeno nelle intenzioni di alcuni, si carica di significato negativo verso la riforma del 1977, che avrebbe smantellato uno degli apparati più importanti per l'azione antiterroristica.
Ora, a parte gli intenti polemici che possono spiegare l'enunciazione di quella tesi, il problema reale è rappresentato da una esatta ricognizione del ruolo dei servizi di sicurezza lungo l'intera vicenda del terrorismo italiano, dal 1969 in poi, senza isolare momenti particolari o riferimenti di comodo. Tra l'altro, questo è pure l'unico modo serio per individuare le ragioni vere della situazione in cui i servizi di sicurezza vennero a trovarsi nel 1978, le cui responsabilità non possono certo essere occultate con polemiche pretestuose su smantellamenti dei servizi coscientemente perseguiti da "riformatori-distruttori".
Nella direzione di una riforma muovevano già le conclusioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sifar; e la spinta verso un radicale riordinamento dei servizi veniva da ciò che alcuni avevano definito "deviazioni", altri individuavano come un vero e proprio ruolo eversivo. La riforma, però, non può essere assunta come uno spartiacque tra i comportamenti tenuti da questi particolarissimi apparati. Ci sono vicende che scavalcano quell'evento e sono rivelatrici di alcune costanti nella linea tenuta dai servizi di sicurezza.
Senza inseguire i mille rivoli delle ipotesi affacciate a proposito dei ruoli dei servizi in molteplici vicende di terrorismo nero e rosso, è sufficiente richiamare il dato rappresentato dal puntuale emergere della loro presenza in circostanze chiave della storia del terrorismo (in particolare di quello di destra).Tracce più o meno rilevanti di azioni dirette o di coinvolgimenti dei servizi si ritrovano in pratica in tutte le decisioni giudiziarie che riguardano fatti di terrorismo (nero soprattutto) dalla strage di piazza Fontana fino a quella della stazione di Bologna. A questo si deve aggiungere, dopo la riforma, il coinvolgimento di un alto dirigente dei servizi in una fuga di documenti che riguardava Marco Donat-Cattin, allora latitante; il ruolo a dir poco determinante giocato da uomini dei servizi in occasione del sequestro dell'assessore Ciro Cirillo; l'episodio delle inesatte informazioni fornite a questa Commissione dal ministro della Difesa Lagorio, a proposito dei contatti intervenuti tra servizi segreti israeliani e Brigate Rosse, inesatte informazioni evidentemente fornite al ministro dai servizi. E - ultima, ma davvero non minore considerazione - non può essere certo trascurato il fatto che l'intero vertice dei servizi di sicurezza riformati risultava iscritto alla loggia massonica P2, insieme ad altri quadri elevati degli stessi servizi, dell'esercito, delle forze di polizia.
Dall'insieme di questi elementi (e qui sono stati ricordati soltanto quelli più vistosi) risulta evidente la necessità di rivolgere l'attenzione ai servizi di sicurezza partendo dalla realistica considerazione che si tratta di apparati che, almeno in alcuni uomini o settori, hanno offerto coperture al terrorismo, quando non sono stati addirittura implicati direttamente in attività di tipo terroristico. E' qui, dunque, che va ricercata la radice della "impreparazione" o della indisponibilità dei servizi in momenti determinanti per la lotta al terrorismo.

4. Per valutare il grado di preparazione e le dinamiche interne agli apparati di polizia, è opportuno ricordare qui alcuni episodi diversamente rivelatori delle modalità operative e organizzativi di tali apparati. I due episodi più significativi, ampiamente analizzati nella relazione, riguardano le perquisizioni effettuate in via Gradoli e gli accertamenti in via Montalcini. In entrambi i casi può essere certamente proposta la spiegazione della ridotta capacità professionale di coloro i quali diressero le operazioni di polizia. In entrambi i casi, però, il grado di "approssimazione" appare così alto da giustificare interpretazioni che mettono in evidenza come l'impreparazione o sia stata deliberatamente al servizio di un interesse a non spingere le indagini fino in fondo; o rappresenti soltanto la copertura di una utilizzazione distorta di capacità professionali peraltro esistenti. Affiora così un altro dei possibili criteri di lettura della inadeguatezza o impreparazione degli apparati: quello, cioè, di una utilizzazione "pilotata" delle carenze della organizzazione di polizia (problema che si propone anche per la perquisizione nella tipografia Triaca).
E' innegabile, infatti, che tali carenze vi fossero. Basta qui ricordare come dai libretti personali degli agenti di scorta di Aldo Moro, assassinati in via Fani, non risulta che venissero effettuate le esercitazioni settimanali di tiro, contrariamente a quanto hanno riferito alla Commissione il dottor Parlato e il dottor Zecca; e come i dati raccolti dalla Commissione confermino che il mitra in dotazione agli stessi agenti fosse assai probabilmente inservibile. D'altra parte, proprio da una delle relazioni del Ministro dell'Interno sul potenziamento e l'ammodernamento delle forze di polizia (quella presentata alle Camere il 9 maggio 1980) risulta che solo nel 1980 venne messo a punto un piano per la costruzione di 43 nuovi poligoni di tiro (intanto, le forze della polizia di Stato utilizzarono parzialmente le disponibilità in questo settore dell'Arma dei carabinieri, che aveva avviato assai più tempestivamente un piano di ammodernamento, come risulta dalle informazioni fornite alla Commissione).
Più analitica attenzione merita un'altra vicenda, che si colloca in una zona anch'essa non decifrabile in maniera univoca. Già nel pomeriggio del 16 marzo 1978 viene diffuso un bollettino delle ricerche della Direzione generale di pubblica sicurezza-Criminalpol, contenente l'invito a ricercare un certo numero di persone, di cui sono allegate le fotografie. La diffusione dì queste foto anche attraverso la stampa e la televisione provocò all'epoca più di una polemica, soprattutto perché nell'elenco erano comprese due persone già in carcere e due fotografie si riferivano alla stessa persona, sia pure con nomi diversi. Da questo si trasse immediatamente spunto per ironizzare pesantemente sul "cervellone" del Viminale, accreditando ulteriormente la tesi dell'impreparazione.
Riflettendo più analiticamente su questo episodio, si può però disporre di qualche elemento di giudizio meno sommario. L'esistenza nell'elenco di foto di persone già in carcere e la duplicazione della foto di una stessa persona indicano con chiarezza la mancanza di coordinamento tra le diverse forze di polizia, che sicuramente costituisce una delle chiavi fondamentali per la spiegazione di molta parte delle questioni riguardanti gli apparati. Ma l'attenzione deve essere portata sulle altre foto, poiché oggi siamo in grado di renderci conto del fatto che esse indicavano uomini delle Brigate Rosse effettivamente implicati nell'assalto di via Fani (basta qui ricordare i nomi di Mario Moretti e di Prospero Gallinari).

Da questa constatazione possono essere tratte due conclusioni, tra loro divergenti. Si può concludere che quei nomi e quelle foto, tratti dagli schedari della Criminalpol, fossero stati indicati in modo abbastanza casuale, trattandosi di persone schedate a causa dei loro precedenti, ricercate per gravi reati e sospettate di appartenere alle Brigate Rosse. Se si muove da questo punto di vista, si può parlare di pura coincidenza, che non dimostra una reale conoscenza da parte delle forze di polizia dell'organizzazione delle Brigate Rosse.
Se, invece, non ci si ferma alla sbrigativa constatazione di una casuale coincidenza, si può concludere almeno che l'immagine di apparati "senza occhi e senza orecchie" non corrispondeva ad una realtà in cui materiali conoscitivi erano già stati accumulati. Rimane così aperto l'interrogativo intorno al modo in cui veniva utilizzato quell'insieme di materiali, e intorno alla esistenza di adeguati strumenti per la loro gestione.
Questo interrogativo rimanda ai problemi aperti dallo smantellamento di due strutture che, proprio sul piano operativo, avevano dato prova di elevata professionalità e preparazione nella lotta al terrorismo in momenti che precedono la fase di sua massima espansione, quella degli anni 1976-80. Si tratta dell'Ispettorato generale per l'azione contro il terrorismo, affidato al dottor Emilio Santillo; e del Nucleo speciale di polizia giudiziaria creato a Torino dall'Arma dei carabinieri e affidato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Entrambe queste strutture vengono create nella primavera del 1974, stagione in cui si verificano due gravissimi fatti di terrorismo, la strage di piazza della Loggia a Brescia ed il rapimento del giudice genovese Mario Sossi. Ed entrambe hanno un destino comune, quello di uno scioglimento non facilmente spiegabile. Dopo aver condotto importanti operazioni (si pensi soltanto all'arresto di Curcio), il Nucleo di Torino viene, infatti, smobilitato,, disperdendosene l'esperienza.
Per l'Ispettorato contro il terrorismo, lo scioglimento viene spiegato con un argomento formale: l'entrata in vigore, nel 1977, della legge di riforma dei servizi, che escludeva appunto l'esistenza di organismi con compiti informativi fuori dagli schemi organizzativi e dalle responsabilità previste dalla riforma. Ma la ragione formale e la plausibilità stessa dell'argomento vengono contraddetti dalla costituzione, con decreto del ministro dell'Interno del 31 gennaio 1978, dell'Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali (Ucigos). I compiti di tale ufficio - "trattazione degli affari relativi all'espletamento delle funzioni di polizia di sicurezza e di polizia giudiziaria per la tutela della sicurezza dello Stato e per la lotta al terrorismo e alla sovversione, anche coordinando l'attività degli organi territoriali" - appaiono in evidente contrasto con quanto dispone già l'articolo 1 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, dove si afferma che "al Presidente del consiglio dei ministri sono attribuiti l'alta direzione, la responsabilità politica generale e il coordinamento della politica informativa e di sicurezza nell'interesse e per la tutela dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento". Sia per i suoi fini, sia per la sua collocazione nell'ambito della Direzione generale per la pubblica sicurezza del ministero dell'Interno, dunque, l'Ucigos non appare in linea con la logica della riforma, e la sua costituzione rende non più spiegabile lo scioglimento dell'Ispettorato contro il terrorismo e la dispersione del patrimonio di conoscenze e di professionalità dei suoi cento investigatori.
La logica delle gestioni fuori dagli stessi schemi legislativi è destinata a proliferare. E' del 1978 la creazione di un nucleo speciale diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: per più di un anno non si riesce neppure a conoscere il testo del decreto istitutivo di tale nucleo, peraltro mai reso noto ufficialmente (il ministro dell'Interno non ha ancora risposto ad una interrogazione parlamentare in materia dell'estate del 1979). Anzi, è risultato alla Commissione che il testo del decreto non era stato neppure comunicato ai prefetti. Non si può, tuttavia, condividere il giudizio espresso dalla Relazione, nel capitolo terzo, secondo cui a quel decreto non sarebbe possibile "muovere alcun rilievo o censura", trattandosi di "decisione politica", poiché un fatto del genere non è certo idoneo a far venir meno il contrasto tra quell'atto e la disciplina vigente in materia.
In conclusione, si ritiene di dover richiamare l'attenzione sui fatti seguenti:
a)lo scarto tra insistenza sugli aspetti 'ordinamentali' (legislazione dell'emergenza) e sottovalutazione degli aspetti organizzativi, privilegiandosi i primi anche là dove era evidente la loro scarsa efficacia nella lotta al terrorismo (è il caso, tra gli altri, del fermo di polizia);
b)l'esistenza di logiche interne agli apparati di polizia e di sicurezza visibilmente contrastanti con la volontà proclamata di lotta al terrorismo;
c)la possibile gestione politica delle inefficienza esistenti (o 'procurate') all'interno di quegli apparati.

5. Un accenno dev'esser fatto anche al ruolo di un altro apparato, quello giudiziario, il cui modo d'operare lungo l'intera vicenda Moro è efficacemente ricostruito nel capitolo quarto. Qui si vuol soltanto mettere in evidenza come la somma delle disattenzioni sia tale da legittimare l'impressione che un più incisivo intervento dell'apparato giudiziario sia stato considerato piuttosto come un fattore di disturbo in una vicenda che si preferiva gestire attraverso canali diversi. Si tratta, comunque, di fatti di tale gravità che avrebbero meritato lo svolgimento di un'inchiesta da parte del ministero competente e dell'organo di autogoverno della magistratura.

6. Nel paragrafo 10 del capitolo terzo si sottolinea che Patrizio Peci non è stato in grado o non ha voluto dare elementi utili alla localizzazione. della "prigione" dell'onorevole Moro. Qui si ipotizza una reticenza da parte di Peci: ed è bene che sia stato fatto, poiché uno degli elementi più sconcertanti dell'inchiesta condotta dalla Commissione si ritrova sicuramente nel fatto che più di un "pentito" (Peci, Savasta), dopo essersi mostrato a conoscenza di infiniti dettagli di vicende e azioni a cui pure non aveva partecipato personalmente, diveniva improvvisamente sprovvisto di minimi ricordi o informazioni via via che ci si avvicinava al cuore del caso Moro.
 
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