Brigate Rosse

Documento di rivendicazione dell' omicidio Biagi

Documento aggiornato al 17/02/2006
Il giorno 19 marzo 2002 a Bologna, un nucleo armato della nostra Organizzazione, ha giustiziato Marco Biagi consulente del ministro del lavoro Maroni, ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato, e di ridefinizione tanto delle relazioni neocorporative tra Esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, quanto della funzione della negoziazione neocorporativa in rapporto al nuovo modello di democrazia rappresentativa. Una democrazia "governante" che già accentrante nell'ultimo decennio i poteri nell'Esecutivo e nella maggioranza di governo ora con la riforma dell'articolo V della Costituzione (detta "federale") vedrà ripartite competenze e funzioni agli organi politici locali entro i vincoli di indirizzo e di bilancio centralizzati e legati all'integrazione monetaria europea, con il fine di stabilizzare l'avviata alternanza tra coalizioni politiche incentrate sugli interessi della borghesia imperialista, sfruttando il restringimento della base produttiva nazionale non solo come vantaggio competitivo nei livelli di sfruttamento della forza-lavoro rispetto ai sistemi economici di altri paesi, ma come condizione per riadeguare il dominio della borghesia imperialista e rafforzarlo nei confronti delle istanze proletarie e delle tendenze al loro sviluppo in autonomia politica antistatuale e antistituzionale che nascono da queste condizioni strutturali.
Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana per la quale l'accentramento dei poteri nell'Esecutivo, il neocorporativismo, l'alternanza tra coalizioni di governo incentrate sugli interessi della borghesia imperialista e il "federalismo" costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista.
Una progettualità politica che si costruisce e si sviluppa attraverso entrambi gli schieramenti politico-istituzionali e che misurandosi con i nodi generati dalle risposte di politica economica, di riforme strutturali e di rifunzionalizzazione dello Stato che sono state date negli anni passati per governare la crisi e il conflitto di classe, deve affrontare ora il contemporaneo maturarsi di questi processi per cui diventa decisiva la capacità di integrare organicamente i passaggi di questa duplice priorità che ha caratterizzato in generale le legislature degli anni '90, pena l'indebolimento della capacità di governare le contraddizioni generate dall'approfondimento della crisi del capitalismo. Compito di una forza rivoluzionaria come le Brigate Rosse è attaccare questa progettualità e così incidere nello scontro politico tra le classi, in funzione di una linea di combattimento che in questa fase della guerra di classe deve riferirsi a obiettivi rivolti a produrre disarticolazione politica dello Stato e in cui si sostanzia l'agire da partito per costruire il Partito.
Con questo attacco le Brigate Rosse operano per spostare in avanti lo scontro tra le classi e collocano su un punto di forza la posizione degli interessi politici autonomi del proletariato, facendo così avanzare la linea politica sulla quale indirizzare lo scontro prolungato con lo Stato e l'imperialismo, che propongono alle avanguardie e al proletariato rivoluzionario e a tutta la classe.
L'azione riformatrice di Marco Biagi, esperto giuslavorista e delle relazioni industriali, rappresentante delle istanze e persino dei sogni della Confindustria, si è espressa nell'Esecutivo Berlusconi nelle responsabilità primarie ricoperte nell'elaborazione del "Libro Bianco", nell'aver sostenuto le misure di abrogazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e nell'essere promotore e conseguentemente incaricato del compito di guidare l' apposita commissione governativa, che ne dovrà realizzare il definitivo superamento con lo "Statuto dei lavori" che adeguerebbe la regolazione dei rapporti di lavoro alle nuove condizioni di mercato, e cioè costituirebbe uno strumento normativo che, alludendo alla tutela dei nuovi lavoratori precarizzati, in realtà definisce le garanzie per i padroni nelle diverse forme di sfruttamento del lavoro salariato.

A dimostrazione del fatto che nelle nuove forme di democrazia governante le coalizioni politiche sono incentrate intorno agli interessi generali della borghesia imperialista, l'azione riformatrice di Marco Biagi si è espressa negli Esecutivi lungo tutto l'arco degli anni '90. Già nel '93 collaborava con il Ministro del Lavoro Giugni nel governo Ciampi per riformare la normativa sull'orario di lavoro, mentre nel '96 nel governo Prodi come consigliere al medesimo ministero con Tiziano Treu, elabora il famigerato "pacchetto Treu" base dell'accordo neocorporativo tra Governo, Confindustria e Sindacato confederale con cui fu fatto il salto di qualità nelle varie forme di precarizzazione del lavoro salariato che hanno così violentemente inciso nelle condizioni materiali della classe operaia e del proletariato. Con lo stesso Esecutivo diventa consigliere del Presidente del Consiglio Prodi, mentre nel successivo Esecutivo D'Alema segue Treu al ministero dei Trasporti, e nel contempo è consigliere di Bassolino per gli affari internazionali e comunitari, veste nella quale presentò il Piano nazionale per l'occupazione in sede Ue e consulente anche alla Funzione pubblica con il ministro Piazza.
Non meno degna di nota è la sua responsabilità nel Patto di Milano, anticipazione del modello di mercato del lavoro e sociale che avrebbe voluto oggi generalizzare e con cui si è tentato di ritagliare il prezzo e le condizioni di impiego della forza-lavoro sulla base nuda e cruda della ricattibilità di condizioni sociali di dipendenza particolarmente svantaggiate, a prescindere e persino in contrasto con le condizioni di mercato locali della forza-lavoro, con cui veniva dimostrato in modo inequivoco come gli intenti odierni della borghesia non siano affatto riferibili alla ideologia liberista che segnò lo sviluppo del capitalismo, non sono rivolti a lasciare al "libero mercato" il rapporto tra capitale e lavoro, sciogliendolo da vincoli politici, ma sono tesi a disporne altri a proprio favore e a garanzia della subordinazione politica del proletariato.
Le responsabilità di Marco Biagi non si sono fermate a un piano nazionale, ma sono state assunte anche a livello internazionale. Ad esempio in sede Ue, dove è stato consigliere di Prodi alla Commissione europea, e membro di comitati ad hoc come il "Gruppo di alta riflessione sulle relazioni industriali" incaricati dalla Commissione stessa, per la riforma del mercato del lavoro e delle relazioni industriali e l'istituzione del "dialogo sociale". Oppure in sede Onu, dove l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) per la quale è stato anche consulente per l'est europeo, con conseguenze che tutti possono immaginare per i livelli di sfruttamento raggiungibili in questi paesi dal capitale, l'ha incaricato di collaborare alla riforma del mercato del lavoro...per la Bosnia! Ciò segnala come la sua iniziativa corrisponda agli interessi del padronato italiano non solo nell'ambito nazionale, ma anche nei paesi recentemente integrati nella catena imperialista anche forzosamente con l'occupazione militare.
L'azione dell'Esecutivo con il Libro Bianco, le deleghe e lo Statuto dei lavori è tesa a realizzare un progetto di riforma a carattere complessivo che collegata a quella sulla previdenza, e alla prevista attribuzione del tfr dei nuovi assunti alla previdenza integrativa, realizza quello "scambio" tra tfr e competitività da tempo richiesto dai padroni.
Il Libro Bianco non interviene solo sul mercato del lavoro, sul collocamento, sulle tipologie contrattuali, ma anche sul diritto di sciopero proponendo l'indizione di referendum per deciderne l'attuazione, sull'azionariato dei dipendenti, sui comitati aziendali europei, sugli ammortizzatori sociali, sulle controversie di lavoro. Una riforma che avrebbe dovuto riguardare l'intera legislatura e avere, nelle intenzioni dell'Esecutivo, come meta la scrittura di uno "Statuto dei lavori" in sostituzione dello Statuto dei lavoratori, passaggio che invece, a causa delle dinamiche dello scontro, è stato successivamente anticipato.
Il modello sociale prefigurato da Marco Biagi era quello di una "società attiva", in cui ogni giovane lavoratore attraverso il percorso a ostacoli dell'apprendistato, del contratto a termine, dei vari tipi di contratto precario, delle politiche attive del lavoro e della formazione nei periodi di disoccupazione, del contratto a tempo indeterminato ma senza la tutela dell'art. 18, realizzi una "carriera educativa" nella quale si forma in piena "autonomia", quella generabile dalla spinta del bisogno dei mezzi per vivere, spinto quindi dal ricatto dell'assenza di alternative insito nella "natura delle cose" ossia i rapporti sociali capitalistici, secondo i voleri e i desideri del capitale, o se si vuole in funzione della propria sfruttabilità o "occupabilità" da parte del padrone, abbandonando ovviamente ogni velleità di conflitto e ogni pratica antagonista, appoggiato in ciò da "tutori" come le agenzie interinali, il collocamento privato e pubblico, le agenzie di formazione, i collegi di conciliazione e arbitrato etc., e nel quadro dei vari patti territoriali, andando a costituire così la principale garanzia per la competitività del capitale investito in Italia, in quanto ciò che risulta essere "filtrato" da questo processo e procedura è la forza-lavoro più "adattabile" alle esigenze di valorizzazione del capitale, senza rischi di autoritarismi inutili e dannosi.
Il progetto del Libro bianco, insieme alla riforma della previdenza, al nuovo ruolo delle Regioni e degli enti locali, alla privatizzazione del collocamento e dell'assistenza, fa fare un salto alle relazioni politiche tra le classi, approfondendone e complessivizzandone il contenuto corporativo. Il "dialogo sociale" supera l'aspetto della "concertazione" come dialettica non conflittuale tra le parti tesa a comuni obiettivi programmatici perseguiti in funzione della competizione, e organizza un sistema di relazioni sociali che lega forzosamente la condizione del lavoro salariato alla competitività del capitale, un dato che spiega in parte la resistenza sindacale a fronte della maggioranza di governo che assume tale iniziativa politica, che non garantisce come avrebbe potuto fare il centro-sinistra che ha un legame elettorale con parte del sindacato confederale, la preservazione di un peso politico.
In sostanza ciò a cui si relazionano tanto il Libro Bianco che lo Statuto dei Lavori è il livello di crisi a cui è pervenuto il capitale che obbliga la borghesia imperialista, e ciò gli è consentito dai rapporti politici determinatisi in Italia negli ultimi 20 anni tra le classi, a ridefinire i termini dello sfruttamento e di governo del conflitto di classe, in modo tale da recuperare margini di profitto e prevenire l'esplosione del conflitto tra interessi che si polarizzano sempre di più, a fronte di una base produttiva che invece si contrae, processo che come hanno dimostrato i trent'anni trascorsi, non c'è politica economica che possa invertire.
In questo quadro per un'economia come quella italiana debole e sottoposta tanto alla concorrenza dei monopoli più forti europei e americani quanto a quella dei "paesi emergenti", diventa necessario riorganizzare le relazioni sociali nelle quali gli interessi antagonisti delle classi si contrappongono.
Una riorganizzazione che deve essere operata in funzione:
1) dell'obiettivo della competitività del capitale, attraverso politiche rivolte non solo alla regolazione al ribasso del costo del lavoro, ma anche all'organizzazione del mercato del lavoro rivolta a rendere l'esercito industriale di riserva non solo un fattore di pressione sul prezzo della forza-lavoro ma un fattore forzoso (le politiche "attive") di capacità competitiva del sistema economico sociale.
2) della strutturazione di forme di rapporto sociale idonee non solo a rendere "flessibili" i fattori produttivi "umani", cioè la forza-lavoro, ma anche a rimodellare il conflitto per prevenirne la caratterizzazione di classe, tramite le nuove condizioni contrattuali e normative tese a costituire un terreno di selettività progressiva e individualizzata dell'accesso al lavoro salariato. Le diverse posizioni e i diversi percorsi contrattuali compresenti nello stesso ambito lavorativo, dovrebbero costituire una garanzia per schierare intorno agli interessi padronali alla competitività quelli operai e dei lavoratori, d'altra parte proprio queste differenze e l'arretramento che costituiscono per le condizioni della classe inducono all'indirizzamento delle rivendicazioni economico-sociali verso obiettivi generali, e il sindacato confederale a recuperare un equilibrio attraverso battaglie sui "diritti", apparentemente universali in quanto diritti, in realtà nella loro "esigibilità" correlati alle differenti condizioni di competitività aziendale o territoriale nonostante lo sfoggio di posizioni egualitariste professate oggi da Cofferati. Esempio palese è il superamento della condizione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l'attuale legittimazione e integrazione stabile nei rapporti di lavoro di quello a tempo determinato, che ha indotto la definizione da parte sindacale di una battaglia sui diritti differenziata per i lavoratori a termine che contribuisce a stabilizzare questa forma di sfruttamento e a subordinare le istanze di classe a quelle del padronato, dal momento che ottenere delle tutele relative alle forme attuali della valorizzazione capitalistica è coerente con la costruzione di un sistema economico competitivo, mentre porre al centro istanze di classe e gli obiettivi che le rappresentano, richiederebbe di instaurare un rapporto di forza generale con cui imporre l'autonomia di classe rispetto alle istanze del capitale.
3) della rimodellazione, su queste basi sociali, della rappresentanza politica e sociale correlativamente ai processi di esecutivizzazione oggi necessari nel governo della crisi e del conflitto articolandola in dimensioni localizzate e tra loro, a loro volta competitive (col supporto dei necessari strumenti di coercizione e repressione), presupposto questo tanto della riforma dello Stato in senso "federale" che della tenuta del fronte interno rispetto all'impegno bellico costante dello Stato.
La compenetrazione tra pubblico e privato nei settori della istruzione, della sanità, dell'assistenza etc. con un maggior ruolo delle fondazioni, del terzo settore..., dà una base economica e sociale concreta a questo disegno politico, come pure gliela dà l'ulteriore trasformazione del sindacato confederale in associazione di iscritti, ai quali fornisce essenzialmente "servizi", e non più ruolo di organizzatore del conflitto con il capitale. In questa direzione va anche la normativa sui comitati aziendali delle multinazionali europee definita al vertice di Nizza, e che prevede almeno il "diritto di informazione" per le rappresentanze dei lavoratori di queste aziende, come livello minimo di cooptazione cogestionaria, come pure l'azionariato aziendale come modo di remunerazione dei dipendenti delle fasce alte, e l'impiego del tfr per la previdenza integrativa privata, tutti elementi che tendono a ridefinire il ruolo del sindacato su basi materiali di corresponsabilizzazione nei profitti aziendali, a farne un soggetto economico che "vende" contrattazione, e a legare più organicamente alle aziende la componente di forza-lavoro maggiormente qualificata, un aspetto questo che va a modificare i caratteri dell'aristocrazia operaia.
Il governo Berlusconi ha in generale impostato e gestito il suo indirizzo programmatico qualificando come aspetto prioritario l'approfondimento del processo di complessiva ristrutturazione e riforma del sistema economico sociale articolando su tempi necessariamente lunghi i passaggi rivolti a dare attuazione alla riforma del titolo V della Costituzione. Rispetto a questo punto la coalizione di governo ha una sua base programmatica che ha come terreno di unità politica l'attuazione di una riforma della forma dello Stato e del governo da combinare con l'avanzamento del processo di ristrutturazione economico-sociale. La capacità di realizzare queste riforme avrebbe costituito un punto di forza per consolidare il sostegno di tutti i settori confindustriali e contenere la vulnerabilità di una maggioranza coesa dalla figura del capo del governo Berlusconi caratterizzata dall'anomalia di concentrare interessi capitalistici e politici, vulnerabile perciò all'iniziativa della concorrenza e dell'opposizione, anche attraverso le molte occasioni offerte all'iniziativa giudiziaria.
Rispetto alla negoziazione neocorporativa in specifico, l'equilibrio di governo aveva trovato nel Patto di Milano e nel Patto della Lombardia le sue sperimentazioni. Già il governatore della Banca d'Italia Fazio e in parte anche la Cisl avevano espresso, nei primi mesi della legislatura, i contenuti politici di una linea di aggiornamento della negoziazione neocorporativa: i cardini riguardavano l'accentuazione del livello aziendale e territoriale della contrattazione, la partecipazione azionaria dei dipendenti, le modifiche rispetto al mercato del lavoro in direzione di una maggiore flessibilità, la diversificazione delle regole del mercato del lavoro in relazione alle diverse condizioni soggettive e territoriali e l'estensione della gestione privata del mercato del lavoro (estensione delle competenze delle agenzie interinali per fargli assumere il ruolo di agenzie di collocamento etc..).
Ciò non ha impedito che l'avvio di queste riforme fosse attraversato da contraddizioni e illinearità data la forzatura che costituiscono nei rapporti con la classe e anche per la contingenza delle scadenze politiche ravvicinate delle elezioni amministrative per le quali la coalizione di opposizione sta impostando un'alternativa progettuale imperniata sulla difesa dei diritti e della legalità, che la riproponga come polo credibile di alternanza alla guida del governo; contraddizioni e illinearità che segnalano la vulnerabilità dello Stato nell'azione rivolta a costruire la sua capacità di governo degli antagonismi tra le classi e la delicatezza del passaggio politico in atto.
L'azione di governo si è prefissa di superare la concertazione come "metodo per governare" che appariva ricercare l'accordo tra tutte le parti, che vedeva la negoziazione neocorporativa aggregare il sindacato confederale nelle decisioni di politica economica e costituire l'alternativa al conflitto escludendolo e marginalizzandolo, relativamente, come rapporto tra padronato e lavoratori e tra Stato e classe nelle materie prerogativa dello Stato riguardanti la regolazione del mercato del lavoro, dei rapporti contrattuali e le erogazioni sociali. Questo accompagnava la fase di passaggio dalla prima alla seconda repubblica ed era funzionale a destrutturare la democrazia parlamentare e il modo in cui si era realizzata la rappresentanza politica nei decenni passati, per costruire l'alternanza e una democrazia governante; ciò necessitava infatti il depotenziamento delle istanze antagoniste presenti nel conflitto di classe e il loro sradicamento dallo scontro politico in modo che questo ne fosse sterilizzato consentendo agli schieramenti politici contrapposti di misurarsi per la capacità di rappresentare gli interessi della borghesia imperialista aggregando interessi sociali particolari intorno al programma di governo. La "concertazione" entra in crisi manifesta con il governo D'Alema, per la resistenza che suscitavano nella classe le misure antiproletarie che ne giustificavano il ruolo politico, e per la particolare difficoltà a produrre le ulteriori trasformazioni per le quali premeva la Confindustria. In questo quadro era inserita l'iniziativa del 20 maggio contro Massimo D'Antona della nostra organizzazione che incideva nello scontro politico indebolendo l'azione dell'Esecutivo, che dovette riadeguarsi non solo perché non poteva più contare sul contributo antiproletario qualificato dell'elaboratore di quel passaggio, ma anche perché doveva trovare il calibramento politico giusto, che evitasse di alimentare saldature tra il conflitto di classe e un'opzione rivoluzionaria considerata solo un'amaro ricordo. La borghesia imperialista non abbandona i suoi obiettivi, ma solo la coalizione di centro-sinistra dimostratasi incapace nonostante tutti i buoni propositi di realizzare il suo programma, e il nuovo governo Berlusconi sperimenta il superamento della concertazione su un piano nazionale, all'inizio della legislatura, con l'avviso comune di Cisl Uil e Confindustria sulla direttiva comunitaria sui contratti a termine, avviando quel dialogo sociale che diventa il modello di relazioni neocorporative da realizzare per questo governo, con cui normalizzare e funzionalizzare anche questo piano di relazioni politiche all'alternanza, costruendo un rapporto tra questa maggioranza e parte dei sindacati confederali, e nel contempo ottenendo anche il ridimensionamento del peso politico della Cgil e l'indebolimento del centro-sinistra e in particolare dei Ds a cui è legata. Ciò che si è dimostrato è che le istanze di competizione delle componenti confindustriali nel quadro dei livelli di crisi presenti e rispetto alle prospettive di allargamento europeo, hanno premuto affinchè fossero realizzate da subito delle forzature che rompessero i vincoli preesistenti come garanzia che in tempi politici programmabili si pervenisse alla indispensabile rimodellazione delle relazioni sociali coronamento di anni di logoramenti e destrutturazioni delle posizioni del proletariato; un'istanza che almeno in parte si è saldata con gli interessi politici di questo governo, ma che ha alimentato un conflitto senza riuscire a conseguire linearmente nè l'istituzione del dialogo sociale nè lo stringimento del rapporto politico da parte di questa maggioranza con parte del sindacato confederale. La rinnovata determinazione del governo a fronte delle scadenze della mobilitazione e della catalizzazione delle posizioni sindacali intorno ad esse, segnala il livello raggiunto dallo scontro, il problema di come incidervi per parte del proletariato, e l'importanza della posta in gioco che non risiede nelle deroghe all'articolo 18, ma nella modificazione dei rapporti di forza con la classe proletaria che può consentire di avviare la rimodellazione sociale e politica.
In relazione a questo quadro l'attacco portato dalle Br, nella figura di Marco Biagi, alla progettualità politica della borghesia imperialista, si colloca nella contraddizione dominante tra classe e Stato e sull'asse programmatico dell'attacco allo Stato e si dialettizza con le istanze di potere espresse dalla lotta di classe per l'affermazione dei suoi interessi generali contro quelli della borghesia imperialista, sancendo nella pratica la necessità e realizzabilità di una prospettiva rivoluzionaria politica e sociale.
Il proletariato e la classe operaia in questa fase politica non sono disposti nello scontro perseguendo autonome finalità rivoluzionarie, né sono quindi organizzati in strutture adeguate a praticare e sostenere la guerra necessaria. Il proletariato si misura con le forzature della classe dominante, con l'obiettivo di resistervi e con l'aspirazione a conquistare posizioni sociali e politiche più avanzate e utilizza per mobilitarsi gli strumenti organizzativi che trova a disposizione, essenzialmente gli apparati sindacali. Fa i conti quindi con la capacità che ha lo Stato di sostenere la sua lotta, e di assumere le decisioni volute pur a fronte di ampie e determinate mobilitazioni; in questo misura i rapporti di potere e di forza che ci sono tra sé e lo Stato, tra gli strumenti che usa lo Stato e quelli che trova a disposizione per sè, misura la mancanza di potere e la realtà del potere contro i suoi interessi generali, oggi rivolta a erodere gli ultimi baluardi di un rapporto politico e di forza ottenuto in un secolo di dura e sanguinosa lotta e a rimodellare le relazioni sociali e politiche per consolidare un rapporto di subalternità.
E' la posta in gioco di questo scontro che rinvia al nodo di un'alternativa complessiva, di un'alternativa rivoluzionaria, nella quale l'emancipazione politica apra la strada al progresso sociale, ed è l'attacco delle Br portato oggi alla figura politica di Marco Biagi, in continuità con la prassi rivoluzionaria espressa in 30 anni di attività e in grado di misurarsi con le trasformazioni subite dalla mediazione politica tra le classi, che fornisce l'orientamento politico e strategico in cui questa prospettiva è realizzabile e può essere fatta avanzare. Una prospettiva in cui il combattimento contro lo Stato e la sua progettualità antiproletaria e controrivoluzionaria è modalità generale della prassi rivoluzionaria d'avanguardia per trasformare lo scontro di classe in guerra di classe necessariamente prolungata contro lo Stato e l'imperialismo e non ha una funzione tattica più o meno decisiva in supporto a una azione politica sviluppata separatamente dal piano militare, ma è carattere generale della prassi rivoluzionaria che qualifica la proposta della Br come Strategia della Lotta Armata che avanzano a tutta la classe per conquistare il potere e instaurare la dittatura del proletariato.
Il contesto politico complessivo e internazionale in cui l'attacco è inserito, è connotato dal livello più profondo raggiunto dalla crisi e dalla tendenza alla guerra, fattori che costituiscono il motore strutturale dei processi di trasformazione rispetto ai quali deve definirsi ogni progettualità politica e i cui passaggi odierni sono l'approdo di un processo che origina dalla crisi subentrata alla ricostruzione post-bellica a cavallo tra gli anni '60 e '70 e che portò al progressivo superamento del sistema di produzione fordista che, nato a cavallo tra le due guerre mondiali ed estesosi in Italia nel dopoguerra, era sostenuto da una politica economica statale, nella quale peraltro prese piede il welfare state e termini specifici di governo del conflitto di classe oggi materia di riforme economico-sociali.
Negli anni '80 a seguito di una vasta controrivoluzione imperialista avviata dagli Stati Uniti, la catena si è andata compattando intorno al riarmo in atto nel polo dominante che per primo e più degli altri paesi, investito dalla crisi a causa dei più alti livelli di concentrazione e centralizzazione capitalistica che ne caratterizzano l'economia, necessitava di una politica economica che facesse da volano che potesse produrre un salto nel modello produttivo e della sua capacità di estrazione di plusvalore relativo, che riavviasse l'accumulazione capitalistica, e su un piano più militare operasse una pressione sul blocco contrapposto e mettesse in grado di forzare l'assetto degli equilibri internazionali attraverso il rinnovato attivismo politico-militare, la cui posta in gioco finale per la catena imperialista a dominanza Usa era ridisegnare la divisione internazionale del lavoro capitalistica a proprio vantaggio.
Gli Usa finanziarono il riarmo con una politica di alti tassi di interesse e dollaro forte, con la quale attrassero capitali da tutto il mondo e incrementarono oltremodo il loro livello di indebitamento. Indebitamento che oggi, che è stata abbandonata la politica di attivo di bilancio per una spesa volta a creare una domanda aggiuntiva per l'economia in recessione e per alimentare il riarmo con cui sostenere Enduring Freedom e riattrezzare l'apparato militare alle nuove necessità determinate dallo stadio raggiunto dalla guerra imperialista, mostra le sue implicazioni, coniugandosi con la crisi delle banche giapponesi e con la possibilità che queste per ripianare i bilanci realizzino fondi vendendo obbligazioni pubbliche Usa generando una pressione ribassista sul dollaro o una necessità di rialzare i tassi di interesse, gravando così sugli squilibri dell'economia internazionale e sulle prospettive della recessione mondiale.
Il crollo politico del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica e il generale arretramento dei processi rivoluzionari e delle lotte di liberazione hanno portato al mutamento degli equilibri internazionali a favore della catena imperialista e hanno rafforzato la dominanza in essa del polo statunitense; ciò avviene però senza una guerra generalizzata e prolungata come la prima e la seconda guerra mondiale, che distruggendo masse ingenti di capitale e di forze produttive sovrapprodotte rispetto ai livelli di crisi raggiunti dal capitale stesso, facesse ripartire un ciclo espansivo a partire dal grado di concentrazione e centralizzazione capitalistica presente ma da un livello di accumulazione complessiva adeguatamente ridotto. Si è invece sviluppato un processo di penetrazione capitalistica e di integrazione economica relativa degli ambiti con economie socialiste pianificate, sostenuto dagli Stati dominanti della catena imperialista, nel quale è stato instaurato un rapporto di dipendenza di tipo peculiare, essendo queste economie industrializzate, non assimilabili a quelle del sud del mondo ma nemmeno a quelle capitalisticamente avanzate, e che ha portato alla loro destrutturazione e spoliazione economica e al crollo verticale delle condizioni di vita della popolazione ampiamente al di sotto dei livelli di sussistenza storicamente determinatisi, condizione che ha spinto migliaia di persone all'emigrazione in occidente, ed entro cui ha trovato spazio persino l'intervento politico europeo-occidentale volto a definire le linee di riforma del mercato del lavoro in quei paesi, più confacenti a realizzare livelli di sfruttamento profittevoli.
In generale questo esito ha indotto l'ulteriore e crescente drenaggio di risorse dai paesi dipendenti mentre il rafforzamento ottenuto negli equilibri internazionali dalla catena imperialista e dal suo polo dominante, hanno aperto la strada a una maggiore proiezione ed intervento bellico degli Usa e dei suoi alleati con cui l'imperialismo ha potuto sostenere i propri interessi militarmente o con la propria capacità di ricatto economico-politico e militare.
L'ulteriore concentrazione e centralizzazione capitalistica, l'incremento dello sfruttamento del lavoro salariato, le risposte di politica economica ristrutturatrici e riformatrici o anticicliche date alla crisi, e le posizioni di vantaggio negli equilibri internazionali della catena, non hanno affatto annullato la crisi e le sue cause, ma anzi proprio i livelli più elevati di accumulazione e l'ulteriore internazionalizzazione del capitale le ha potenziate, in quanto queste sono intrinseche al meccanismo di esistenza del capitale, al meccanismo dell'accumulazione, alla sua propria natura, non sono cause esterne.
Questo dato strutturale è ciò che con il finire degli anni '90 fa arretrare l'economia in un nuovo ciclo recessivo nel quale sono messe a nudo le contraddizioni in cui si muove il capitale monopolistico e la borghesia imperialista. Tutte le principali aree capitalistiche sono in crisi contemporaneamente manifestando fenomeni diversi e che possono alimentarsi a vicenda: gli Usa che hanno fatto da locomotiva mondiale per dieci anni sono esposti agli alti livelli di indebitamento e di capacità produttiva inutilizzata, il Giappone che è la seconda economia al mondo è in recessione da anni (solo nel 2001 ha avuto un calo del pil del 4,5%), subisce una deflazione galoppante e dovrà arginare il crack delle sue banche, in Germania la recessione va a premere sulla produzione industriale provocandone cadute verticali e sminuendone il peso nella coesione europea proprio mentre l'imminente allargamento ad est avrebbe dovuto vedere una sua solida funzione di perno, un paese come l'Argentina che ha osservato alla lettera i dettami impostigli dal Fmi, si è avvitato in una crisi economico-finanziaria senza vie di uscita prevedibili. Persino un paese come l'Arabia Saudita che ha avuto una funzione centrale nel sostenere le spese di guerra degli Usa, le vendite delle sue industrie militari e le necessità strategiche dell'imperialismo, ha subito il crollo verticale del reddito pro-capite ed è scosso da crisi politica, a causa della presenza delle truppe Usa e delle trasformazioni sociali imposte dalle riforme economiche indirizzate alla privatizzazione dei settori produttivi e all'internazionalizzazione del capitale. A ciò si aggiungono i livelli di miseria diffusi nel sud del mondo e quelli che attanagliano l'ex-campo socialista, e che si approfondiranno in Cina con il suo ingresso nel Wto, che accompagnano il loro "sviluppo" capitalistico.
Un quadro che riconferma l'attualità e approfondimento delle cause che generano la necessità storica del superamento del modo di produzione capitalistico e del dominio della borghesia imperialista e che indica come il completo abbandono della transizione socialista nei paesi che per primi hanno realizzato la rottura rivoluzionaria, per l'apertura e l'instaurazione di un sistema capitalista, non è che una battuta di arresto nel processo storico della rivoluzione comunista, rispetto a cui il proletariato, avendone fatto esperienza, può riadeguare i termini della conduzione del processo rivoluzionario, quanto che l'imperialismo manifesta sempre più diffusamente punti di vulnerabilità storicamente determinati e determinabili intorno ai quali si può elaborare la strategia rivoluzionaria e condurre lo scontro rivoluzionario.
Il fatto che i sovrapprofitti del capitale risultanti dall'approfondimento dello sviluppo ineguale non si siano realizzati lasciando invariate le condizioni del lavoro salariato del proletariato metropolitano negli Stati imperialisti, anzi parallelamente siano stati approfonditi tutti i termini dello sfruttamento relativi e assoluti, dimostra empiricamente sia che il proletariato metropolitano occidentale non è aggregato alla borghesia imperialista nell'avvantaggiarsi di questi sovraprofitti, sia che l'incremento dello sfruttamento con cui il proletariato è chiamato a sostenere la competitività del capitale, non solo non è una soluzione alla crisi del capitale né definitiva né temporanea, non potendo che consentire la tenuta relativa e transitoria del singolo capitale sul mercato, ma converge ad approfondirne le cause che risiedono nel meccanismo di accumulazione del capitale, che proprio perché il capitale aumenta mentre proporzionalmente il lavoro vivo sfruttato diminuisce, periodicamente e in misura sempre maggiore non riesce più a valorizzarsi e a garantire la tenuta delle forze produttive.
Sul piano degli equilibri internazionali la catena imperialista formata a partire dal secondo dopoguerra intorno al polo dominante statunitense su livelli di internazionalizzazione del capitale e di integrazione ed interdipendenza delle economie crescenti, ha maturato progressivi passaggi di avanzamento della tendenza alla guerra lungo la direttrice est/ovest che non assumono per tutta una fase carattere di guerra generalizzata ma di conflitti limitati e altamente distruttivi per i paesi aggrediti dall'imperialismo, nel quadro di schieramenti variabili intorno all'Alleanza occidentale e di disposizioni articolate nei compiti bellici relative al complesso di condizioni politiche militari ed economiche di ogni Stato. Gli anni '90 già sono stati caratterizzati dal ripetersi di guerre di aggressione espressione dell'azione della catena imperialista rivolta a ridisegnare gli equilibri internazionali e a riorganizzare la divisione del lavoro. In questo processo gli Stati imperialisti sono impegnati ad attivizzarsi per sostenere il proprio capitale monopolistico, e dato il carattere integrato e interdipendente della catena anche a concordare politiche comuni. Questo processo di ridefinizione ed espansione delle aree di influenza non è però risolutivo delle cause della crisi capitalistica, come è empiricamente dimostrato dalle condizioni stagnanti dell'economia mondiale e dall'incapacità sempre maggiore del capitalismo di assorbire le forze produttive crescenti. Un nuovo ciclo espansivo richiederebbe un'ampia distruzione di capitali e mezzi di lavoro realizzabile con una guerra imperialista di grandi proporzioni per la quale finora non ci sono state le condizioni politiche né militari, perciò nella fase attuale l'imperialismo è in grado di sostenere livelli di crescita dell'economia essenzialmente nel polo dominante e sviluppa politiche e iniziative rivolte ad attrezzare gli Stati della catena per far avanzare ulteriori fratture degli equilibri internazionali a proprio favore, con una strategia articolata che contrasta l'opposizione dei popoli che cercano di sottrarsi al giogo imperialista e con manovre destabilizzatrici tende a sottomettere quei paesi che presentano modelli economici e sociali non integrabili in quanto tali nella divisione del lavoro capitalistica, oppure la cui posizione politica fosse disfunzionale alla strategia imperialista.
E' in questo quadro che sono comprensibili tanto la natura del processo di coesione politica europea, che ha come motore lo sviluppo dei capitali monopolistici, quanto le politiche di allargamento a est della Nato e della Ue ed il processo di riadeguamento degli strumenti militari e controrivoluzionari in atto in tutti gli Stati imperialisti pilotati dalla iniziativa di riarmo e di aggressione statunitense, e se ne possono individuare le linee di sviluppo e i passaggi di qualità.
Sono infatti i fattori strutturali storici di integrazione della catena imperialista che spingono a salti di qualità in direzione dell'approfondimento della coesione politica europea e al riarmo e riadeguamento militare e controrivoluzionario dei paesi dell'Europa occidentale. La direzione di questi passaggi di qualità, stanti le diseguaglianze di sviluppo interno e le contraddizioni della gerarchia della catena imperialista, e a fronte dell'integrazione dei paesi dell'Est europeo nella Nato e nella Ue, va a fare dell'approfondimento della coesione politica, un processo che si sviluppa prevalentemente sul piano della riforma delle sue istituzioni e su quelli della costruzione di comuni indirizzi di politica economica spinti dall'integrazione monetaria, della definizione di politiche e di strumenti controrivoluzionari e repressivi, mentre il riarmo e il riadeguamento militare complessivi si misurano con i concreti sviluppi della guerra imperialista e dell'iniziativa assunta dal polo dominante statunitense.
Il piano delle politiche controrivoluzionarie e repressive è stato tra i primi ad essere sviluppato per contrastare la guerriglia rivoluzionaria operante in Europa occidentale, poi proceduto con gli accordi di Schenghen e sullo spazio giuridico europeo, con la creazione di forze di polizia integrate etc.. Con il recente mandato di cattura europeo e le liste di organizzazioni rivoluzionarie e in generale antimperialiste, integrate con la definizione di criteri di discriminazione delle attività possano essere identificate come minaccia terroristica, e che includono forme di opposizione tra le più varie, si è aperta la strada ad un'amplissima discrezionalità funzionale anche al necessario calibramento della repressione alle diverse condizioni politiche e giuridiche degli Stati europei, si è infine esteso all'intero ambito europeo quanto già consolidato in paesi come l'Italia in materia dei cosiddetti reati associativi con cui lo Stato identifica dei nemici politici e li combatte in quanto tali e non si limita a perseguirne le specifiche attività a cui i codici penali attribuiscono valenza di reato.
Un filo nero lega le disposizioni del codice Rocco, che perseguivano un reato di sovversione che la qualificava con i contenuti politici della rivoluzione proletaria, segno della maturità politica che aveva raggiunto il proletariato che faceva sì che il codice penale potesse mettere per iscritto in che cosa consisteva la sovversione politica, e che poi sono state mantenute in vigore dal ministro della giustizia Togliatti nell'immediato dopoguerra, fino al recente allungamento dei termini di carcerazione preventiva per il reato di associazione sovversiva realizzato dal governo Amato con l'appoggio politico di R. C., e alla estensione del principio di sovversione in ambito U.e. sotto la definizione di terrorismo, generalizzato a qualsiasi fenomeno antiistituzionale, esplicitando la sostanza politica della futura carta europea dei diritti fondamentali.
Un piano di nodi e politiche, quindi, più che mai centrale nel catalizzare l'interesse comune degli stati imperialisti europei, che può supportare il governo del conflitto di classe all'interno dell'Europa occidentale accompagnando le riforme strutturali, e arginare e comprimere lo sviluppo delle tensioni nei paesi dell'est derivanti dai riflessi della crisi e dall'integrazione nell'Ue, verso la contrapposizione al dominio occidentale. Tale piano oggi si coniuga anche con le istanze più generali della catena di elevamento dei livelli e di rafforzamento degli strumenti della controrivoluzione imperialista per riadeguarli al livello di minaccia potenziale dell'opposizione che l'imperialismo suscita contro il suo dominio.
L'attacco alle linee di costruzione della coesione europea, alle linee del suo approfondimento, nella loro funzione antiproletaria e controrivoluzionaria, qualifica un punto di programma su cui costruire forze rivoluzionarie nell'area europee e prospettare alleanze nel quadro di un fronte combattente antimperialista, in quanto l'approfondimento della coesione europea e l'attuazione delle sue politiche è parte integrante della strategia della borghesia imperialista per governare la polarizzazione degli interessi divaricati dai livelli di crisi che il capitale raggiunge e per compattare e mobilitare gli Stati imperialisti nella proiezione bellica, per ridefinire la divisione internazionale capitalistica del lavoro, e rinsaldare il dominio imperialista.
La dinamica della crisi che spinge l'imperialismo all'integrazione di nuovi ambiti economici per il loro sfruttamento, genera dunque una tendenza alla guerra che si muove e si muoverà sulla direttrice est/ovest perché è verso le aree dell'est Europa e dell'Asia centrale che l'imperialismo deve indirizzare il suo espansionismo aprendo conflitti con gli interessi antagonisti. Un movimento, che spinto dalla naturale dinamica del capitale, non si instrada dunque, come nelle prime guerre imperialiste verso lo scontro militare tra Stati imperialisti che sono oggi ambiti attraversati dalla internazionalizzazione del capitale che ha creato profonde condizioni di integrazione e interdipendenza delle economie e in cui si è formata una frazione dominante di borghesia imperialista, espressione di un capitale monopolistico multinazionale aggregato al capitale finanziario Usa e intorno a cui ruotano tutte le altre frazioni di borghesia imperialista.
Negli anni '90 la guerra all'Iraq, la destabilizzazione e poi la sottomissione e occupazione dei Balcani, e gli accordi di Oslo per realizzare la normalizzazione del Medioriente, dovevano costituire nella strategia Usa e occidentale altrettanti passaggi di avanzamento e di consolidamento delle posizioni della catena imperialista che ne avrebbero spostato in avanti gli obiettivi strategici, in quanto proprio l'area mediterranea-mediorientale, costituendo uno snodo degli equilibri strategici tra est e ovest diventava, mutati gli equilibri, da terreno di forzature tese a erodere le posizioni dell'avversario, terreno di conquista di posizioni più avanzate nel confronto a est, da parte della catena imperialista.
Le contraddizioni innescate da questi stessi passaggi sono i fattori che indicano la dimensione della contrapposizione che possono suscitare gli interessi e le spinte dell'imperialismo a cui vanno ascritte le cause dei conflitti collocati su questa direttrice, e in particolare: la resistenza dell'Iraq alla continua aggressione imperialista che ha obbligato gli Stati Uniti all'insediamento militare in Arabia Saudita, la resistenza afgana alle pressioni statunitensi da tempo esercitate per ottenerne la sottomissione e garantirsi il controllo strategico del paese, corridoio naturale dell'Asia centrale e infine la resistenza palestinese alla sottomissione all'entità sionista, reale contenuto dei patti di Oslo che nel medio periodo hanno alimentato la lotta di liberazione. Una lotta che gli Stati Uniti vorrebbero contenere oggi spingendo gli Stati arabi a un riconoscimento di "Israele" per legittimarne l'azione militare che, a maggior ragione a fronte del livello elevato raggiunto dallo scontro, fungerebbe da autorizzazione al genocidio costituendo una precondizione di governo dell'area per scatenare l'offensiva all'Iraq:.
In questo quadro l'attacco dell' "11 settembre" ha rappresentato un concreto elemento di contrasto della strategia imperialista, ne ha dimostrato la vulnerabilità, l'ha costretta a modificarne piani e passaggi, senza poter ovviamente farne venire meno gli interessi strategici su cui si muove. L'intera catena imperialista si è dovuta misurare con le implicazioni possibili del rapporto di sfruttamento e oppressione che ha istituito e approfondito, con quelle della sua costante azione di aggressione, che si attrezzava e si apprestava ad intensificare con i progetti di scudo antimissilistico rilanciati da Bush, con quelli di riarmo e di costruzione di una forza di rapido intervento europeo, con la propaganda avviata per giustificare l'aggressione all'Afghanistan. Ha dovuto perciò accelerare la propria mobilitazione, estendere il campo di intervento, e innalzare le misure controrivoluzionarie interne, sostenendone i costi economici e quelli militari della dispersione delle forze su più fronti, esponendosi alle contraddizioni di scelte operate per reazione e non nel momento e nel modo voluto e dovendosi limitare a costruire una coalizione a sostegno dell'aggressione all'Afghanistan, non interamente attivizzata nell'azione offensiva, a causa delle contraddizioni politiche interne e dei rischi sul campo.
L'elevata potenza distruttiva dell'attacco e la sua specifica selettività avendo inferto un colpo destabilizzante sistemico, ha imposto alla controrivoluzione imperialista un salto di qualità obbligandola ad adottare misure specifiche uniformi, e non più solo indirizzi e strutture comuni, che costituiscono forzature della mediazione politica rendendo più rigide e delimitate le risposte che possono essere date per normalizzare gli antagonismi di classe o anche gli equilibri internazionali per la pace imperialista, approfondendo la frattura con componenti sociali borghesi dell'area mediorientale che hanno costituito il naturale punto di appoggio delle strategie normalizzatrici dell'area e indebolendo la posizione delle classi politiche aggregate all'imperialismo. Fattori questi di concreta debolezza politica dell'imperialismo solo parzialmente compensata dalla sua propaganda politico-ideologica tesa a sfruttare le vittime civili provocate dalla potenza distruttiva dell'attacco per ottenere il sostegno delle popolazioni alla guerra imperialista e alle misure controrivoluzionarie. Una propaganda che non può mistificare l'evidenza che le guerre e le controrivoluzioni imperialiste, a differenza dell'attacco al Pentagono e alle torri gemelle del Wtc di New York, non provocano affatto vittime civili solo come "effetto collaterale" di un obiettivo di guerra che è quello di ottenere la destabilizzazione di un nemico per farlo recedere dai suoi intenti di aggressione e ritirare dai paesi in cui si è insediato militarmente. L'imperialismo provoca vittime civili perché aggredisce per sottomettere i popoli al suo dominio e poterli sfruttare, esse quindi sono un obiettivo di guerra parte integrante delle finalità della guerra imperialista, oppure obiettivo terroristico di una politica controrivoluzionaria volta a far recedere il proletariato dai suoi obiettivi politici autonomi, come ha ripetutamente dimostrato lo stragismo Nato in Italia con le bombe di piazza Fontana a Milano, a Piazza della Loggia a Brescia e alla stazione ferroviaria di Bologna...
L'attacco dell'11 settembre ha aperto una fase in cui la catena imperialista a partire dal suo polo dominante statunitense è stata costretta ad accelerare la sua proiezione bellicista, a sviluppare nuove aggressioni e a preparare innanzitutto un nuova campagna di guerra tesa a risolvere in via definitiva il nodo della sottomissione dell'Iraq. Oggi infatti lasciare vivere un popolo e un governo come quello iraqueno che combattuto da 10 anni non si è mai arreso, sarebbe una manifestazione d'impotenza degli Stati Uniti e perciò dell'intera catena, in un contesto strategico in cui è stato dimostrato che è possibile portare un attacco altamente distruttivo nel cuore del territorio del nemico anche con effetti destabilizzanti sistemici e senza impiegare le sue tecnologie avanzate. Una realtà nuova che priva gli Usa del potere deterrente costituito dall'inattaccabilità delle sue forze e del suo territorio nazionale, costringendoli a mantenere una costante disposizione offensiva sia per estirpare le forze guerrigliere che gli si contrappongono, che per fare di questa "offensiva permanente" il nuovo fattore di deterrenza centrale affiancato dall'arma nucleare, dallo scudo antimissilistico, dai bombardamenti d'alta quota e dal complesso di tecnologie avanzate di cui dispongono che ne connotavano la superiorità strategica e che sono stati depotenziati dall'attacco subito.
L'azione politico-militare della catena imperialista guidata dagli Usa e sviluppata a seguito della fine dell'equilibrio bipolare, messa in crisi nella valenza deterrente della sua superiorità strategi

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