Parte II

02. Ancora sulla strategia della tensione e il ruolo dell'On. Moro all'interno del partito

Memoriale Moro

Documento aggiornato al 12/02/2005
(Comm. Moro, 130-134; Comm. stragi, II 329-346)

Le osservazioni che seguono si attengono logicamente al famigerato periodo della strategia della tensione e contengono circostanze di qualche rilievo, ricostruite frugando a fatica nella memoria in questi giorni di ozio intellettuale. Non si tratta purtroppo, come ho detto, di una verità secca e precisa, anche per le ragioni che mi appresto a sviluppare brevemente e che dimostrano inconfutabilmente come in quel periodo, ben lungi dal godere la fiducia ed il rispetto di tutti, ero costantemente in polemica con il Partito. In realtà la mia immagine di Capo incontrastato della D.C. è stata costruita dalla stampa con la ben nota faciloneria (per non dire altro) ed ha solo un'apparenza di verità (si considerino i giorni della gestazione e costituzione del Governo quando il gruppo doroteo, abbandonate le vecchie e dure polemiche, si è schierato, o sembra si sia schierato, con me). Per il resto si tratta di una contesa senza fine che dura dalla mia (occasionale) elezione alla segreteria nel '59 per una durata limitata; una gestione che non fu mai tranquilla perché Segni, il vero capo della maggioranza (obiettivi: Quirinale e orientamento di destra democratica), provvide, nella sua logica politica, a riempirla di ostacoli, contro taluni dei quali mi sarei irrimediabilmente urtato, se a mia difesa (e debbo dargliene atto) non avesse provveduto il Ministro Cossiga, all'origine legato al mio gruppo e poi passato, alla fine, alla base. La verità è che la mia politica di ricucitura con i fanfaniani non era accettata così come erano contrastati gl'indirizzi politici (centro-sinistra) che si andavano intravedendo. Si volle perciò, dopo circa quattro anni (la durata era sempre un po' maggiore del preventivato), promuovermi alla Presidenza del Consiglio, liquidando Fanfani (errori di direzione politica) che aveva avuto un mediocre risultato elettorale nel 63 e, soprattutto, dando in mano tutto il potere nel partito ai dorotei nelle persone di Rumor e soprattutto Piccoli, preconizzato nuovo segretario. Così avvenne ed io fui sostanzialmente emarginato dal Partito (successiva assemblea organizzativa di Sorrento, qualche fischio verso di me), anche se conservavo un certo prestigio esterno per l'amicizia e l'umanità, dell'On. Nenni.
Anche nel Governo, dopo il Partito, cominciava un cammino tormentato, caratterizzato da rispetto formale, ma anche da critiche di cedimento ai socialisti e d'insufficienza dell'azione di governo. Si preparava la seconda defenestrazione, la quale fu decisa (io lo seppi mesi dopo) in una cena ai margini del Congresso Nazionale di Milano del '67 (cena presieduta da Scelba). E debbo dire che non mi rammaricava il cambiamento del Presidente del Consiglio, cosa del tutto naturale in qualsiasi sistema, ma che lo si facesse alle mie spalle, senza una seria motivazione e parecchio tempo prima delle elezioni, senza peraltro darne alcun annuncio. Era quest'ultima la cosa che più mi doleva, che io fossi cioè chiamato ad avallare con la mia presenza ancora di un certo prestigio un corso politico del quale già, in una conventicola di partito, si era deciso di togliermi il controllo dopo, ovviamente averlo ridefinito.
Quando cominciava la strategia della tensione Rumor (dopo Leone) era diventato Presidente del Consiglio e Piccoli Segretario, quest'ultimo in modo molto contrastato, con e per la mia decisa opposizione, a memoria 85 voti e cioè meno della maggioranza assoluta. Invano si era presentato a me, per patrocinare accordi, l'ex Generale Aloja. Io fui intransigente e mi trovai in urto sia con il Presidente del Consiglio sia con il Segretario del Partito. Tanto che per circa un anno rifiutai per ragioni di contrasti politici interni il Ministero degli Esteri, che poi finii per accettare (e vi lavorai con impegno e grande passione), perché mi resi conto, a parte il valore umano dell'incarico, che esso era l'unico modo decente perché non si determinassero sgradevoli incontri in Consiglio dei Ministri, nelle riunioni della Direzione del Partito tra me ed i nuovi dirigenti.
In questa condizione (documentata dalla stampa; v. le durissime critiche della Voce Repubblicana ed infinite altre punture, come se io cercassi all'estero nientemeno l'elezione a Presidente della Rep.) non si vede, nella condizione di sospetto in cui ero, di quali confidenze qualificate avrei potuto essere gratificato. Parlai, come ho detto, con Picella che rifletteva le informazioni, da me ritenute poco plausibili, di Vicari. Nelle mie saltuarie presenze in Italia non mancai di pungolare l'On. Rumor prima Presidente e poi Ministro degli Interni, mentre Restivo appariva un gentiluomo siciliano che sarebbe dovuto nascere almeno un secolo prima.
Il crollo di Piccoli, dopo breve e inconcludente Segreteria, non migliorò le cose granché.
Nel frattempo al Congresso avevo portato al gruppo dirigente, per comune riconoscimento, il più duro attacco che si sia mai espresso in un Congresso, attacco che raggelò l'Assemblea, dette luogo ad insulti e zuffe e si placò solo quando io passai dalla polemica durissima alla trattazione dei temi di carattere generale. Dopo il Congresso ci fu un piccolo compromesso con Zaccagnini Presidente del Consiglio Nazionale, compromesso contrastato soprattutto dall'On. Gorreri di Forze Nuove, uomo impulsivo, ma estremamente generoso e probo.
Poco tempo dopo comunque, la crisi di segreteria, per la rottura in quattro dei dorotei, si riapre e si profila la candidatura dell'On. Forlani. Io ero ancora in clinica per una discreta operazione e detti il mio sì senza molto impegnarmi. Forlani è certo uomo di notevoli risorse, ma si tratta di sapere che politica, con assoluta ostinazione, si apprestava a fare. Vedo a quel punto che si profila in modo ossessivo il problema del divorzio che rischia di condizionare la stabilità dei governi. Rumor presumibilmente, per indicazione della D.C., si dimette (io ero in Etiopia) non per lo sciopero generale, come fu detto, ma per la mancanza di una soluzione sul tema del divorzio. Ci provano altri, ci provo anch'io, che Saragat e Forlani ritenevano, per antichi rapporti con personalità vaticane, capace di dare una soluzione accetta al mondo cattolico. Si scoprì presto che io non avevo, come disse pittorescamente Saragat, "la moneta". Fallì anche Fanfani e si tornò infine a Rumor, per adottare quella soluzione o non soluzione, per evitare la quale si era aperta la crisi. Una forte ondata di destra (strategia della tensione) scuote il Paese e Forlani, per contrastarla pensa di batterla sul tempo, cogliendo i fascisti minacciosi, ma ancora impreparati e rinviando di un anno il referendum sul divorzio.
Su questi due punti non c'era divergenza tra Forlani e me, ma ve n'era invece su altri due, uno dei quali di massimo rilievo, i quali facevano di me un contraddittore e un oppositore di Forlani, come lo ero stato di Piccoli, una costante che tocca tutti gli anni settanta, salvo il breve momento del Governo bicolore con La Malfa, che la D.C. tollerò, pur senza manifestare certo entusiasmo. Il primo punto di contrasto con Forlani era di politica interna di partito e riguardava la determinazione, mediante l'applicazione di un quorum di tipo tedesco, di mettere i piccoli raggruppamenti nella condizione di fondersi o estinguersi. Il secondo punto, anche all'esterno di maggior rilevanza, riguardava i rapporti con i liberali, che Forlani intendeva inserire in un pentapartito che i socialisti però non avrebbero mai accettato. Era la nuova tesi della centralità della D.C. che ripudiava (o tentava di ripudiare) il punto fermo acquisito con l'inserimento del Partito Socialista nell'area di governo come elemento essenziale dell'equilibrio politico italiano. A questa tesi io mi opposi con tutte le mie forze, fino a lasciare il governo come unico modo che mi consentisse di combattere quell'errata linea politica senza il limite costituito dall'appartenenza alla formazione che avrei dovuto contestare. Sono convinto che la linea, da me proposta, era giusta, che non si trattava di un esperimento per richiamare all'ordine i socialisti riluttanti, ma di un'autentica deviazione della linea di raccordo con le forze popolari, in vari modi e tempi, che la D.C. aveva da qualche anno iniziato. Essendo il dissenso così grave, e da me marcato in alcuni durissimi discorsi, il “no” ad entrare nel governo mi valse la reazione di Forlani (specie quando più tardi formalizzai la linea di opposizione) e quella, apparentemente indifferente, ma in realtà stizzita di Andreotti. Quest'ultimo, parlando tempo dopo, a proposito di una mia eventuale partecipazione al governo della non sfiducia, rispose che non ci aveva pensato e che del resto l'amicizia è fatta di scambio e non si può sempre dare senza ricevere.
Questo è il quadro reale del mio predominio nel partito in quegli anni, dal quale avrei dovuto desumere elementi di verità su fatti così contestati e tribolati, sui quali finalmente con impegno stanno facendo luce sia il giudice di Catanzaro sia quello di Milano. Aggiungerò infine, perché è riscontrabile con la normale documentazione della stampa quotidiana dell'epoca, che del mio stato d'animo di contrarietà all'insieme delle cose, della mia accusa di inconcludenza sia del partito (ne fece un cenno Forlani, nella strategia della tensione, come ho detto altrove) sia dei vari governi mi accadde di far parola in una ristrettissima riunione di amici, nella quale, ritenendomi garantito dalla riservatezza dell'assemblea, dissi, come sentivo, cose dure sulla situazione, spingendomi a parlare, a proposito delle grandi chiacchiere inconcludenti di tutti i giorni, di "una quotidiana immolazione al nulla". Lo zelo ingenuo, ma non inamichevole, della Sig.na Anselmi, ora ministro della Sanità, portò all'esterno alcune delle cose che avevo detto con conseguente rampogna della Segreteria Forlani e richiesta di smentita, che fu fatta con riferimento alle intenzioni ed al rispetto dovuto al partito, ma non nei termini desiderati. Questo episodio mi valse ancora una volta (come già nel 69) la qualifica di anti-partito, una posizione negativa registrata ed amplificata tra i gruppi parlamentari che giocò il suo ruolo, com'è naturale, decisivo ai fini della mia qualificazione personale per la carica di Presidente della Repubblica. Tanto poco dominavo il partito che in questo caso fui battuto da altro eminente parlamentare.
Così stando le cose, non avendo a mia disposizione una fonte confidenziale veramente potente, tutto si è giocato e si gioca sul sentito dire, sul ragionamento, sulla illazione. In questo quadro vorrei segnalare, per quel che possa valere, una cosa che mi è tornata alla memoria, scrutando, come faccio, con spasimo in considerazione di quello che si attende da me, queste cose. In epoca imprecisata, ovviamente successiva all'attentato di Brescia, incontrai all'uscita della Camera l'amico On. Franco Salvi, bresciano, colpito nell'attentato per la morte della cugina Trebeschi, moglie del Presidente dell'amministrazione provinciale e parente di parecchi feriti, tutti di antica estrazione cattolica e poi passati all'estrema sinistra. Salvi è persona dalla coscienza limpida e mi auguro non sia, come altri, uno smemorato. Egli mi disse che in ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d'indulgenze e connivenze della D.C. e che si faceva il nome dell'On. Fanfani. Io gli risposi che, per parte mia, l'accusa, nata nell'effervescenza dell'emozione e vociferazione, era priva di ogni consistenza. Salvi non poté aggiungere nulla al sospetto che gli era stato manifestato. E non me ne parlò più né mi risulta che la cosa sia stata ripresa da altri e riecheggiata al di là di quel momento. Nei nostri gruppi più fervidamente antifascisti, quello dell'On. Salvi, c'era l'ansia di bloccare con un'adeguata azione preventiva e repressiva la strage.
Ho già detto altrove dell'On. Andreotti, il quale ereditò dal Sios (Servizio informazioni Esercito) il Gen. Miceli e lo ebbe alle sue dipendenze dopo Rumor e prima di ricondurlo a Rumor al finire del governo con i liberali. Ho già detto che vi era tra i due profonda diffidenza.
Il Presidente del Consiglio Andreotti che aveva mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68, aveva modo, per cosi dire, di controllare il suo controllore e poté così severamente addebitargli un giudizio negativo sulla sicurezza che egli aveva espresso agli americani sul suo Presidente del Consiglio, ma che al Presidente Andreotti era stato riferito dai suoi amici americani così come il loro collega italiano li aveva formulati. E' noto poi l'episodio della falsa attestazione su Giannettini, data su assicurazione del Sid o di un suo organo interno.
Reduce dall'esperienza del governo con i liberali, che era stata faticosamente superata con il Congresso di Roma, una lista unitaria, la Segreteria Fanfani, l'On. Andreotti confermò la tesi che è sempre meglio essere presenti. Mentre Forlani manifestava un certo scetticismo, congeniale al suo temperamento, mentre Taviani, vistosi precluso il Ministero degli Interni, cui aspirava, si ritirò del tutto, Andreotti finì per accettare senza entusiasmo il Ministero della Difesa che gli veniva offerto. Torna ad essere Presidente del Consiglio Rumor. E qui esplode d'improvviso e all'insaputa del Presidente del Consiglio il caso Giannettini, la cui qualifica d'informatore del Sid Andreotti rivela nel modo improprio di un'intervista ad un giornale, anziché nelle forme ufficiali o parlamentari che sono proprie di siffatte indicazioni. Qual'era la ragione, e qui siamo nel campo delle illazioni, per la quale di Giannettini si fece un'operazione politica, con uscita in campo del ministro, sembra ovvio, in stretto contatto con l'On. Mancini? Si voleva rilanciare subito il Presidente dopo l'operazione con i liberali, come del resto attendibile? Si voleva dimostrare che si può essere del tutto netti con i fascisti? Oppure, parlando così di Giannettini, ci si riferiva a cosa che era avvenuta prima (e che magari era intrecciata con il comportamento del Gen. Maletti) e di cui quell'atto doveva rappresentare una sorta di conclusione? In assoluta cose enza io non so niente più di questo e cioè lo strano esplodere di questo nome sulla stampa, in concomitanza con il caso Maletti.
Per quanto riguarda Rumor, destinatario egli stesso di un attentato nel quadro della strategia della tensione, gli accertamenti specifici sono in corso presso la Procura di Milano. L'ex Primo Ministro disse di non ricordare l'intervento del Ministro Zagari, ma di non voler contestare la parola di un collega il quale affermava di avergli portato in visione, in apposita udienza, il documento del Magistrato, il quale chiedeva di conoscere la qualifica del Giannettini nel controspionaggio. Dalle prime deposizioni si rileva l'attendibilità che il documento sia stato portato a Palazzo Chigi, senza essere ivi rilasciato o fatto oggetto di apposita nota di ufficio. L'affermazione dell'On. Rumor, di non voler contestare la parola del collega, potrebbe lasciare intendere che della cosa si parlò almeno sommariamente, che il documento fu letto o riassunto con il proposito di riesaminare la cosa con il Ministro della Difesa, il che non fu fatto per omissione o in mancanza di ulteriore formale richiesta o insistenza del Ministro della Giustizia.
Dall'insieme di questo discorso si può desumere che, specie nell'epoca alla quale ci si riferisce, non ero depositario di segreti di rilievo né ero il capo incontrastato della D.C. Si può dire solo che in essa sono stato presente ed ho fatto il mio gioco, vincendo o perdendo, anzi più perdendo che vincendo, per evitare una involuzione moderata della D.C. e mantenere aperto il suo raccordo con le grandi masse popolari. La sincerità dei miei intendimenti e delle mie intuizioni politiche, in ogni sede sinceramente confermate, pur con l'inevitabile rischio di errore che c'è in ogni scelta, potrebbero indurre ad un giudizio generoso nei miei confronti.
 
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