Processo Moro I grado

05. L'episodio Di Bella

Documento aggiornato al 04/04/2005
Mentre si battevano tutte le piste, al fine di scoprire gli autori dell'attacco efferato contro le stesse istituzioni, non si trascurava di esaminare con estrema cura eventi oggettivamente equivoci, ricollegabili ai fatti di causa.
Così la DIGOS denunciava il 27 luglio (52) che di "un poco chiaro episodio" era stato protagonista, verso le ore 12,30 del 23 novembre 1977, il direttore del "Corriere della Sera" Franco Di Bella.
Da una relazione redatta dalle guardie di P.S. Cipollone Marcello e Nieddu Giovanni - in servizio di scorta del giornalista - e dalle delucidazioni che il dott. Domenico Spinella - dirigente della DIGOS - aveva assunto dall'interessato nel pomeriggio si era appreso che il Di Bella, che aveva un appuntamento prefissato con l'on. Aldo Moro, era arrivato in Via Savoia a bordo della propria vettura, guidata da un autista e seguita da altro veicolo su cui erano due agenti.
Costoro avevano notato un giovane che in sella ad una "Kawasaki" percorreva lentamente la strada e "invitava un'altra persona a raggiungerlo". In mano aveva un borsello di media grandezza.
Il Cipollone ed il Nieddu, sull'istante, non avevano dato peso a tale condotta, sennonché, non appena arrestata l'auto, avevano udito che uno degli uomini di vigilanza al portone dello studio del parlamentare aveva invitato il motociclista a fermarsi.
Avendo, invece, questi accelerato, "allontanandosi velocemente in direzione di Via Salaria", erano risaliti in macchina ed avevano tentato di rincorrere e bloccare il fuggitivo, senza riuscirvi "anche perché aveva imboccato Via Brescia in senso vietato".
In ogni caso avevano rilevato i primi numeri di targa della moto - Roma 35.. - e da alcuni meccanici avevano saputo che lo sconosciuto era comparso in zona da diversi giorni.
Franco Di Bella aveva accennato al dott. Spinella che il proprio autista aveva visto "luccicare qualcosa" in pugno al motociclista, tanto da avere sospettato che si trattasse di un'arma.
In merito erano stati operati dei controlli e si era potuto costatare che solo la targa Roma 350510 era stata in effetti attribuita ad una "Kawasaki" di proprietà di Liberati Umberto, il quale, interpellato "in maniera informale", aveva però negato di esser transitato nell'occasione in Via Savoia.
E, in base alle successive spiegazioni della segreteria dello statista, si era giunti alla conclusione che "l'episodio non avesse origine politica".
Orbene, il G .I. convocava tutti coloro che avevano assistito alla scena e cercava di mettere in luce qualche particolare che autorizzasse eventuali ipotesi di connessioni con la strage di Via Fani e l'omicidio dell'on. Aldo Moro.
L'inconsistenza delle prove induceva, tuttavia, ad abbandonare ben presto la pista.
Così, il 26 settembre sempre la DIGOS riferiva (53) che il precedente 8 maggio l'on. Cazora Benito aveva comunicato al Questore di Roma "di avere indicazioni da fornire - in relazione al sequestro dell'on. Moro".
Il mattino seguente il dott. Nicola Simone ed il dott. Gennaro Monaco si erano incontrati con il deputato della D.C., il quale aveva narrato di contatti avuti con individui appartenenti alla malavita che gli avevano segnalato "luoghi dove verosimilmente potevano essere nascosti" ostaggi.
"Tali luoghi erano stati ispezionati, senza esito, il 10 e l'11 maggio".
Interrogato dal giudice, l'on. Cazora sosteneva (54) che alcuni giorni dopo l'eccidio aveva ricevuto una telefonata "da parte di ignoto" che gli aveva "espresso il desiderio" di vederlo, in quanto era in grado di "dare notizie utili alle indagini".
Egli aveva accettato l'invito e, secondo gli accordi, si era recato in Via Dell'Olmo accompagnato dal dott. Normanno Messina.
Qui era stato avvicinato da un uomo di circa 45 anni, il quale si era dichiarato disposto, per motivi "umanitari", a presentargli subito "un calabrese", contravventore all'obbligo del confino e "persona d'onore", che "aveva la possibilità di collaborare concretamente per salvare la vita di Moro".
Avendo il Cazora manifestato "disponibilità", l'interlocutore si era allontanato.
Trascorsi 20 minuti, era arrivato in macchina "il calabrese", che si chiamava in realtà "Rocco", il quale aveva promesso un suo intervento presso esponenti della criminalità comune milanese per raccogliere informazioni "ove era segregato l'on. Moro".
In cambio aveva "chiesto un aiuto tendente a regolarizzare la sua posizione con la giustizia, perché riteneva di essere ingiustamente perseguitato dalla legge".
Fissato un secondo appuntamento, l'on. Cazora aveva precisato a "Rocco" che "non c'era alcuna possibilità giuridica di consentirgli di circolare liberamente sul territorio nazionale" e quello, comunque, non si era tirato indietro, indirizzandolo ad "un detenuto che si trovava a Rebibbia proveniente dalle Carceri di Nuoro ove era stato insieme a Notarnicola".
L'on. Cazora aveva avuto un colloquio nella Casa di pena romana con detto soggetto, ma nel frangente aveva recepito esclusivamente generici suggerimenti che lo avevano, anzi, indotto ad interrompere la trattativa.
Però, domenica 7 maggio, essendo stato sollecitato da "Rocco" ad un nuovo urgente approccio, si era portato in Via della Camilluccia ed aveva trovato, contrariamente ai patti, "uno sconosciuto" che, richiamando il volantino delle Brigate Rosse che annunciava l'esecuzione della condanna a morte di Moro, si era "rammaricato" per "non avere potuto fare niente assieme ai suoi amici per salvare" lo statista e gli aveva confidato quelle "indicazioni" che poi erano state consegnate ai funzionari della Questura.
Questa "strana vicenda", malgrado gli sforzi degli inquirenti, non era suscettibile di sviluppi nel corso della istruzione.
 
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