Processo Moro I grado

09. Il coinvolgimento di Pace e Piperno

Documento aggiornato al 04/04/2005
Ma l'episodio era destinato ad assumere maggior rilievo dopo la pubblicazione su "Metropoli", nel giugno del 1979, di un fumetto, disegnato da Madaudo Giuseppe, sull'agguato di Via Fani e sulla cattura di Aldo Moro, che rivelava una serie di elementi all'epoca del tutto ignoti.
Poiché in un personaggio del racconto non era difficile ravvisare l'on. Claudio Signorile, il G.I. decideva di escutere il parlamentare socialista per avere ragguagli sulla attendibilità della chiamata in causa.
Sentito il 26 giugno, il Signorile precisava (74), senza indugi, che in effetti, "durante l'ultima fase del sequestro dell'on. Moro, il P.S.I. aveva sviluppato una linea politica tendente ad ottenere la salvezza del sequestrato attraverso un atto autonomo dello Stato, che consentisse uno scambio con la persona dell'on. Moro".
E, nello sforzo "di capire se una linea del genere" poteva essere considerata come suscettibile "di favorevole evoluzione", si era cercato, nel contesto "di altri tentativi", un interlocutore "per una eventuale reazione positiva da parte delle Brigate Rosse".
D'accordo con il direttore dell'Espresso Livio Zanetti, che tuttavia aveva manifestato "la sua contrarietà ad ogni trattativa", si era convenuto "che sarebbe stato utile un incontro con Mario Scialoja e Franco Piperno".
"L'incontro" era avvenuto "in un giorno di aprile intorno alla metà del mese" in casa dello Zanetti e vi avevano partecipato i soggetti indicati.
Il tema della conversazione aveva toccato "questi punti sostanziali: la valutazione fatta dal Piperno della insufficienza del solo atto di clemenza da parte dello Stato per sbloccare il problema Moro, e ciò in coerenza con le posizioni assunte dalle P.R.; la necessità di un intervento che consentisse un riconoscimento di fatto delle BR come interlocutore politico".
Il Piperno aveva sostenuto "che la richiesta della liberazione di ben tredici detenuti non aveva - a suo giudizio - un valore assoluto, prevalendo il significato politico che poteva rilevarsi da un atto che implicasse quel riconoscimento di fatto, al quale le BR ambivano".
Comunque il docente calabrese, che aveva tenuto "sempre ad escludere ogni suo contatto" con esponenti "della organizzazione", "limitandosi a dire che poteva capirli, nel senso che poteva intendere come funzionava il sistema mentale o meglio il codice di valore dei brigatisti", aveva posto in evidenza che l'iniziativa "del PSI non era di per sé sufficiente a sbloccare la situazione, ma che occorreva un altro tipo di intervento, che avesse caratteristiche, ufficiali o ufficiose, di maggiore rappresentatività".
Nell'occasione si era accennato anche "alle possibilità che allora si agitavano e cioè gli interventi dell'Amnesty International, della Croce Rossa, del Vaticano e della stessa Democrazia Cristiana, ma in termini molto generici".
Insomma, come soggiungeva Livio Zanetti (75), Piperno aveva asserito che "le BR non avevano interesse ad uccidere Moro e che molto dipendeva da quello che poteva essere inventato, non tanto dal P.S.I., quanto dalla D.C. La D.C. doveva prendere e rendere pubblica qualche interessante iniziativa".
In una riunione successiva - alla presenza di Lanfranco Pace che, però, era rimasto "assolutamente silenzioso" - si era delineato "con maggiore precisione il ruolo che poteva essere assunto dalla D.C. o da un suo autorevole esponente. Cioè era necessario che l'intervento di un autorevole esponente della D.C. importasse almeno di fatto una trattativa con le BR e, quindi, un riconoscimento delle stesse".
"Nel periodo di tempo compreso tra il 24 aprile e il 5 maggio 1978", ovvero "sicuramente il 4 o il 5 maggio 1978" e in ogni caso "prima del comunicato BR n. 9", Franco Piperno, nel corso di un nuovo colloquio, da lui "sollecitato", aveva ribadito "la necessità di un urgente atto visibile da parte della D.C. per salvare la vita dell'on. Moro od almeno per ritardare i programmi eventuali delle B.R. per interrompere i termini".
L'on. Signorile. Dopo avere informato il segretario del suo partito, si era rivolto il 6 maggio al sen. Amintore Fanfani per "una presa di posizione anche se cauta, senza far riferimento, peraltro, ai discorsi con Piperno".
Il sen. Fanfani aveva telefonato al presidente del gruppo dei senatori democristiani Giuseppe Bartolomei, "chiedendogli - nell'ambito del comunicato della delegazione D.C. - di fare un accenno all'esigenza di non trascurare nulla per salvare la vita dell'on. Moro".
E il giorno seguente agenzie di stampa e giornali avevano "pubblicato una dichiarazione in tal senso del sen. Bartolomei".
Conforme in proposito era la deposizione del Presidente del Senato (76), il quale, dinanzi alla prospettazione "di uno scambio tra l'on. Moro ed un prigioniero comunista" e della utilità di una sua "pubblica dichiarazione che facesse conoscere come la D.C. riduceva le sue opposizioni ad una ipotesi di scambio", aveva replicato che "il problema riguardava le autorità competenti dello Stato" e che nella sua veste istituzionale non intendeva "pregiudicare la libertà di decisione sia del Governo che della D.C.".
La scelta di sensibilizzare il sen. Bartolomei ad una uscita che "potesse ottenere l'effetto di non far precipitare la situazione" era stata adottata nella piena consapevolezza dei margini entro cui l'ipotesi andava circoscritta.
Della vicenda egli aveva avvertito subito la Presidenza della Repubblica, "dato che l'on. Signorile aveva aggiunto che l'avv. Giuliano Vassalli sarebbe stato in condizione di indicare qualche persona che poteva eventualmente essere scambiata con l'on. Moro".
"Il lunedì successivo - 8 maggio 1978 - l'on. Craxi aveva chiesto "di vederlo": nel frangente il segretario del P.S.I. aveva espresso "la sua viva preoccupazione" ed aveva ripetuto "che, mentre auspicava un approfondimento del problema giuridico dello scambio, sarebbe stato quanto mai utile, per non dire indifferibile, qualche manifestazione pubblica di attenuato rigore da parte della D.C. intorno al noto problema".
Il sen. Fanfani aveva promesso che in sede di direzione della D.C. - già convocata - avrebbe senz'altro "preso la parola per invitare ad un approfondimento di una così grave questione".
Per suo conto, l'on. Bettino Craxi spiegava (77) che "in una prima fase, aderendo ad una sollecitazione della signora Eleonora Moro", aveva pregato l'avv. Giannino Guiso, difensore di alcuni brigatisti nel processo che si stava celebrando a Torino, "di prendere contatti con i suoi clienti" e di acquisire "elementi che potessero orientare ai fini di una soluzione positiva del caso".
Attraverso le notizie che si erano raccolte, i socialisti avevano "maturato la convinzione che senza una contropartita la sorte di Moro era segnata".
Vi erano stati "frequenti" incontri con l'avv. Guiso, dai quali si erano "ricavati suggerimenti e valutazioni ma nessun dato di fatto determinante".
"Dell'avvio di questi contatti" era stato "informato il Ministro degli Interni" on. Francesco Cossiga.
L'on. Craxi affermava, ancora, di avere autorizzato Claudio Signorile agli approcci con militanti "della c.d. Autonomia" ed, anzi, personalmente, il 6 maggio 1978 si era visto con Lanfranco Pace, che, appunto, si era qualificato come aderente "del movimento di Autonomia": costui era stato accompagnato all'Hotel Rafael, ove alloggiava Craxi, dal sen. Antonio Landolfi.
Durante la conversazione il Pace aveva sostenuto "che secondo la sua valutazione la situazione stava precipitando e che bisognava fare qualche cosa".

"Gli chiesi se poteva avere dei contatti con i brigatisti. Lui rispose che era una cosa molto difficile. Io per tagliare di netto dissi: giunti al punto in cui siamo, io posso pigliare in considerazione soltanto delle prove; una prova che Moro sia vivo e che lo scambio cui si faceva cenno nelle sue lettere - e che io interpretavo come uno scambio di uno contro uno - era una cosa realizzabile. Io mi comportai e lo trattai come in quel periodo trattai molta gente che veniva a formulare questioni. Conclusi dicendogli che se c'era qualcosa di concreto noi eravamo a disposizione. Gli dissi che il lunedì sarei rientrato a Roma da Milano e che se c'era qualcosa me lo avrebbe dovuto far sapere. Il Pace rispose che era molto difficile e che occorreva l'intervento di un esponente della D.C. Il lunedì attesi invano una prova o un contatto che non venne".

Da ultimo, in sede di confronto con il Pace, Bettino Craxi specificava che "a conclusione del discorso" aveva soggiunto che "per smuovere la D.C." avrebbe "dovuto avere in mano. una prova che Moro fosse ancora in vita e, per esempio, sarebbe stato utile ricevere uno scritto dell'on. Moro con la frase convenzionale "misura per misura" (78).
Immediate le precisazioni di Antonio Landolfi (79) che metterà meglio a fuoco il ruolo di Lanfranco Pace con cui, "per caso", il 6 maggio verso le 12, si era imbattuto nella zona tra Piazza Navona ed il Pantheon.
Avendo il Pace "manifestato l'opinione che, se il P.S.I. avesse insistito nella posizione di esperire qualsiasi tentativo per salvare la vita dell'on. Moro, si sarebbe aperto qualche spiraglio", il parlamentare lo aveva invitato a "continuare la conversazione con il segretario del partito".
E nel pomeriggio, per le 15-15,30, era stato fissato l'appuntamento già ricordato dall'on. Craxi: il Pace, nel rimarcare l'importanza della "funzione che, a suo giudizio, ed a giudizio dei suoi amici e degli appartenenti al suo gruppo politico, poteva assumere il P.S.I. perché si arrivasse ad una soluzione del problema Moro", aveva ribadito, di fronte alle perplessità si Bettino Craxi, "sul fatto che Moro fosse ancora
vivo", che "la situazione era bensì grave ma ancora suscettibile di una soluzione positiva, se i socialisti avessero potuto esprimere una iniziativa ancora più chiara ed esplicita".
Ebbene, in base a tutte queste emergenze, vagliate "in logica coordinazione tra loro", il G.I., ravvisando sufficienti indizi di colpevolezza a carico del Piperno e del Pace, del Morucci e della Faranda, spiccava il 29 agosto 1979 mandato di cattura in ordine a tutti i reati contestati agli altri imputati (80).
Interrogati dopo la loro estradizione dalla Francia, deliberata il 17 ottobre e il 7 novembre 1979 dalla Chambre d'accusation di Parigi, sia il Piperno sia il Pace cercavano di minimizzare gli avvenimenti, fornendo al riguardo una congerie di giustificazioni che contrastavano obiettivamente, ora in maniera palese, ora in modo sfumato, con la ricostruzione articolata da Giuliana Conforto e dai parlamentari del Partito Socialista Italiano.
 
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