Processo Moro I grado

02. Deposizione di Antonio Savasta

Documento aggiornato al 04/04/2005
E subito Antonio Savasta ed Emilia Libera, entrambi arrestati a Padova il 28 gennaio 1982 al momento della liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito il 16 dicembre 1981 a Verona da un nucleo delle Brigate Rosse, manifestavano l'intenzione di collaborare con la giustizia e di fornire tutte le indicazioni per chiarire retroscena della sanguinosa stagione del terrorismo.
Il primo esordiva spiegando le ragioni della sua scelta:
L'organizzazione Brigate Rosse non aveva la possibilità di incidere in alcuna maniera dentro la realtà sociale italiana. Lo scollamento con gli stessi movimenti di massa, con gli stessi settori di classe a cui faceva riferimento operaio, prigioniero, marginale - questo scollamento - noi lo andavamo a costatare giorno dopo giorno. L'impossibilità politica di incidenza non derivava, non deriva semplicemente da errori tattici, ma dalla stessa impostazione dell'analisi politica, dell'impostazione dell'analisi dello Stato, dell'impostazione dell'analisi dei movimenti... che ha portato a ritenere la lotta armata unica espressione politica d'avanguardia dei movimenti. Questo appiattimento ci ha fatto leggere come imminente la possibilità della guerra civile... se non in termini temporali ma in termini politici, una possibilità che trovasse poi un radicamento effettivo.
Questo radicamente non c'è stato, lo scollamento è stato costante e oggi l'organizzazione è ormai sterile, anche se potrà produrre altre azioni o potrà influire, in piccola o in gran parte, sull'indurimento, sull'aumento della stessa repressione dello Stato che si difende, il più delle volte in maniera cieca confondendo anche l'espressione di movimenti di classe per terrorismo. L'organizzazione oggi è esterna anche a un processo interno alla classe, non ha alcun valore storico in termini della sua continuità politica e non ha nessuna possibilità di rappresentare quella ricchezza che hanno invece i singoli che vi hanno militato in passato e che oggi forse ancora vi militano.
Antonio Savasta ripercorreva, quindi, le tappe della sua vita e ricordava il suo "breve" inserimento nelle file di "Potere Operaio" e, successivamente, dal 1975, nel "Comitato Comunista Centocelle ", costituitosi dopo lo scioglimento di "Potere Operaio", come collettivo di quartiere che aveva aggregato studenti proletari della zona ed operai con "una direzione politica che faceva riferimento all'autonomia".
E proprio all'interno di questo Comitato, a fianco di una struttura legale, "che sviluppava iniziativa politica", si era formato un "braccio illegale, cioè armato", con compiti ben determinati di "copertura" e di attacco nell'ambito delle varie manifestazioni antagoniste decise dagli organi di vertice.
L'adesione ai "Comitati Rivoluzionari" - che pure "aveva il suo braccio legale", cioè comitati di quartiere, e il suo braccio illegale con squadre armate - aveva fatto da preludio all'ingresso, "attraverso un lungo discorso politico", nelle Brigate Rosse.
In pratica, dopo l'esperienza della "lotta per la casa di San Basilio" che si era articolata in "tre giorni di scontro nella maniera usuale di quei tempi", si era sviluppato in seno al "Comitato Comunista Centocelle" "un dibattito" conclusosi con "la deliberazione di inserire questo Comitato all'interno di un progetto più ampio e più vasto: in quel momento c'era un'organizzazione nazionale dell'Autonomia che faceva riferimento al giornale "Senza Tregua" la quale, seguendo "una linea politica che allora si chiamava di cerniera", si proponeva di "unificare i due grossi schieramenti all'interno del movimento di classe, da una parte le organizzazioni combattenti, le Brigate Rosse, e dall'altra parte l'Autonomia".
I contatti con Luigi Rosati e Giancarlo Davoli, "esponenti di questa linea", non si erano limitati a semplici discussioni accademiche, ma si erano accompagnati alla "organizzazione di una direzione politica, di vari comitati" sparsi nella capitale con un programma "complessivo" dai contorni precisi.
Sebbene "non tutti i militanti dei Co.Co.Ri. avevano come fine politico il ruolo di cerniera e non tutti sapevano che dentro i comitati c'erano delle squadre armate", che dovevano operare "per l'estensione e lo sviluppo dell'autonomia di classe, cioè lo sviluppo delle lotte", certo era che "la direzione politica" dei Co.Co.Ri. e "alcuni militanti che in quel momento si candidavano già quadri di partito", avevano mirato ad "un salto qualitativo non affidato alla spontaneità" che era "appunto la organizzazione in termini armati e la possibilità di attaccare alcune strutture dello Stato, alcuni uomini o personaggi dello Stato, legando questo attacco alle problematiche dell'Autonomia".
Da qui l'esigenza di una dialettica tra i gruppi che "portavano avanti l'obiettivo della costruzione del partito comunista combattente", per una effettiva comunanza "dentro le organizzazioni comuniste combattenti".
In tale contesto, "un ulteriore passaggio" si era realizzato con "l'unificazione della direzione politica dei Co.Co.Ri. con un nucleo clandestino in cui c'erano Morucci, Gastaldi ed altri compagni", tra i quali Bruno Seghetti: si era così dato vita alle "Formazioni Comuniste Armate" - F.A.C. - le quali avevano in Roma il 21 aprile 1976 compiuto gli attentati contro Theodoli Giovanni, presidente dell'Unione Petrolifera, e in danno della S.I.P. all'EUR,.
Ma in prosieguo il Savasta aveva optato per la soluzione più radicale e, insieme ad Emilia Libera e Arreni Renato, aveva avuto "contatti politici" con Bruno Seghetti, conosciuto nel Co.Co.Ce. e notoriamente "vicino" alle Brigate Rosse, per entrare nel sodalizio terroristico.
Verso la fine del 1976 - inizio del 1977, il Seghetti li aveva invitati ad una riunione, tenutasi nella casa di una zia di Anna Laura Braghetti, nei pressi della Cristoforo Colombo, a cui aveva preso parte Valerio Morucci, "in veste di regolare", con "la funzione di vagliare personalmente, in base all'esperienza acquisita e agli elementi fornitigli dal Seghetti", i nuovi "aspiranti" nel "loro spessore politico, nella loro serietà politica, nella loro affidabilità".
Al termine, sia il Savasta, sia la Libera, e l'Arreni erano stati "reclutati" e destinati alla brigata "Centocelle", all'epoca sotto la "responsabilità politica di Seghetti e Morucci", i quali, del resto, avevano provveduto a munirli di pistole.
Diversi incontri si erano succeduti per approfondire aspetti teorici o pratici e non si erano trascurate esercitazioni con armi ed esplosivi, effettuate nella zona della Tolfa.
Nello stesso tempo da altra associazione extraparlamentare, "Viva il Comunismo", si erano staccati Piccioni, Novelli, Iannelli, Petrella Marina, Petrella Stefano, Cacciotti - a cui si erano aggiunti Pancelli e Padula - i quali erano "confluiti" nelle Brigate Rosse, formando la brigata "Torre Spaccata".
Nel periodo, comunque, le iniziative si erano estrinsecate in "azioni di propaganda nei quartieri, in richieste e piccoli attentati" consistenti nel danneggiamento di macchine di consiglieri democristiani a cui si imputava il "tentativo di creare consensi popolari attorno a sé, attorno al progetto".
Invece, contegni più incisivi erano stati assunti nell'ambito "dell'attività politica del movimento del 77".
La presenza alle assemblee autonome e a quelle indette nella Università; la partecipazione alla manifestazione squadristica inscenata nel febbraio dello stesso anno contro Luciano Lama sul piazzale della Minerva; gli interventi articolati nel corso dei tanti dibattiti con la prospettiva di "spostarne i termini in coincidenza con i fini della organizzazione" e il continuo tentativo di aggregazione tra gli studenti, avevano caratterizzato una fase molto proficua per il "potenziamento dei quadri".
La necessità di "ricercare un referente di classe" in una situazione "di coagulo di tutte le tensioni che venivano anche dai quartieri" avevano giustificato la creazione di una "brigata universitaria" che però non era riuscita a "proporsi" obiettivi di ampio respiro, al di fuori di un'opera di volantinaggio e dello "studio di alcuni personaggi all'interno dell'Ateneo, per il legame tra questa intellighentia e i partiti politici e l'economia".
Nella brigata in un primo momento avevano lavorato, oltre al Savasta, Emilia Libera, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini; in un secondo momento era stato cooptato, tramite la Libera, Massimo Cianfanelli.
Ebbene costoro, una volta decisa "la campagna di primavera" che aveva registrato "il punto più alto" nell'agguato di Via Fani e nell'omicidio dell'on. Aldo Moro, si erano impegnati in compiti di supporto, che, alla luce degli avvenimenti postumi, avevano avuto notevole rilievo.
Così, "circa un mese prima del sequestro di Aldo Moro" proprio il Savasta era stato "incaricato da Seghetti di guardare un pò come l'onorevole si presentava all'università. Si trattava di un'inchiesta di tipo militare."
Anche "i compagni della brigata ne erano stati sollecitati "a vedere come l'onorevole si muoveva" :
"andammo a vedere a Scienze Politiche quante lezioni teneva, in che giorno e in che ora faceva lezione e alcune volte ci appostammo dentro l'università per vedere come arrivava, come scendeva, la sua scorta, il comportamento della scorta stessa e l'ambiente che gli era intorno".
I risultati dell'indagine non erano stati positivi, tanto che al Seghetti era stato detto che (...)*
Ciò perché "prima di tutto c'erano moltissimi studenti, poi la città universitaria era chiusa; per cui ogni via di fuga, ogni modello operativo avrebbe trovato ostacoli.
In secondo luogo, la scorta era abbastanza numerosa e attenta per cui qualsiasi conflitto a fuoco avrebbe impedito il defilarsi del nucleo che aveva condotto l'azione".
"La cosa" non aveva avuto "seguito", anche se i militanti erano stati "mobilitati al massimo" perché si stava preparando "un attacco contro la Democrazia Cristiana" ed era stata consegnata ai membri della brigata "universitaria" "una lista di veicoli che servivano per una grossa operazione".
Antonio Savasta, pur escludendo una sua diretta responsabilità nella strage del 16 marzo 1978, essendone venuto a conoscenza "dalla radio e dalla televisione", asseriva che, dopo l'eccidio, era cominciato "un enorme lavoro di propaganda nell'Università, nelle * (un rigo mancante nella copia disponibile del testo originale) assemblee e nei quartieri" con l'impiego "di tutte le brigate".
Egli stesso, con Balzerani e Arreni e su mandato di Seghetti e Morucci, si era recato a Milano per prelevare gli opuscoli della "Risoluzione della Direzione Strategica del febbraio 1978", divulgata "in tutta Roma".
"Nel periodo del sequestro" sempre Seghetti e Morucci lo avevano tenuto al corrente dell'evolversi della situazione: "vedevamo sia Seghetti che Morucci con cui facevamo delle riunioni ed il punto politico sull'operazione Moro; cosa se ne voleva tirar fuori, i fini politici. Mi fu chiesto se volevo o meno partecipare ad un'azione dentro la campagna che si stava svolgendo: attacco ad un esponente della Democrazia Cristiana, Girolamo Mechelli. Discutemmo del significato di tale azione: approfondire, cioè, le contraddizioni all'interno della D.C. portando avanti un attacco al suo personale proprio nel momento in cui si stava svolgendo il dibattito tra le forze politiche sulla trattativa o non trattativa. Precedentemente l'inchiesta era stata condotta da "Claudio" - Seghetti - e da "Sara" - Balzerani. Sara mi fu presentata come responsabile politico-militare dell'azione che era stata bloccata per alcuni giorni proprio perché vi era il problema della trattativa; si pensava, cioè, di dare ancora tempo alla Democrazia Cristiana e vedere se la trattativa si apriva o no".
Controllati "gli orari di entrata e di uscita di Girolamo Mechelli" e formato un commando con lo stesso Savasta, la "Sara", Marcello Capuano - n.d.b. "Rolando" - e Salvatore Ricciardi, il 26 aprile 1978 l'attentato era stato portato a compimento: a sparare era stato "Rolando" che aveva accanto la Balzerani, mentre Savasta aveva espletato compiti "di copertura", armato "oltre che di una pistola, anche di un fucile a pompa", che sarebbe stato poi usato per uccidere Antonio Varisco.
I terroristi si erano allontanati a bordo della Dyane alla cui guida era rimasto in attesa "Spartaco".
Accennato al "dibattito politico all'interno di quasi tutte le brigate dell'organizzazione sul rilascio o meno dell'ostaggio" e alla "conclusione che si dovesse procedere alla sua esecuzione", Savasta, che si era pronunciato per questa scelta, aggiungeva che "in quei giorni, una decina di giorni prima" dell'omicidio dell'on. Moro, Bruno Seghetti gli aveva affidato "la famosa Renault rossa", perché la "gestisse" insieme ad Emilia Libera e Teodoro Spadaccini.
Ed in effetti essi avevano provveduto a sostituire le targhe originarie, a cambiare i contrassegni di circolazione e di assicurazione, a lavarla, a spostarla in strade diverse per impedire che fosse ritrovata dalle forze dell'ordine.
L'auto era stata riconsegnata al "Claudio" tre-quattro giorni prima del 9 maggio 1978 e soltanto "vedendo la televisione Savasta aveva capito che era quella che aveva gestito lui".
Costui ricordava, ancora, di avere preso parte con Seghetti, Gallinari e Cacciotti all'assalto contro il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Piazza Bologna: "questa operazione era legata a quella di attacco di una altra caserma, la "Talamo", che si diceva fosse quella del Generale Dalla Chiesa".
Dopo la morte dell'on. Moro, essendo stata sciolta la brigata universitaria, egli, diventato "regolare", era entrato, nel settembre-ottobre 1978, nella direzione della colonna romana, all'epoca costituita anche dalla Balzerani, da Gallinari, Seghetti, Morucci, Faranda e Piccioni.
Aveva inizio da questo momento la sua "carriera" di capo brigatista e in tale condizione aveva raccolto ulteriori notizie sulla intera vicenda dalla viva voce di Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Valerio Morucci e Mario Moretti.
Così, aveva appreso che "il presidente della D.C. era stato pedinato scrupolosamente" e, addirittura, Seghetti e Balzerani "ne avevano controllato i movimenti nella chiesa" ove di solito si recava a pregare; che il 16 marzo "era il primo giorno che il nucleo era operativo, cioè scendeva direttamente in azione", sicchè si era persino provveduto "a tagliare le gomme al furgone del fioraio" di Via Fani, "perché dava fastidio e poteva dare immediatamente l'allarme"; che, in ogni caso, era stata preventivata "la possibilità di un'ipotesi di ripiego" che avrebbe consentito la realizzazione del piano in "un'altra via"; che l'agguato era stato perpetrato da Moretti, Morucci, Faranda, Azzolini, Bonisoli, Fiore, Gallinari, Balzerani e Seghetti che nell'occasione aveva guidato una macchina.
Al riguardo Savasta precisava che "quando era uscita fuori la dichiarazione di Peci, si era discusso sui nomi indicati e si era detto, appunto, che questi nomi erano esatti e che qualche compagno aveva rivelato a Peci" circostanze destinate a rimanere segrete.
L'on. Moro non era stato di certo condotto nel covo di Via Gradoli, frequentato da Moretti e Balzerani e scoperto accidentalmente per un'infiltrazione di acqua, tanto che Moretti, "che era di ritorno da una riunione", avendo visto "la folla sotto casa e i pompieri", aveva domandato "cosa stesse succedendo e solo allora era scappato".
Il parlamentare, invece, era stato "detenuto" da Prospero Gallinari, il quale "era sempre stato a casa insieme ad Anna Laura Braghetti", all'epoca "l'unica prestanome a Roma".
E poiché nel settembre del 1978 si era deciso di "far passare clandestina la Camilla", in quanto "la compagna non poteva cadere essendo legata ad una grossa azione fatta dall'organizzazione", la deduzione logica era che "la prigione di Moro" fosse da localizzare nell'abitazione occupata dalla stessa Braghetti. Savasta non era in grado, tuttavia, di riferire "in quale dei due alloggi della Braghetti", siti in Via Laurentina e in Via Montalcini, potesse "trovarsi l'ostaggio":
"so soltanto che quando andavo, prima del sequestro, a casa della Braghetti in Via Laurentina c'erano dei lavori in corso" per la divisione dell'immobile "in due appartamenti distinti, con ingresso indipendente".
La "campagna" era stata governata dal Comitato Esecutivo - Azzolini, Bonisoli, Micaletto e Moretti - sia nella "fase preparatoria", sia nei frangenti delicati della "compilazione dei comunicati, degli interrogatori della vittima, della trattativa, del dibattito delle colonne, della chiusura" della vicenda.
Moretti personalmente "aveva gestito il rapporto con Moro e lo aveva interrogato", senza "ricavare niente", in quanto "egli era fermo nel difendere la linea politica della Democrazia Cristiana", conservando "molta lucidità" e la sua "visione" degli avvenimenti italiani e internazionali; Moretti, Azzolini, e Morucci - che si spacciava per il prof. Niccolai - avevano "telefonato alla famiglia Moro e ai suoi collaboratori".
Quando al ritrovamento in Via Licinio Calvo delle vetture impiegate in Via Fani, Seghetti aveva sostenuto che "le macchine erano state sempre lì, non erano state mai spostate e il fatto che ci fosse stato quel rinvenimento a catena era perché probabilmente erano ben occultate".
E per la barbara uccisione dell'on. Moro, al quale "era stato detto che se la Democrazia Cristiana non avesse trattato ci sarebbe stata l'esecuzione della condanna", erano "state usate due armi diverse, di cui una Walther calibro 9 corto PPK".
A sparare era stato colui che "lo deteneva, cioè Prospero Gallinari".
In precedenza Morucci, "per depistare le indagini della Polizia", "aveva preso le scarpe dell'onorevole ed aveva camminato sulla sabbia che aveva messo in una bacinella".
Infine, nel novembre-dicembre 1978, a Moiano, dove normalmente si svolgevano le riunioni della direzione di colonna, aveva avuto modo di "vedere delle carte" dattiloscritte sottratte quale era stata già staccata la fotografia.
I documenti erano in possesso del Gallinari e questi li aveva "bruciati in un camino".
Antonio Savasta si diffondeva, quindi, a spiegare i motivi di fondo che - a suo giudizio - avevano determinato le Brigate Rosse a rapire Aldo Moro - "l'uomo che rompeva con le vecchie consorterie", capace "di portare avanti in quel momento storico un progetto di rinsaldamento dello Stato imperialista delle multinazionali"; sottolineava le caratteristiche delle iniziative intraprese nell'arco di quei 55 giorni dai vertici dell'organizzazione; evidenziava la impreparazione, l'inefficienza e la superficialità dei centri istituzionali di fronte ad una situazione di emergenza che avrebbe richiesto risposte ben più adeguate, come "ad esempio era accaduto nel caso Dozier".
Comunque riconosceva che dopo la morte di Moro egli aveva percorso un lungo, triste cammino: "seguii la Brigata Centocelle, poi, piano, piano ebbi altri incarichi di organizzazione di altre brigate, quella di Primavalle,
di Ostia, del Tiburtino". La nuova qualifica, "naturalmente", gli aveva offerto il destro "per conoscere altri compagni" e per "costruire altre azioni, quale quella dell'assalto a Piazza Nicosia. Questa azione doveva riprendere il discorso lasciato sospeso sulla Democrazia Cristiana. L'attacco a Piazza Nicosia è all'interno di quella che noi chiamavamo la "falsa democrazia" dopo le elezioni; lo smascheramento delle elezioni come semplice progetto di ingabbiare la volontà popolare di cambiamento del nostro scenario".
Nell'impresa, studiata e curata nei minimi dettagli dai "settori" interessati, era stato impiegato "un numero grossissimo di compagni" - dai noti Gallinari, Seghetti, Piccioni, Braghetti, Libera, Arreni, Cacciotti a Cecilia Massara - n.d.b. "Carla" - Loris Scricciolo - n.d.b. "Nanni" - Franco Messina - n.d.b. "Marcello" - Casimirri Alessio - n.d.b. "Camillo" - Algranati Rita - n.d.b. "Marzia" - "Romeo" e "Marco" - mentre lo stesso Savasta e Barbara Balzerani "erano stati tenuti di riserva per non utilizzare tutti i regolari". Valerio Morucci e Adriana Faranda, "già usciti dall'organizzazione", essendosi resi protagonisti della "spaccatura", per avere sostenuto la necessità di "un adeguamento dell'iniziativa delle Brigate Rosse rispetto al movimento", non avevano partecipato all'assalto, in cui Prospero Gallinari era stato "ferito alla spalla in modo leggero".
Successivamente un nucleo composto dal Savasta, da Piccioni, "Marzia", Perrotta Odorisio - n.d.b. "Romeo" - e dalla Massara aveva perpetrato "l'esecuzione" di Antonio Varisco.
In merito il "pentito" forniva alla Corte particolari agghiaccianti e significativi, affermando che l'ufficiale era stato "indicato" dalla "Contro" - i cui membri erano Gallinari, Braghetti, "Camillo" e "Marzia" - come "obiettivo" importante per le sue mansioni e per la opera "di collegamento Magistratura e Carabinieri" che aveva consentito "l'inaugurazione dei processi-bunker".
La mattina del 13 luglio 1979, la "Carla", che stazionava a bordo di un motorino davanti alla casa della vittima, aveva avvertito, con un segnale convenuto, i complici appostati sul Lungotevere, che quest'ultima stava arrivando alla guida della sua B.M.W.
Savasta e Piccioni erano saliti sulla Fiat 128, mentre "Romeo" e "Marzia" avevano preso posto su una vettura "di copertura".
Al passaggio della macchina di Varisco, gli attentatori si erano "accodati in maniera da non permettere ad altre auto di incunearsi":
imboccato il Lungotevere, Piccioni aveva effettuato la manovra di "affiancamento della B.M.W." e Savasta, che era "seduto dietro per avere la possibilità di agire qualunque fosse il lato di accostamento", aveva sparato "con un fucile a pompa a canne mozze" un primo colpo andato a vuoto.
Il colonnello aveva "tentato invano di sterzare", ma era stato attimo da una seconda scarica.
Il terzo colpo non era partito per "difetto della cartuccia" e il quarto colpo, esploso quando la B.M.W. era ormai ferma, aveva "completato l'opera".
Gli autori dell'omicidio si erano, quindi, allontanati velocemente dalla zona, non senza avere lanciato un razzo che si credeva "fumogeno e invece era illuminante", usando " il clakson e palette tipo quelle della Polizia".
A Piazza Cavour essi avevano abbandonato i veicoli e con mezzi pubblici si erano recati all'Anagrafe dove era in attesa la "Carla".
"Un'altra grossa operazione ", c.d. "Isotta", alla quale avevano contribuito "tutti, quanto a progettazione e dibattito", era stata preparata per l'evasione di "detenuti politici" dal carcere dell'Asinara.
"Un simile progetto non contava semplicemente sulle forze esterne, ma anche su quelle interne, ossia sulla possibilità di disarticolare il carcere all'interno, sulla possibilità, dunque, di una rivolta che desse via libera all'evasione stessa".
A tal fine si era riusciti a "coagulare intorno ai compagni militanti delle Brigate Rosse numeroso personale politico, non costituito soltanto da appartenenti all'organizzazione, ma da proletari prigionieri. Come discussione ed elaborazione l'operazione era stata affidata all'Esecutivo e in particolare a Gallinari come membro dell'Esecutivo e della colonna romana".
"La cosa era stata curata dai compagni di detta colonna con l'invio di alcuni di essi in Sardegna", per "l'inchiesta sul posto", e "con la preparazione in termini logistici a Roma. Si erano trafugate otto macchine in due garages romani" e si erano trasferiti nell'isola molti elementi i quali, del resto, "potevano contare anche sull'appoggio locale".
"Il progetto era stato però accantonato perché i tempi non erano ancora maturi" e perché si erano registrati inconvenienti non imputabili alla volontà delle Brigate Rosse.
Nel periodo, comunque, il vertice del sodalizio estremista aveva intensificato i "contatti con vari movimenti di liberazione e con gruppi come "E.T.A., I.R.A. e R.A.F.".
Attraverso "una rete di compagni", un'agenzia rappresentata da "persone che tenevano i collegamenti con queste formazioni" in Francia, a Parigi, "per sviluppare una solidarietà internazionale, facilitando le possibilità di comunicazione", si erano instaurati "rapporti politici "con esponenti delle dette frazioni e, in specie, con l'OLP:
"A seguito della vicenda Moro, in cui avevano dimostrato una capacità politica, una capacità organizzativa non indifferente", le Brigate Rosse si erano "imposte all'attenzione anche di altri movimenti rivoluzionari che nel Mediterraneo portavano avanti una lotta contro l'imperialismo".
Ebbene, proprio con palestinesi "che facevano riferimento alla linea di Arafat" Mario Moretti aveva avuto dal 1978 "lunghe discussioni" per tentare di "costruire un canale diretto" e "rapporti da pari a pari".
Moretti si era recato spesso a Parigi, accompagnato da Anna Laura Braghetti - servendosi "per passare la frontiera rispettivamente dei documenti di Maurizio Iannelli e di Roberta Cappelli - ed era riuscito a raggiungere risultati positivi, sia "sul piano politico generale", sia in termini "di collaborazione e di aiuti concreti".
"All'O.L.P. interessavano, nonostante la politica seguita da Arafat, intesa ad ottenere il riconoscimento dei singoli Stati, attacchi a livello militare in Europa per tutto quello che riguardava ambasciate israeliane e personale sionista. E quindi anche addetto militare e personale militare israeliano in Italia".
Nel contesto, anzi, era stata "iniziata una inchiesta sull'addetto militare dell'ambasciata israeliana a Roma".
"In cambio" l'O.L.P. aveva garantito due forniture di armi, esplosivi e munizioni.
Un primo stock-Kalashnikov, pistole e fucili di fabbricazione russa, era stato trasportato in Italia "a piedi, passando un valico tra la Francia e la Liguria", da Moretti, Dura, Lo Bianco e Fulvia Miglietta.
Un secondo quantitativo di armi era stato consegnato, nell'agosto del 1979, al largo della costa di Cipro e caricato su una barca a vela, di dieci-dodici metri, sulla quale erano Moretti, Dura, Sandro Galletta e lo "skipper", un medico psichiatra di Ancona.
Si trattava di "mitra Sterling", bombe a mano MK2, Fall di tipo belga, razzi controcarro americani, razzi aria-terra francesi, bombe ENERGA, bombe antiuomo, esplosivo plastico, detonatori".
Lo scafo era arrivato a Venezia; le armi erano state custodite a Mestre e poi "distribuite a tutte le colonne" compresa quella di Roma.
Nel covo di Via Pindemonte a Padova erano stati recuperati i quaderni su cui Nadia Ponti aveva annotato diligentemente i relativi dati di consegna.
Inoltre, erano stati approntati a Montello, in provincia di Treviso, e in Sardegna due depositi "strategici" a disposizione dell'O.L.P., che erano stati individuati e smantellati dalla Polizia in base alle indicazioni rese nell'immediatezza della conclusione del sequestro Dozier.
Ma intanto Antonio Savasta aveva assunto un ruolo preminente: inserito nel Fronte logistico, unitamente a Peci, Dura, Moretti, Ponti e Piccioni, era stato dapprima, nel novembre del 1979, inviato con la Libera a Cagliari "per mettere in piedi la colonna sarda" e successivamente, nel maggio del 1980, nel Veneto, acquisendo "legittimazione" per intervenire alle sedute della Direzione Strategica e per essere cooptato nel gennaio-febbraio 1981, nel Comitato Esecutivo.
Era stato, così, presente nel dicembre 1979 in Via Fracchia a Genova insieme a Seghetti, Iannelli, Arreni, Nicolotti, Dura, Lo Bianco, Betassa, Guagliardo, Ponti, Moretti, Balzerani, Peci, Micaletto e, in prosieguo, aveva avuto occasione di partecipare alle riunioni di Tor San Lorenzo, di Santa Marinella, di Perugia e di Padova.
Sulla scorta della sua esperienza e della conoscenza delle Brigate Rosse, "Diego" era in grado di descrivere ai giudici momenti essenziali dell'attività eversiva e di evidenziare la composizione dei diversi centri decisionali della organizzazione a livello nazionale e di "polo".
E, dopo essersi soffermato sulle modalità della formazione del nucleo che agiva nella capitale, denunciava le specifiche responsabilità di singoli imputati in ordine agli episodi di violenza all'esame della Corte
mite Morucci - tra le Brigate Rosse ed esponenti della rivista "Metropoli", i quali si erano dichiarati pronti "a fornire armi" se si "costruiva un rapporto politico" teso "all'unità nella distinzione". Era, in pratica, "il solito discorso della cerniera, dell'unità dei gruppi combattenti, dell'unità tra guerriglia e movimento di massa. In questo senso a loro interessava moltissimo legare l'organizzazione anche attraverso questa fornitura di armi.
Ma questa proposta era stata rifiutata da parte della direzione di colonna di Roma e dell'Esecutivo".
Da ultimo, rammentava che il 27 maggio 1980, "quando erano stati arrestati Braghetti, Ricciardi e Zanetti", costoro erano in procinto di completare l'inchiesta che aveva come obiettivo il rapimento di Giuseppe Di Gennaro, nell'ambito del progetto di "attacco nei confronti del Ministero di Grazia e Giustizia".
L'operazione, denominata convenzionalmente "Cerasa", aveva la finalità "di colpire al massimo livello" i gangli ministeriali.
 
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