Processo Moro II

04. Il sequestro e l'uccisione di Moro

Parte III

Documento aggiornato al 09/04/2005
A partire dalla Risoluzione della Direzione Strategica n. 1 dell'aprile 1975, in una lunga serie di opuscoli e di scritti, erano stati via via precisati i motivi di questa scelta - Secondo l'analisi che le Brigate Rosse venivano facendo, premesso che "in Europa principalmente sempre più si giocherà la permanenza e lo stravolgimento degli equilibri mondiali sanciti dalla seconda guerra mondiale" e che "il sistema democratico occidentale costituisce una totalità strategica (politica, economica, militare)", si precisava che in Italia era in corso un processo di stabilizzazione politica, che faceva perno sulla Democrazia Cristiana, e, dopo le elezioni del giugno 1976, sulla alleanza di questo partito con il Partito Comunista guidato da Berlinguer.
Tale processo di stabilizzazione - nella ottica delle B.R. - era funzionale ad uno stabile inserimento dell'Italia tra i Paesi della "catena imperialistica". Per impedire il suddetto processo di stabilizzazione, era necessario, quindi, secondo le B.R., indebolire, colpire e distruggere il partito della Democrazia Cristiana.
Sulla base di questa impostazione, nell'autunno del 1977 le Brigate Rosse definirono il loro obiettivo di attacco al "Cuore dello Stato" nella persona di Aldo Moro.
L'indicazione di tale scelta non si trova, ovviamente, negli scritti pubblicati in quel periodo della Organizzazione, se non altro per motivi di segretezza. Ma, i motivi della scelta si intendono facilmente sul piano logico in relazione alla specificità dell'azione destabilizzatrice portata avanti dalle Brigate Rosse. E, in un documento successivo (marzo 1979) prodotto dai membri del "nucleo storico" in carcere, è chiaramente detto che l'azione contro Moro costituiva proprio l'attacco al "cuore dello Stato" rappresentato in quel preciso momento storico (16 marzo 1978) dall'accordo di programma tra D.C. e P.C.I.
Parallelamente, sul piano dello Stato, secondo le Brigate Rosse, l'offensiva terroristica andava scatenata contro i centri del potere statuali, ristrutturati con funzioni "antiguerriglia". (Forze dell'Ordine, Magistratura, Carceri), allo scopo di disarticolare "militarmente" lo Stato e di innescare la guerra civile di "lunga durata". A questo ultimo obiettivo bisognava arrivare attraverso la "guerriglia urbana", sempre più diffusa, e a tale scopo la Risoluzione della Direzione Strategica del febbraio 1978 si definiva il Movimento Proletario di Resistenza Offensivo (M.P.R.O.) come l'insieme dei gruppi armati operanti nei quartieri urbani, e sui quali le Brigate Rosse dovevano esercitare una funzione di guida.

Gli avvenimenti successivi dimostrarono la efficacia dell'attacco alla persona di Moro per impedire l'attuazione del suo disegno politico; rivelarono la vacuità del programma "rivoluzionario" e la vanità della lunga serie di efferati delitti, contro cui si eresse la coscienza civile della nazione.
La decisione dell'azione contro Moro fu, dunque, presa dagli organi direttivi nazionali (Comitato Esecutivo e Fronti) e ratificata dalla Direzione Strategica. La preparazione e l'esecuzione del sequestro furono affidate alla Direzione della Colonna romana.
Il Comitato Esecutivo all'epoca era composto da: Moretti, Micaletto, Azzolini e Bonisoli. Il Fronte della lotta alla Controrivoluzione da: Micaletto, Piancone, Bonisoli; Nicolotti e Gallinari. Il Fronte logistico da: Moretti, Fiore, Morucci, Azzolini e Dura. La Direzione della Colonna romana era formata all'epoca, come si è detto da: Moretti, Morucci, Faranda, Gallinari, Seghetti, Balzerani.
Venne messa in atto una "massiccia" inchiesta, come l'ha definita Faranda.
Il parlamentare democristiano venne seguito e osservato dai "regolari" della Direzione di Colonna un po' dovunque: all'uscita di casa, nella chiesa di S. Chiara, lungo il percorso. Anche all'Università vennero osservati i movimenti di Moro e il comportamento degli uomini della scorta; l'incarico venne affidato a Savasta, che ne informò la brigata, e poi riferì al Seghetti che in quel luogo l'azione non era possibile.
Scartati gli altri luoghi e accertato che l'auto di Moro e quella della scorta non erano blindate, si scelse l'incrocio di Via Fani con via Stresa. Il piano prevedeva l'attacco armato agli uomini della scorta e la loro eliminazione.
Faranda e Morucci hanno dichiarato di aver accettato con riluttanza l'idea della uccisione dei cinque uomini. Ma è di tutta evidenza che il piano del sequestro non poteva essere attuato se non compiendo tale atto, e di fatto esso venne eseguito con modalità tali da far risaltare ad un tempo la determinazione dei terroristi e la finalità di annientamento, con un preciso significato nell'economia dell'attacco terroristico al "cuore dello Stato".
In prossimità del 16 marzo 1978 tutta l'organizzazione fu mobilitata "al massimo" in vista di una "grossa azione". Alle "brigate" fu dato l'incarico di rubare dieci auto, di cui venivano indicati i tipi.
Si è detto, anche da parte del Morucci e della Faranda, che la scelta del 16 marzo 1978 fu casuale - Tuttavia, sono emerse in contrario le seguenti circostante:
1) la Faranda ha dichiarato di avere saputo della suddetta data due-tre giorni prima, e che i "regolari" del Nord, che parteciparono all'azione di via Fani, giunsero a Roma il giorno precedente;
2) il Morucci, a sua volta, ha dichiarato che furono rimproverati coloro che erano stati incaricati del furto delle auto, perché 3 giorni prima del 16 marzo non era stata ancora procurata la Fiat 132, che doveva servire per il trasporto del sequestrato da via Fani;
3) i predetti e anche Savasta hanno precisato che il "comando" andò per la prima volta "operativo" in via Fani proprio il 16 marzo, il che dimostra che i preparativi furono affrettati proprio per poter compiere l'azione criminosa in quel preciso giorno, nel quale veniva presentato alle Camere il nuovo Governo di solidarietà nazionale per il cui varo lo statista democristiano aveva lavorato.
In ordine all'azione in via Fani, le dichiarazioni del Morucci contestate soprattutto dalle parti civili, fissano in nove i componenti del "commando", escludendo da questi nove i nomi di Azzolini e di Faranda. mancano elementi precisi di riscontro per ritenere false o veritiere tali dichiarazioni. Si può però rilevare, sulla base di un confronto attento delle deposizioni testimoniali e dei rilievi tecnici, che la ricostruzione dell'azione fatta dall'imputato non contrasta con i suddetti elementi e corrisponde meglio ad esigenze operative.
D'altronde, è chiaro che il numero di nove si riferisce solamente ai componenti del "commando", e quindi non esclude la presenza di altri terroristi sia nella zona di via Fani, sia lungo il percorso seguito dalle auto, con funzioni di appoggio e di copertura. Ciò potrebbe spiegare anche la presenza della moto Honda, vista da qualche teste prima e dopo l'azione.

Invero, per quanto riguarda il numero, solo il teste Marini parla di un numero di persone superiore a nove. Ma, la versione fornita dal predetto teste appare essere più una ricostruzione "a posteriori" del fatto. Se egli fosse stato presente all'intero svolgimento della vicenda - come afferma - sarebbe stato notato da qualcun altro dei testi.
"Tutti gli altri testimoni, invece, riferiscono ognuno un momento o parte del fatto, e le loro testimonianze, collegate, offrono una ricostruzione dell'azione che, nel numero dei partecipanti e nelle modalità di svolgimento, corrisponde di più a quella data dal Morucci".
Per quanto riguarda i bossoli rinvenuti sulla strada, si rileva che la grandissima maggioranza di essi era disposta sulla sinistra delle auto e leggermente spostata indietro; il che conferma che i bossoli medesimi furono espulsi da armi che spararono sulla sinistra delle predette auto. I pochi bossoli rinvenuti sulla destra possono essere attribuiti, oltre che ai due colpi sparati dalla pistola di Iozzino, sceso dalla portiera di destra dell'auto di scorta, a quei colpi sparati contro lo Iozzino stesso dal terrorista, o dai terroristi, che si erano portati verso di lui.
La esclusione, poi, dell'Azzolini e della Faranda dal novero dei componenti del "commando, mentre, come è evidente, non limita affatto la responsabilità dei due per l'azione criminosa - l'Azzolini, quale membro del Comitato Esecutivo che aveva deciso e dirigeva tutta l'”operazione”; la Faranda che, quale componente della Direzione di colonna, aveva partecipato a tutti i preparativi e, in quel momento, era intenta ad ascolto radio -, conferma, per altro verso, la partecipazione degli altri sette, già indicati dagli imputati Peci e Savasta: Moretti, Gallinari, Fiore, Morucci, Bonisoli, Seghetti e Balzerani.
La notizia data in questo dibattimento d'appello dal Morucci e dalla Faranda della partecipazione all'impresa delittuosa di via Fani di altre due persone, non identificate, fornisce una utile indicazione su una maggiore estensione della Colonna romana agli organi inquirenti competenti, che stanno svolgendo o che svolgeranno ulteriori accertamenti sulla vicenda Moro.
La ricostruzione dell'azione criminosa di via Fani è fatta nella sentenza di 1° grado sulla base delle testimonianze e accolte, dei rilievi tecnici e dei risultati degli accertamenti peritali. Le indagini balistiche, in particolare, hanno stabilito che i terroristi spararono in via Fani contro gli agenti della scorta dell'on. Moro con quattro mitra (un F.N.A. un TZ 45, un M12, un altro F.N.A.) e due pistole (una Smith-Wesson e una Beretta mod. 52). Si è accertato che la Smith-Wesson, trovata in possesso di Prospero Gallinari all'atto del suo arresto il 24.9.1979, aveva sparato otto colpi, contro il M.llo Leonardi e l'App.to Ricci.
Prelevato l'uomo politico, alcuni componenti del "commando", seguendo un percorso prestabilito ed effettuando diversi cambi d'auto, trasportarono lo stesso in un luogo adibito a "prigione", tenuto rigorosamente segreto.
Gli imputati Faranda e Morucci hanno dichiarato di non avere conosciuto il luogo della prigione e di essere stati, quindi, esclusi da qualsiasi contatto con l'on. Moro, durante i 55 giorni del sequestro. La circostanza, se vera, sarebbe significativa. Se ne dovrebbe dedurre che i massimi responsabili delle B.R., esclusero deliberatamente i due da ogni possibilità di interferire nel sequestro, ove si consideri l'importanza del ruolo dagli stessi svolto nella preparazione e nell'esecuzione dell'azione.
Compiuto il sequestro, subito rivendicata l'azione, seguirono diversi comunicati, redatti direttamente dal Comitato Esecutivo riunito permanentemente in una località vicino a Firenze. Contemporaneamente alla pubblicazione dei comunicati, avveniva la consegna delle varie lettere scritte dall'on. Moro a diversi destinatari.
Hanno dichiarato gli imputati Morucci e Faranda di essere stati essi gli incaricati della consegna delle lettere; anzi, hanno precisato che tale incarico fu loro affidato dal Comitato Esecutivo, su loro insistente richiesta, in quanto consapevoli all'importanza che le lettere stese avevano per la "gestione" del sequestro. Al riguardo, è significativa una notizia da loro data. Hanno rivelato i due predetti imputati (v. interrogatori resi al G.I. e acquisiti al processo) che in ordine alle modalità di consegna della prima lettera dell'on. Moro (quella diretta al Ministro dell'Interno Cossiga) sorse subito un contrasto con il responsabile del Comitato Esecutivo di Roma (Moretti). Questi, invero, voleva che la lettera, unitamente al comunicato n. 3, fosse fatta pervenire alla stampa.
I due obiettarono che la lettera andava trasmessa riservatamente al Ministro, in quanto la pubblicazione della medesima avrebbe pregiudicato fin sul nascere ogni possibilità di trattativa, cui Moro faceva già riferimento nella lettera medesima. Va rilevato il significato di questa presa di posizione. Essa non riguarda certamente un aspetto puramente tecnico della consegna, ma è dettata dalla preoccupazione che, rendendosi di dominio pubblico il contenuto della lettera, diventasse impossibile praticare la via della "trattativa", in quanto il Governo e le forze politiche sarebbero stati costretti a prese di posizioni ufficiali in ordine a tale soluzione.
Prevalse la decisione dell'Esecutivo e la prima lettera di Moro fu subito resa pubblica.
Contemporaneamente a tali fatti, si svolgevano i primi approcci a Torino tramite l'avv. Guiso, difensore degli imputati del processo colà in svolgimento, per sondare le possibilità di una liberazione dell'on. Moro.
Gli organi direttivi delle Brigate Rosse erano, invece, orientati allo scontro diretto, con lo Stato, onde ottenere il massimo cedimento dello Stato stesso.
Il contrasto tra Faranda e Morucci e gli altri responsabili delle B.R. evidenzia indubbiamente una diversa "linea" un diverso modo di "gestire" il sequestro; ed è sintomatico che tale contrasto percorse tutto l'arco dei 55 giorni del sequestro, acuendosi nell'ultimo periodo, quando con i comunicati n. 7 e n. 8 le Brigate Rosse posero lo "scambio" con i "detenuti politici" come condizione per la salvezza della vita di Moro.
Lo "scambio" era il mezzo - come hanno esplicitamente affermato il Morucci e la Faranda - per le Brigate Rosse onde ottenere il "riconoscimento politico".
Invero, l'obiettivo principale a cui le Brigate Rosse puntavano, e da esse tenacemente perseguito, era il riconoscimento politico che rientrava nella strategia globale dell'Organizzazione, da sempre dichiarata: disarticolare politicamente il regime e militarmente lo Stato. La via per tale risultato è chiara e non viene tenuta nascosta: ottenere il massimo di riconoscimento quale forza di guerriglia nel Paese. Lo "scambio" ufficiale di Moro con i "13" detenuti è il mezzo per avere tale "riconoscimento" e per porsi come forza antagonista dello Stato.
Ottenere il suddetto riconoscimento anche solo dalla Democrazia Cristiana è l'obiettivo minimo, ma sufficiente, per le contraddizioni che avrebbe fatto esplodere all'interno delle istituzioni, e perché comunque avrebbe portato il suddetto partito ad un cedimento verso l'Organizzazione, di conseguenza, ad un irreparabile declino politico.
L'ultimatum relativo allo scambio fu respinto dalle forze istituzionali e dalla Democrazia Cristiana, e le Brigate Rosse volsero verso la decisione della uccisione del sequestrato.
È accertato che in questo periodo ci fu almeno un incontro tra Morucci e Faranda e Lanfranco Pace, esponente dell'Autonomia. Il Pace si mostrò preoccupato per la decisione delle Brigate Rosse perché l'uccisione di Moro avrebbe radicalizzato lo scontro tra lo Stato e l'eversione, con il probabile rafforzamento dello Stato e la sconfitta del movimento eversivo.
Il Pace ebbe contatti con esponenti politici al fine di ottenere dalla Democrazia Cristiana una disponibilità alla trattativa, che era la condizione irrinunciabile posta dalle Brigate Rosse per far salva la vita di Aldo Moro, come palesato anche dalla telefonata fatta personalmente da Moretti, alla famiglia Moro il 30 aprile 1978, alla presenza di Morucci e Faranda.
Attesa l'impraticabilità della suddetta condizione, furono avanzate dai predetti esponenti politici proposte di atti unilaterali di clemenza da parte dello Stato, che potessero influire sulle determinazioni delle Brigate Rosse. Tale soluzione, però, non interessava il gruppo dirigente della Organizzazione, che emise la decisione di eseguire la "sentenza di condanna".
Nel frattempo c'era stata la scoperta della "base" di via Gradoli per una infiltrazione di acqua, le cui cause non sono ancora chiare.
Voci di dissenso circa l'uccisione dell'on. Moro, espresse da taluni militanti all'interno dell'Organizzazione, trovarono una netta chiusura nel gruppo dirigente.
L'uccisione di Moro dimostra a quale durezza l'Organizzazione aveva innalzato il proprio scontro con lo Stato; e dimostra, anche, che un gruppo ristretto di uomini ebbe nelle proprie mani la vita e la morte di Aldo Moro.
Sono noti il giorno e il luogo nel quale fu dato ritrovare il corpo dell'ucciso.
 
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