29 giugno 1969

01. Discorso al Congresso della Democrazia Cristiana

Documento aggiornato al 09/04/2005
Signor Presidente,

Cari amici,
questo Congresso presenta alcuni elementi di novità che devono essere rilevati. Esso si svolge in anticipo sulle scadenze statutarie come conseguenza, da un lato, del carattere un po' artificioso del Congresso di Milano, dall'altro dei movimenti sociali e di opinione pubblica, messi in evidenza dalle elezioni dell'anno scorso. Esso dovrebbe dare perciò maggiore consapevolezza dei problemi del Paese ed un assetto del Partito più giusto ed aperto in piena armonia con la politica di centro-sinistra. Siamo poi di fronte alla logica della proporzionale, che riflette esattamente la Democrazia cristiana, ma insieme ne frammenta le forze. Nessuno schieramento può raggiungere la maggioranza in Congresso e presentare la propria posizione come piattaforma ideale e programmatica della Democrazia cristiana.'
Tuttavia, a limitare questa dispersione, vi è il composito raggruppamento d'Impegno Democratico e, dall'altra parte, lo schieramento delle forze di sinistra, unite, pur nella loro diversità, in una comune azione congressuale e nella iniziativa politica susseguente.
Numericamente essi in sostanza si bilanciano. Al centro sono altre forze che, in una situazione come questa, devono scegliere e qualificarsi. Scelta, peraltro, come abbiamo più volte chiarito, non esclusiva, poiché per i gruppi di Nuove Cronache e dell'on. Taviani si tratta di rifiutare l'arbitraria chiusura alla quale fino ad ora con deplorevole incoerenza hanno dato il loro avallo e di rendere possibile, lasciando da parte ambiguità e comodità, il più ampio dialogo in vista di una nuova e qualificata maggioranza. Le componenti di sinistra debbono ormai assumere pienamente le loro responsabilità; non si tratta più di essere pungolo, ma guida. Ma si può contare davvero, ora, sulle forze alle quali poc'anzi ci richiamavamo? I rilievi critici non possono essere evitati. Nel complesso esse hanno dimostrato, in questo anno difficile, diffidenza, ostilità, scarso spirito di apertura. Sono state fatte, per resistere all'urto di una situazione nuova e che poneva semplicemente dei problemi, cose che sarebbe stato bene evitare. Ad una domanda politica si è risposto con una difesa massiccia. Non si è aperto invece, come si doveva, come ci si era impegnati a fare dopo le elezioni ed in ispecie al momento della costituzione del Governo, un discorso serio. Formato il Governo, stabilito un contatto diretto con il Partito socialista, le sinistre scomode sono state abbandonate a se stesse. Non una parola, neppure di replica critica. Si è preferito chiudere il caso ed andare avanti. Che cosa significa l'autonomia dei gruppi di Nuove Cronache e dell'on. Taviani, affermata sì, ma senza nessuna iniziativa, senza nessun interesse per quel che avveniva fuori del munito castello nel quale tutti i privilegiati si sono ritirati? Un'autonomia così inerte potrebbe essere un atteggiamento tattico, che prepara una ritirata a Congresso concluso. Nel fondo c'è la vocazione al potere del gruppo di maggioranza relativa, come un fatto naturale, una condizione alla quale si è predestinati ed infine un dovere che corrisponde puntualmente al compito di Governo della Democrazia cristiana. Il gruppo di Nuove Cronache sembra preferire, per chissà quale disegno, uno schieramento più ristretto, nel quale la sua presenza e la sua forza condizionante siano più marcate. Esso invita al confronto sui problemi, ma lascia subito cadere un qualsiasi discorso. Che cosa c'è di serio ed impegnativo dietro il silenzio operoso dell'on. Taviani, il quale rilancia un ponte sul quale sembra pericoloso avventurarsi, ma mette subito le mani avanti, dicendo che non si tratta di ribaltare la vecchia maggioranza? '
Noi attendiamo, prima che una risposta politica, una risposta su basi di fiducia e di eguaglianza. E', questo che si vuol sapere, al di là di ogni tatticismo. Vogliamo sapere, se ci si riconosce eguali tutti (ed eguali anche quelli che hanno importanti esperienze, le quali danno titolo non alla superiorità ma appunto solo all'eguaglianza) e se, essendo eguali, ci incontriamo e ci dividiamo davvero e solo per ragioni politiche o invece per altro, al quale le ragioni politiche, appena confusamente accennate, diano solo una copertura. Vorremmo essere convinti che non si tratta, quando si mostra di voler costruire qualche cosa, di espedienti per guadagnare tempo ed annebbiare tutto, evitando di dare una risposta imbarazzante. Ecco, vorremmo sapere, una volta per sempre, se queste forze trovano più comodo gestire tra loro il potere senza integrazione o copertura, o se sentono la responsabilità di fare un discorso politico, ad esso legando e subordinando quello del potere. Solo in questa seconda ipotesi prevarrebbero gli interessi del Partito. Solo da questa assunzione di responsabilità può venire la salvezza della Democrazia cristiana e cioè un mutamento veramente significativo nella sua fisionomia ed iniziativa secondo le esigenze dei tempi ed il valore che assume coerentemente la politica di centro-sinistra.
Formalmente dunque in questo Congresso non vi è una maggioranza preesistente o anche solo immaginata che attenda la sua ratifica. Almeno così è stato detto e noi vogliamo credere, malgrado il comportamento finora deludente, alla dichiarata autonomia e disponibilità al dialogo dei vari gruppi interni alla Democrazia cristiana. Se queste affermazioni sono sincere, vuol dire che vi è la possibilità di correggere, nel senso di una larga apertura, il grave errore che fu compiuto, quando inopinatamente, ed in modo segreto e misterioso, fu costituita nel gennaio scorso, invece che la nuova, una vecchissima maggioranza.
Sarebbe già qualcosa, se si volesse davvero cambiare ora la insostenibile situazione nella quale il Partito si è andato a cacciare. Si deve tuttavia rilevare che, se esso ha vissuto un anno di grande travaglio, se ha svolto un'azione frammentaria, nervosa, scarsamente costruttiva, se ha mancato tante occasioni di utile raccordo con la realtà sociale, se ha perduto in capacità rappresentativa, se questo Congresso si svolge nel segno dell'incertezza e dell'ambiguità, ciò si deve al colpo di mano di una maggioranza che ebbe scarso scrupolo e poca ponderazione nel costituirsi, e nel chiudere in fretta e male i gravi problemi di ordinamento interno e d'iniziativa politica della Democrazia cristiana. Una maggioranza che alla prova dei fatti si è rivelata solo relativa, ma ha continuato ad andare avanti con un misto di abnegazione e di opportunismo fino a questa scadenza congressuale, fino a quest'ora della verità. Quale sia il nostro giudizio su di essa, non abbiamo bisogno di dire. La riteniamo una maggioranza, se pure di maggioranza si può parlare, del tutto arbitraria, perché solo reali convergenze e divergenze politiche, e mai la comodità e la forza, possono tracciare in un Partito i confini tra maggioranza e opposizione. Essa è conseguentemente priva di autentico significato politico. Per la sua origine e la sua composizione dà infatti una fisionomia distorta della Democrazia cristiana e ne diminuisce grandemente la credibilità soprattutto presso il mondo giovanile e quello del lavoro, i quali non possono non rilevare l'assenza voluta ed ingiusta di quelle componenti che meglio ne riflettono le idealità e le aspirazioni. Aggiungeremo che la gestione è stata tutt'altro che esemplare per discrezione, equità e rigore morale, come sarebbe stato opportuno almeno per bilanciare l'atto di forza.
Non vogliamo disconoscere lo spirito di sacrificio del Segretario politico, che abbiamo sempre rispettato e, per quanto possibile, aiutato. Ma le cose sono quelle che sono e vanno dette, perché vere, con inflessibile durezza. E' stata davvero una gestione chiusa, inerte, carica di diffidenza e di malinteso spirito di difesa, lontanissima da quel vasto respiro di libertà e di fraternità che dovrebbe caratterizzare un Partito come il nostro e cogliere in ogni vicenda una occasione di dialogo e di incontro. Non sono stati così stabiliti contatti con le opposizioni interne. Mai, come in questo periodo, ciascuno è andato per la propria strada. Nella preparazione del Congresso, gli organi d'incontro paritetico non hanno funzionato, se non formalmente ed episodicamente, mentre tutto l'apparato del Partito, inopinatamente arricchito di innumerevoli uffici a semplice richiesta, e, in alcuni casi, quello dello Stato, sono stati proiettati verso una massiccia operazione di recupero, riuscita solo in parte, per consolidare il fragile sistema, sino allora costruito, e togliere vigore all'alternativa che si andava profilando. Noi abbiamo tollerato molte cose né vogliamo riaprire ora questo sgradevole capitolo della nostra vita di Partito. Ma non possiamo rinunciare almeno a questo cenno, perché non si ritenga accettato e ratificato da noi quel che è avvenuto nel corso di questi mesi. Noi abbiamo invece gravi riserve. Senso di responsabilità ha reso assai misurata la nostra opposizione interna mentre abbiamo tenuto, com'era nostro impegno, un atteggiamento di leale appoggio al Governo dell'on. Rumor, che vogliamo cordialmente salutare in questo momento.
Dobbiamo però dire che questo comportamento indulgente non può durare dopo il Congresso, se la situazione che ci offende, escludendoci, dovesse ancora continuare. In particolare risulta incomprensibile ed inaccettabile la diversità di struttura tra Governo e Partito. Se si è in grado di assumere responsabilità nel primo, non si vede perché tale possibilità non vi sia nel secondo. Non si dimentichi che il Partito è il veicolo attraverso il quale passa la nostra fiducia verso il Governo. Chi vorrà assumersi per l'avvenire la responsabilità di ostruire o rendere scarsamente praticabile questo canale di vitale importanza? Chi vorrà assumersi per l'avvenire la responsabilità di porre, con la formazione di maggioranze ingiustamente preclusive, una ragione obiettiva di dissociazione in seno alla Democrazia cristiana? I problemi di fondo nel nostro Paese rimangono e non si potrà evitare che una forte iniziativa si cimenti nella loro soluzione in termini nuovi ed umani.
Se questo Congresso non sciogliesse il nodo politico per il quale è stato convocato, le conseguenze sarebbero gravi. E non voglio dire solo che nessuno può attendersi dagli altri più senso di responsabilità di quello del quale egli stesso non dia prova, ma soprattutto che il torpore della Democrazia cristiana non potrebbe restare, se dovesse continuare ancora, senza una sanzione storica.
La forzata non partecipazione delle componenti più vive nella gestione del Partito si tradurrebbe, a più o meno lunga scadenza, in un incoraggiamento ed aiuto a quelle tendenze alla dispersione a sinistra che costituisce oggi un grave rischio per la democrazia italiana.
La nostra battaglia ha dunque il significato di promuovere una qualificata ed incisiva presenza della Democrazia cristiana nel mondo ricco di fermenti rinnovatori nel quale oggi ci troviamo a vivere. La integrità della componente democratico-cristiana, come del resto di quella socialista, è essenziale ad una seria politica di centro-sinistra.
Certamente non è agevole guidare la Democrazia cristiana, comporla cioè giustamente nel suo interno e condurla ad una vittoriosa battaglia politica. Il compito è difficile, ma non impossibile, solo che si abbia il coraggio di rinunciare ad ogni pretesa di predominio, per ricercare non un mediocre compromesso, una semplice e ben dosata estensione del potere concepito nei termini che abbiamo appena finito di criticare, ma una solida intesa, senza assurde gelosie, sulla base di una precisa linea politica.
Del resto devono caratterizzare la Democrazia cristiana il rispetto, non solo verbale, delle persone e dei gruppi, siano essi di maggioranza o minoranza, un sobrio uso degli strumenti di potere, la rinuncia ad ogni autoritarismo, la garanzia di una perenne dialettica delle idee, l'instaurazione di un autentico rapporto umano entro il Partito e nel collegamento della Democrazia cristiana con il Paese.
Mentre entra in crisi ogni forma, come si dice, di collateralismo e la società civile rivendica tutta la sua autonomia, la libertà, il civile costume e l'intelligenza profonda delle cose sono condizione necessaria ed appena sufficiente per consentire alla Democrazia cristiana di condurre con successo la sua battaglia politica nelle condizioni più complesse e difficili nelle quali oggi si svolge. Converrà dunque dare all'organizzazione il giusto peso, ma senza dimenticare che si tratta non di trascinare ma di convincere e cioè di aprire ad ogni istante e su ogni tema un dialogo tra eguali, nello sforzo di rendere possibile un orientamento positivo degli uomini liberi, dei tanti uomini liberi della nostra società. Ciò vuol dire che la Democrazia cristiana è chiamata ad essere sempre più un partito di opinione e che a convogliare le volontà, e non solo nel voto, ma nella risposta quotidiana alla sollecitazione sociale e politica, non è il potere, ma l'idea. Il potere diventerà sempre più irritante e scostante e varrà solo un'idea comunicata per un tramite discreto ed umanamente rispettoso. Queste, cari amici, non sono fantasie, sono cose che già cominciano ad avvenire e che avverranno sempre di più, cose che nascono e prendono il posto di quelle che muoiono. Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime. Non direi purtroppo che sia questa oggi la nostra esperienza. Il modo di essere del Partito dinanzi al Congresso, al di là della retorica con la quale ci si può sempre, ma vanamente, consolare, è in aperta contraddizione con queste cose e, in definitiva, desolante.
Senza affatto trascurare i contenuti programmatici, che aderiscono puntualmente alla linea politica, noi abbiamo sempre dato grande rilievo ai temi di schieramento, al quadro generale dei rapporti tra i partiti. Non è concepibile una posizione indifferente o neutrale di fronte ad essi. Il primo problema è quello relativo alle forze che assumono l'impegno di realizzare gli obiettivi di sviluppo della società. La soluzione che se ne dà ha un significato fondamentale. Assume dunque valore a sé stante il dialogo politico, il quale conduca, sulla base di una sostanziale omogeneità nei grandi indirizzi, a naturali e costruttive intese. Esse esprimono - tale è la democrazia una vasta e varia partecipazione, nella quale si riflette la realtà multiforme del Paese. Va definita così l'area delle positive collaborazioni, delle sistematiche convergenze per guidare la comunità in forme molteplici e a livelli diversi.
In questo Congresso, io credo, il principio del dialogo e cioè il rifiuto di ogni esclusivismo della Democrazia cristiana, che essa lo possa o non lo possa realizzare, è fuori discussione. Ed è parimenti fuori discussione l'area nella quale esso, oggi come dal 1962, è chiamato a svilupparsi. Esistono tuttora le condizioni positive che lo indirizzano verso i partiti della coalizione di centro-sinistra e non esistono le condizioni per mutarne gli interlocutori.
Per quanto complesse siano le vicende di questi anni e dure le prove affrontate e da affrontare, resta fermo il valore di questo incontro, che sottolinea una felice evoluzione della situazione italiana, mette in contatto ideologie ed esperienze diverse, allarga il respiro della democrazia italiana, offre possibilità, tutt'altro che esaurite, di rinnovamento sociale e politico. A noi non è lecito interferire nella soluzione dei problemi interni di altri partiti. Ma ci sarà consentito di esprimere l'augurio che questo più avanzato equilibrio politico non sia messo in forse e che una forte componente socialista, nella sua dialettica interna, concorra in modo determinante ad affrontare i grandi problemi del nostro tempo. La coalizione di centro-sinistra corrisponde infatti alle esigenze di una società largamente rinnovata ed ancora rinnovantesi. Essa è nata, essa è stata resa possibile proprio da una situazione in movimento. Da questo tipo di rappresentanza non si può arretrare, proprio ora, mentre le novità sono maggiori e più impegnative, verso un altro modo di guida politica, meno largamente compreso, meno legato alla coscienza popolare, meno rispondente alla realtà sociale. Quella di centro-sinistra viene perciò oggi confermata come la linea politica della Democrazia cristiana, che essa trae da sé medesima, dalla sua natura ed esperienza. Esprime, al di là dell'importante incontro con i partiti alleati, la tendenza della Democrazia cristiana a porsi in collegamento con le masse, ad assumerne seriamente la rappresentanza, ad assicurare ad esse un'effettiva influenza sul potere politico, ad esercitare il compito di guida del Paese nel senso di un'autentica liberazione di tutti gli oppressi. Nell'attuale contesto storico la vocazione popolare del Partito, principio del vasto consenso che ci è stato e che ci viene dato, trova dunque nella coalizione di centro-sinistra la sua estrinsecazione.
In questo quadro appare limpido il rapporto della Democrazia cristiana e, per quanto ci riguarda, della coalizione di Governo con le opposizioni tutte ed in ispecie con l'opposizione comunista. Il dialogo politico infatti non esclude nessuno anche se il modo di parlare con le forze di maggioranza, in termini di omogeneità e di comune responsabilità di Governo, è diverso da ogni altro ed assai più impegnativo. Quest'ultimo qualifica l'alleato, l'altro l'oppositore, il termine dialettico nella vita democratica. Che vi sia un siffatto collegamento, è espressione irriducibile del nostro sistema di libertà. Che i termini del confronto siano quelli della diversità e l'uno sia e resti maggioranza e governo, l'altro sia e resti opposizione, sta a dimostrare che il dialogo democratico non porta ad alcuna confusione. Per quanto riguarda il Partito comunista, la particolarità è nel fatto che si assume una diversa visione circa le regole del gioco democratico-parlamentare, alle quali quel partito non appare interamente riconducibile. Ed infatti non lo è. Per quanto esso, almeno nell'esperienza occidentale, faccia riferimento al sistema che liberamente raccoglie e fa valere il consenso, non si può ritenere che tutto in esso si riduca alla dialettica parlamentare e che le profonde innovazioni alle quali tende, non sempre chiaramente definite, possano costituire un momento, per sua natura reversibile, della determinazione di un certo assetto politico sociale. Non occorre una polemica di vivida contestazione, per riconoscere che siamo assai diversi e che i contenuti innovatori, da noi pure perseguiti, si inquadrano in una visione ben altrimenti stabile e significativa dei meccanismi parlamentari e del rispetto del suffragio universale.
L'atteggiamento dei partiti democratici nei confronti del Partito comunista viene talvolta legato all'evoluzione del comunismo mondiale ed in particolare di quello italiano in quanto distinto, per caratteristiche ed aspirazioni proprie, nell'ambito del suo sistema. In generale non possono essere disconosciuti la rottura del monolitismo del mondo comunista e quei fermenti di analisi critica e di differenziazione che una simile frattura insieme determina e rivela. Il fatto che, nell'ambito dei paesi socialisti, sia stata applicata, per correggere delle deviazioni, e forse con finalità più vaste, la legge del più forte e che, in altro caso, un dissenso ideologico ed un urto di interessi di potenza renda pensabile un conflitto armato non riconducibile alla logica del capitalismo, rende inevitabile un ripensamento promosso, d'altra parte, dallo spirito critico, dall'evoluzione sociale e politica, dal confronto con l'Occidente, dall'insufficienza intellettuale e morale di ogni dogmatismo e conformismo. Non può sottrarvisi il comunismo italiano, almeno in una certa misura, sotto la pressione di una realtà psicologica e politica che non si lascia ricondurre negli schemi. Il punto dominante resta quello appunto della autonomia nei confronti del sistema mondiale del comunismo e del suo centro più potente e prestigioso. Perché solo nell'autonomia è ipotizzabile che un umanesimo marxista, benché in strutture economiche, sociali e politiche dissimili, dalle nostre, possa trovare un modo d'attuazione appunto con lineamenti umani e perciò diverso da quello inaccettabile che ci è offerto dall'esperienza storica.
Ed infatti il Partito comunista italiano dice di volere un sistema pluralistico e libero, fatalmente diverso perciò dagli schemi conosciuti anche se esso più ne postuli l'esistenza, che non ne delinei in modo chiaro ed impegnativo la fisionomia.
L'autonomia è dunque essenziale, per tentare la grande impresa di definire un comunismo nuovo compatibile con un'economia industriale avanzata, una democrazia matura, una società viva ed aperta. Ed autonomia significa possibilità di considerare a sé, per quelli che sono, gli interessi nazionali e definire la politica interna ed estera dello Stato, al di fuori dell'intreccio con il dogmatismo del sistema comunista. Se il comunismo è universale, uniforme ed imperativo, non vi è posto per un'autonomia politica interna ed estera. I rapporti, anche distesi ed amichevoli, con l'Unione Sovietica ed i Paesi dell'Est non sarebbero una scelta, ma un obbligo e quest'obbligo avrebbe una sua severa sanzione. Queste cose non sono immaginate, ma esistono. Si tratta di vedere se possono cambiare; se basta una sola volontà, per quanto energica, ad assicurare una effettiva autonomia del proprio modo di concepire il comunismo, gli interessi nazionali, la politica estera, o se allo stato troppe condizioni di fatto concorrano a rendere una o più volontà ribelli espressione di una rivendicazione morale, di un sussulto della coscienza, ma purtroppo nella realtà storica impotenti.
Perché di questo si tratta; non solo d'intenzioni e di buona volontà, ma di concreta possibilità di affermare la propria autonomia. Non è tanto il fatto che si riaffermi l'internazionalismo proletario. Ciò è comprensibile. Ma è giustificata la fiducia che questo dato sia conciliabile con l'altro della effettiva autonomia? Basta non accettare alcuni paragrafi di un documento, per sottrarsi ad un vincolo, tendenzialmente limitativo, ma che è un dato troppo importante nella ideologia e nell'esperienza del comunismo?
Nell'ambito del sistema dei rapporti tra Paesi socialisti legati da patti di alleanza il vincolo prevale, è prevalso sulla autonomia.
Che ciò sia stato deplorato anche da parte comunista, non toglie, pur senza perdere il suo significato, che il fatto sia rimasto incancellabile. Possiamo pensare che, venendo meno per ipotesi l'alleanza e, rimanendo l'internazionalismo, una vera autonomia sia concepibile? Sembra difficile, allo stato delle cose, rispondere affermativamente. Insomma se è apprezzabile lo sforzo dei comunisti italiani, per affermare e sottolineare la propria autonomia, questa istanza può apparire velleitaria, se non evolva nel suo complesso l'intero sistema comunista ed il suo centro politico; se non venga posto in essere, non qua e là, ma nell'insieme del sistema, quel processo di revisione che renda immaginabili davvero vie nazionali al socialismo e posizioni distinte fuori di ogni pressione e minaccia.
La difficoltà di comprendere, in una esperienza complessa, contraddittoria ed in movimento come quella comunista, un movimento che può andare anche in opposte direzioni, il modello di società che caratterizzerebbe il nostro futuro, il dubbio circa la sua credibilità e realizzabilità, il timore, tutt'altro che immotivato, circa il modo egemonico di collaborazione che potrebbe confermare l'affermato pluralismo politico, il blocco storico così come il fronte, il diverso contesto internazionale nel quale ci collochiamo, anche per sottrarci al rischio di una sovranità comunque limitata e controllata, le profonde divergenze che ancora sussistono nella valutazione di tanti problemi della vita nazionale giustificano la impossibilità di una comune gestione del potere e di qualsiasi intesa che crei un equivoco in una situazione da chiarire. Sappiamo che vi sono modi di reagire al bisogno, all'ingiustizia, all'oppressione interna ed esterna, i quali sono talvolta somiglianti a dimostrazione di quel comune fondo umano, di quello sviluppo di civiltà, di quella ansia di libertà che caratterizza il nostro tempo. Sappiamo che milioni e milioni di lavoratori non possono non esercitare sul partito che hanno prescelto, nel contesto civile dell'Italia di oggi, una pressione, un'influenza non dissimili da quelle che esercitano su di noi vasti ceti sociali in larghissima parte discredati e risorgenti. Da qui l'interesse a conoscere valutazioni, esigenze e proposte; da qui una dialettica che non cessa di essere significativa, benché non ci sia la minima idea, da una parte e, credo, anche dall'altra, di discostarsi dalla condizione di diversità e di contrapposizione nella quale ci siamo trovati e ci troviamo non certo a caso.
Il rapporto con il Partito comunista è dunque solo un capitolo del grande libro, nel quale registriamo i dati che richiamano la nostra sensibilità e ci rendono pensosi, e le nostre meditate reazioni ai mutamenti in atto ed alle esigenze nuove di una società tutta in movimento.
Sta di fatto che non solo in quest'anno di vigorosa analisi critica, non solo nell'ambito della coalizione di centro-sinistra, ma da sempre, ed in ispecie dalla felice ripresa della vita democratica in Italia, noi democratici, cattolici e laici (ed è stata certo determinante la scelta della Democrazia cristiana), abbiamo deciso di accettare la dialettica democratica senza lasciare margini, senza operare esclusioni e di condurre la nostra lotta politica non in base alla logica degli altri, ma alla logica del nostro sistema. Noi crediamo fino in fondo nella libertà e riteniamo che nessuno stabile e fecondo assetto politico possa essere realizzato con un sistema, aperto o mascherato, di costrizione. In termini di libertà dunque deve svolgersi il nostro confronto con il Partito comunista. Ciò importa che, salva sempre la tutela delle istituzioni e della legalità democratica, ci si è collocati e ci si colloca di fronte al comunismo, avendo coscienza delle diversità e quindi in posizione critica e polemica, ma anche attenti alla presenza di quel partito nella vita sociale e politica, alle sue sensibilità e proposte, alla sua capacità di rappresentare effettivamente, anche se, a nostro avviso, in modo distorto, vasti settori del Paese.
E non è un'attenzione tutta recettiva, perché anche per questa via si promuovono responsabili decisioni, si eccita una risposta penetrante e persuasiva, si esalta l'autonomia dell'azione politica e di governo, la quale non ha affatto bisogno di essere espressione di disattenzione e contraddizione, ma deve essere sintesi intelligente di tutto quel che fermenta e tende ad affermarsi nella vita sociale e politica. Un tale atteggiamento del resto non è riservato al Partito comunista. No, esso riguarda tutto il sociale e tutto il politico. L'attenzione rivolta in ogni direzione non è una copertura ipocrita dell'interessamento portato al Partito comunista. Esso ha certo il peso della sua forza popolare; è un fatto storico di grandi dimensioni; è un'inquietante e problematica presenza nella vita nazionale ed internazionale. Ma il metro di giudizio non cambia. E la nostra accettazione non formale della dialettica politica vale per tutti e si estende ad ogni novità, ad ogni interrogativo, ad ogni sussulto della nostra società. Si evita così una rigida e opaca contrapposizione, una politica fatta di soli "no" drastici ed emotivi, per far posto ad una civile e, alla lunga, efficace iniziativa, fondata su di un'articolata e motivata differenziazione polemica. Tutto ciò è implicito, ho detto altrove, nella scelta degasperiana in favore di un regime di libertà difeso solo dalla libertà. L'evoluzione dei tempi ha dato più ricco contenuto di effettive proposte e di significative sensibilità alla dialettica democratica che abbiamo accettato tutta intera e senza paura. La presenza, nell'ordine legale della democrazia italiana, del Partito comunista nel Parlamento e nel Paese, è diventata mano a mano occasione di un confronto sempre vigoroso e polemico, ma più attento e significativo, teso alla soddisfazione di interessi popolari, non secondo una visione settaria e demagogica, ma piena di organicità e di verità. E' venuta avanti così l'idea della sfida, dell'impegno cioè, in una netta battaglia politica con un forte Partito comunista, a fare emergere e prevalere le idee migliori, la sensibilità più acuta, la politica più aperta, popolare ed umana, ma anche più responsabile e lungimirante. Non siamo qui per perdere, ma per vincere civilmente questa battaglia. Non ci sono in noi né sfiducia né debolezza. Il rispetto e l'attenzione non significano in nessun modo rinuncia al nostro compito.
E non si pensi che il Partito comunista eserciti, nel gioco democratico, una sua influenza, senza essere a sua volta influenzato; esprima cose significative, senza ricevere le cose significative che, nella loro sensibilità e funzione, la Democrazia cristiana e le forze di Governo a loro volta esprimono. Un gioco democratico serio contribuisce a ricondurre in limiti accettabili le tensioni del sistema sociale ed a garantire i giusti equilibri politici, dei quali proprio il confronto con le opposizioni comprova la validità e vitalità. E' un obiettivo che non è agevole raggiungere, poiché l'opposizione difficilmente si sottrae alla sua propria logica, ma che pure in qualche misura deve essere perseguito, quello di coinvolgere queste forze in assunzioni di responsabilità, impedendo che siano puro strumento di raccolta della protesta indiscriminata. E ciò in ispecie sui punti essenziali della salvaguardia del sistema democratico, delle scelte prioritarie del programma ed in ordine alle grandi riforme che traducano in atto la Costituzione repubblicana. Si tratta, come ho avuto occasione di dire, di un contesto unitario, il quale assume, proprio in questa sua natura d'insieme, al di là cioè di episodiche realizzazioni, il significato di un atteggiamento politico di fondo, di una risposta puntuale, implicita in un documento che è ancora tutto nuovo, alla tensione ed alle attese della società di oggi. Bisogna dunque adeguare leggi ed ordinamenti allo spirito libertario e pluralistico della Costituzione repubblicana; dalla difesa, sempre più vigorosa, dell'uomo con tutte le sue caratteristiche ed esigenze fino alla instaurazione degli istituti i quali diffondono e rendono effettivo il potere di tutti i cittadini.
E' in questa luce, soprattutto, che va collocata l'esperienza dell'ordinamento regionale come dell'autonomia dell'Università e della cultura. Questo è il precetto che la Costituzione, reinterpretata alla luce dei grandi mutamenti sociali e politici, ci dà. Vi sono tracciate le linee di evoluzione per una società nuova ed umana. E sono anche indicati i binari da seguire e i limiti che non possono essere sorpassati, perché non si sconfini nell'arbitrio, la libertà, perennemente creatrice, non sia travolta, la garanzia della vita democratica non venga mai meno. Possiamo dunque metterci al lavoro come si va facendo ed ancor più si dovrà fare. Su ciascuno di questi temi sarebbe irragionevole immaginare che manchi una seria linea della maggioranza di Governo; ma sarebbe ingiustificato escludere un contributo, e non già un'imposizione, di tutte le forze politiche, le quali si sono ritrovate nel definire e consacrare quel patto di libertà, di giustizia e di progresso, che tutt'ora ci regge e contiene la premessa di ogni serio perfezionamento e sviluppo. Se un equivoco c'è al fondo delle polemiche sul cosiddetto patto costituzionale, esso può e deve essere rapidamente chiarito. Il patto costituzionale esiste nella legge fondamentale dello Stato, d'incontestata validità, che pone la libertà garantita come strumento di rinnovamento e di giustizia. Rinnovare e rendere giustizia è un compito che si assolve nella dialettica democratica, ferme sempre le responsabilità di guida del Paese. Solo chi non crede in sé stesso, nell'autonomia, nella forza, nella serietà, nella sensibilità storica della Democrazia cristiana come della avanzata coalizione democratica alla quale concordemente si è dato vita, può pensare che questo confronto ci metta in crisi e sia il principio della dissoluzione delle strutture portanti della democrazia italiana. Evitato ogni equivoco, crediamo che questo atteggiamento intelligente, fiducioso, polemico, sia un segno apprezzabile di vitalità; che ad esso sia legata la permanente validità della nostra funzione storica, che non si fonda sulla timidezza e sulla chiusura difensiva, ma sul coraggio, sull'attacco, sulla iniziativa politica. E sia ben chiaro che ciò non significa recepire solo dalle forze sociali e politiche, ma, capendo tutto, esercitare la propria funzione di decisione e di sintesi. Quello che immaginiamo non è un qualunquismo pandemocratico (e quindi neppure un Governo di Assemblea), ma una aperta, motivata e rigorosa iniziativa per la giustizia, l'ordine e la guida nella vita nazionale.
La politica estera italiana corrisponde agli impulsi ed agli stati d'animo della nostra comunità nazionale, così come essa si viene configurando in questo tempo di evoluzione umana e sociale. Caratterizzano questa politica l'attenzione, la prudenza, la tensione ideale atte a salvaguardare i nostri fondamentali interessi d'indipendenza e di sicurezza ed il bene supremo della pace. E' quindi presente in essa in modo più accentuato che in passato una componente di rigore morale, quella ansiosa ricerca di dignità, di libertà, di uguaglianza, di concordia e di progresso che contrassegni il nostro contesto sociale. Da qui il rifiuto dell'oppressione nei popoli e tra i popoli, il grave disagio di fronte alla violenza dovunque e comunque esercitata, il riconoscimento di una società nazionale ed internazionale di eguali, il diritto all'autonomo sviluppo ed al progresso. Sulla soglia della politica internazionale non ci si arresta più con una sorta di rassegnato fatalismo come si fosse di fronte ad una dura necessità, ma ci s'impegna, pur con i doverosi accorgimenti della prudenza e del realismo, per fare, semplicemente, della legge morale un criterio di azione politica a tutti i livelli. I giovani soprattutto sono, su questo terreno, intransigenti. Essi non accettano compromessi nello sforzo di spingere innanzi, molto innanzi, la riduzione della politica a dimensioni umane. Si dischiudono così orizzonti che toccano l'intera comunità. Si tratta dell'organizzazione delle Nazioni Unite e dei Paesi in sviluppo, in ordine ai quali si rivela un interesse prima sconosciuto e si profila un nuovo modo, più profondo e responsabile, di affrontare i problemi della giustizia e dell'ordinato assetto del mondo. Si va svolgendo una seria iniziativa di comprensione e di pacificazione e si ravviva l'impegno rivolto ad eliminare i punti di tensione. E', un grande e paziente lavoro, anche se con frequenti battute di arresto e possibili ritorni. Esso è in corso, si tratti del Vietnam o del Medio Oriente, mentre pesano tuttora la conculcata sovranità cecoslovacca e la compromessa libertà di popoli occidentali a noi vicini ed amici. I fatti di Cecoslovacchia, per la loro rilevanza insieme ideologica e politica, hanno introdotto molte ombre in un quadro che tendeva a chiarirsi. L'affermato carattere interno della vicenda, contro ogni verità, ne sottolinea gli aspetti drammatici ed allontana una normalizzazione autentica, oggi ancora fuori prospettiva. Ciò malgrado non abbiamo voluto considerare questo un ostacolo insuperabile sulla via della distensione ed abbiamo cercato di proseguire il cammino, pensando che ciò avrebbe giovato al popolo cecoslovacco e non avrebbe comportato invece la ratifica della sua sudditanza. Lavoriamo quindi sulla base di un'ipotesi, malgrado tutto, abbastanza realistica di distensione, anche se non ci sfuggono i forti contrasti in atto e gli insoluti problemi del dopoguerra. La presenza cinese, se viene a contestare l'assetto bipolare del mondo ed a stabilire, insieme con le emergenti unità continentali, una varietà, nello schieramento internazionale, più rispondente al vero, introduce per altro un rilevante punto di frizione, destinato ad influenzare tutta la politica mondiale. Lo stesso trattato di non proliferazione atomica, con la prospettiva di un disarmo generale e bilanciato che vi è implicita, e in certo senso la condiziona, subisce l'ipoteca della tensione russo-cinese e più in generale della irriducibilità, allo stato delle cose, degli interessi da grande potenza e da centro ideologico della Cina entro gli schemi della distensione e dell'equilibrio internazionale così come abbiamo cominciato a concepirli.
Non è possibile dunque non intendere quali nuovi e gravi problemi ponga la tripolarità ormai in evidenza. Ad ogni modo a noi tocca fare la nostra parte ed affrontare con spirito costruttivo anche questa tensione senza dimenticare la realtà e le sue vicine e lontane implicazioni. Nel processo di distensione sono coinvolti i due blocchi politico-militari che si fronteggiano in Europa. Tale è infatti, malgrado la naturale prudenza, la politica che l'uno pratica di fronte all'altro, anche se esistono diffidenze e ragioni di allarme, anche se è difficile decifrare compiutamente la politica sovietica, perché dettata da gruppi dirigenti, ed acquisire la certezza di una conseguente ed irreversibile scelta distensiva. A questo sviluppo anche i singoli Paesi ed in ispecie la componente europea dell'Alleanza Atlantica possono dare un utile apporto, nella misura in cui esso non significhi dissociazione dalle comuni responsabilità. Tutto quello che abbiamo detto e tutto ciò che avviene stanno a dimostrare che, allo stato delle cose, i blocchi militari non hanno ancora perduto la loro ragion d'essere, come garanzia di equilibrio mondiale e strumento di una dignitosa ed efficace trattativa, la quale potrebbe essere compromessa più che favorita dalla dispersione delle forze. La condizione attuale innegabilmente sospinge più verso la distensione che verso la tensione. Va dunque sviluppandosi un processo, il cui successo, il più rapido possibile, dipende dalla intelligente comprensione delle cose e dalla buona volontà, il quale potrebbe far cadere man mano la diffidenza ed il timore dell'uso della forza. Finché esistono gravi punti di attrito e seri problemi mondiali tuttora aperti, finché la fiducia, oggettivamente fondata, non abbia prevalso, permarranno come male minore i blocchi militari. Ma non vi è dubbio che la distensione tende a superarli e che non è immaginabile, allo stato della nostra cultura e del nostro sviluppo morale, che la pace del mondo possa essere per sempre affidata all'equilibrio del terrore e al bilanciamento delle potenze in campo.
Si deve quindi lavorare per la giusta soluzione dei problemi mondiali, per un disarmo garantito che ne è piuttosto la conseguenza che la premessa, per una reciproca fiducia la quale renda inimmaginabile l'uso della forza. Mirare a questi obiettivi significa operare per il superamento dei blocchi militari, per la loro contemporanea ed equilibrata dissoluzione. Questa è una politica difficile, ma realistica, che, con la necessaria prudenza, ma anche con slancio e fiducia, possiamo e dobbiamo praticare. Ogni anticipazione unilaterale sarebbe però del tutto ingiustificata. Che l'Italia esca, essa sola, dall'Alleanza Atlantica e dalla Nato, avrebbe il significato di una revisione e di una rivalsa. Alterando l'equilibrio militare e soprattutto politico, un evento come questo, oltre ad esporre pericolosamente il nostro Paese, rallenterebbe ed inficerebbe il processo distensivo. Noi vediamo dunque la situazione in modo globale. Essa è in movimento per l'accresciuto contatto tra Oriente ed Occidente. Ma non è tale da giustificare, nel suo insieme ed in particolare per noi, un radicale mutamento.
Sussistono ancora insomma le ragioni di sicurezza e di corretto rapporto politico, le quali ci condussero a far parte dell'Alleanza Atlantica. Essa è tuttora per noi un importante nucleo di solidarietà irrinunciabile, un contesto di preziose amicizie in campo internazionale, un mezzo per dare un vasto respiro, ed anche un respiro mondiale, alla nostra politica. L'essere nell'Alleanza non ci esime del resto dal lavorare per la pace e per un più umano e stabile assetto dei rapporti tra i popoli, anzi c'impegna a fare dell'Alleanza, e di noi nell'Alleanza, un mezzo di comprensione e di intesa con una varia iniziativa che, senza essere mai dettata da ragioni di dispetto e di contraddizione, abbia una sua autonomia ed una portata che lo svolgersi degli eventi configura rilevante. Un momento di questo sviluppo è la ventilata conferenza europea. Essa è certamente auspicabile e perseguibile, senza dissimularne le difficoltà, perché essa coinvolge la sorte della Germania e l'equilibrio Stati Uniti-URSS il quale in larga misura si verifica in Europa; ma è toccata ancora dagli sviluppi della politica asiatica nel lungo confine Unione Sovietica-Cina, perché essa condiziona l'approccio America-Russia, e dà la misura della possibile e vera autonomia di un'Europa largamente unita.
In ordine alle cose sulle quali noi abbiamo un'influenza, certamente limitata, ma effettiva, nostro fondamentale dovere è puntare su di un'Europa Unita, consolidata nelle attuali strutture, allargata ai Paesi già pronti all'adesione, avendo presenti i traguardi più ambiziosi della sovranazionalità e di più intensi rapporti intereuropei. Tutto ciò nella consapevolezza dell'alto valore che una unitaria realtà europea è destinata ad assumere, dell'influenza che può esercitare, dell'equilibrio mondiale che può concorrere a stabilire, della distensione che può promuovere e favorire.
E' possibile che ora gli ostacoli siano meno gravi, anche se sarebbe illusorio immaginare che sia spianata la strada per il cammino unitario. Stanno forse maturando i tempi per una sorta di costituente politica dell'Europa. E' certo che l'obiettivo è nobile e urgente. L'Europa Unita è nelle cose; una necessità ed un dovere insieme. Essa darà al mondo una voce nuova ed ascoltata; ci farà protagonisti di uno sviluppo di equilibrio e di pace; offrirà, oltretutto, la garanzia che il grande negoziato distensivo, che non cessiamo di auspicare, non si compia senza di noi e perciò contro di noi.
A fare da sfondo a queste prospettive politiche, c'è la nuova società italiana; una società già grandemente mutata, ma ancora impegnata in un rapido processo di evoluzione. Essa ha risolto alcuni problemi essenziali, ma ne vede emergere ogni giorno di nuovi in relazione a più complesse esigenze; ha raggiunto importanti traguardi sociali e politici, ma registra ad un punto la rottura del vecchio equilibrio e l'emergere in modo acuto della necessità che se ne stabilisca uno diverso ed a più alto livello. Un tumulto di rivendicazioni e di aspirazioni insoddisfatte la scuote nel profondo. Questa è dunque la nostra difficile condizione di oggi. Ci troviamo a fronteggiare una società più mossa ed esigente che non sia mai stata nel corso di questi anni. L'iniziativa politica deve tenerne conto. Più ristretto poi è lo spazio nel quale essa si esplica; più difficile il suo svolgimento; più incerto il suo risultato; maggiore la carica di intelligenza e di distacco della quale essa deve essere fornita, per non fallire alla prova dei fatti. La società italiana è in movimento e conta più largamente che in passato sulle proprie forze. Essa coglie ed analizza criticamente i suoi problemi. Rivendica la sua autonomia e, in essa, la capacità di trovare in sé stessa, il più largamente possibile, la sua guida. Si riconosce in centri propri di proposta ed anche di decisione. Deferisce meno al potere politico le sue scelte, e, quando accetta di delegarle ad organi rappresentativi, sottopone l'autorità ad un più rigoroso e continuo controllo. Esige di partecipare, non una volta tanto, ma dal principio alla fine, ad ogni deliberazione, che essa prepara e condiziona con autonomi atteggiamenti. Essa invoca la coerente applicazione di una legge morale, non contorta e deformata dal compromesso, ma tale da esaltare veramente la libertà e la dignità e da rendere possibile ed anzi inevitabile una svolta storica verso una società di eguali, una autentica ed universale democrazia. Ed il potere politico è appunto trasfigurato in un'autentica democrazia che restituisce alla società molte delle sue prerogative e si misura con essa in un confronto quotidiano ed impegnativo. Il potere si legittima davvero e solo per il continuo contatto con la sua radice umana e si pone con un limite invalicabile, le forze sociali che contano per se stesse, il crescere dei centri di decisione, il pluralismo che esprime la molteplicità irriducibile delle libere forme, di vita comunitaria. I giovani ed i lavoratori conducono questo movimento e sono primi a voler fermamente un mutamento delle strutture politiche ed un rispettoso distacco.
I giovani chiedono un vero ordine nuovo, una vita sociale che non soffochi, ma offra liberi spazi, una prospettiva politica non conservatrice o meramente stabilizzatrice, la lievitazione di valori umani. Una tale società non può essere creata senza l'attiva presenza, in una posizione veramente influente, di coloro per i quali il passato, è passato e che sono completamente aperti verso l'avvenire. La richiesta d'innovazione comporta naturalmente la richiesta di partecipazione. Essa è rivolta agli altri, ma anche e soprattutto a sé stessi.
Non è solo una rivendicazione, ma anche un dovere ed un'assunzione di responsabilità. L'immissione della linfa vitale dell'entusiasmo, dell'impegno, del rifiuto dell'esistente proprio dei giovani nella società, nei partiti, nello Stato è una necessità vitale, condizione dell'equilibrio e della pace sociale nei termini nuovi ed aperti nei quali in una fase evolutiva essi possono essere concepiti. I lavoratori, e naturalmente innanzitutto i giovani lavoratori, escono finalmente dalle zone d'ombra, dai settori marginali nei quali, senza adeguato potere, erano o si sentivano ingiustamente ricacciati. Al di là della tecnica del sistema economico adottato, essi chiedono che le scelte decisive siano fatte in sede responsabile e nell'interesse generale e che essi vi partecipino, in condizione di dignità e sicurezza, nella fabbrica, nel sindacato, nella programmazione, nei partiti, e nello Stato. Non accettano di essere solo parte di un meccanismo, anello di una catena, ma vogliono erigersi a consapevoli protagonisti del processo che crea la ricchezza, la distribuisce, la finalizza verso obiettivi umani. Ed essi, pur nella loro operosità, si sentono non il mezzo, ma il fine.
Una società così viva non può che essere una società in sviluppo. Essa non è certo paga della sua opulenza ed ha quindi tutti aperti i problemi della degna condizione umana, della partecipazione al potere, dell'appagamento dello spirito, del primato della persona sull'efficienza del sistema e sui lucidi e ben rodati meccanismi sociali. Essa non è rassegnata certo alle troppe sperequazioni, all'interno ed all'esterno del suo sistema, le quali rendono, perciò solo, la ricchezza intollerabile ed offensiva. Ma è certo una società nella quale l'iniziativa economica deve svilupparsi adeguatamente come premessa di progresso civile ed occasione per porre e risolvere grandi problemi umani.
Nella nostra epoca, in presenza di questi stati d'animo e movimenti d'opinione, l'iniziativa economica deve essere rigorosamente inquadrata nella programmazione per ragioni anche tecniche, ma soprattutto sociali e politiche. Ciò comporta la previsione e promozione dello sviluppo, l'indicazione delle politiche da adottare e dei comportamenti da tenere, la mobilitazione di tutte le energie del Paese per precise finalità economiche e civili, una generale assunzione di responsabilità, la giusta subordinazione degli interessi di parte al generale interesse della collettività nazionale, una vasta partecipazione delle forze sociali alla formulazione del piano, la verifica della sua validità a livello locale e soprattutto della Regione. In tal modo l'elevazione della libertà creativa ad atto di responsabilità sociale, che investe tutti i protagonisti della vita economica, ed alla quale non può essere indifferente neppure il sindacato nel suo determinante potere di autorità salariale e di forza sociale e politica di eccezionale rilievo, garantisce l'attuazione dei molteplici obiettivi di giustizia nello sviluppo che il piano si propone ed in prima linea il riscatto del Mezzogiorno amareggiato e depresso e dell'inquieto mondo rurale da una inammissibile condizione di inferiorità. Proprio nell'ambito della programmazione è possibile riconoscere, anche alla luce della norma costituzionale, la naturale varietà della vita sociale ed il pluralismo della iniziativa economica, nella quale settore privato e settore pubblico assolvono entrambi ad una importante funzione e sono tutti riconducibili, per potere e dovere dello Stato, all'interesse generale. Il bene comune può e deve prevalere, in una seria programmazione, senza ricorrere ad un livellamento mortificante, il quale farebbe perdere all'economia lo slancio operoso e la ricchezza inventiva proprie di una molteplice iniziativa, guidata però sempre verso finalità pubbliche.
In questo quadro, avendo di mira gli interessi della comunità, utilizzando senza debolezze tutti gli strumenti utili al fine proposto, sostituendo agli obiettivi di mero profitto, la efficienza, la razionalità e la responsabilità, può svolgersi una politica di sviluppo e di giustizia, può articolarsi efficacemente la parte
 
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