Processo Moro Quinquies - I grado

03. Motivi della decisione

Documento aggiornato al 15/04/2005
In questo dibattimento le parti non hanno ritenuto necessario fornire nel dettaglio le prove in ordine alle modalità dell'omicidio del giudice Riccardo Palma, ucciso sotto la sua abitazione la mattina del 14 febbraio 1978 da un gruppo di appartenenti alle Brigate Rosse. Il fatto era già stato oggetto di altri processi, fra cui quello trattato davanti alla prima Corte d'Assise di Roma nei confronti di Marcello Capuano ed altri, definito con sentenza in data 10 dicembre 1994 con cui era stata accertata, fra l'altro la responsabilità di Alvaro Lojacono, uno dei sei brigatisti che facevano parte del settore romano della "Contro", e cioè la formazione dedita alle inchieste ed agli attentati contro appartenenti alla magistratura, alla polizia ed ai carabinieri e che aveva quindi svolto anche l'inchiesta sul giudice Palma, pervenendo alla conclusione che la sua punizione sarebbe stata esemplare essendo egli addetto, nel Ministero di Grazia e Giustizia, all'ufficio per l'edilizia penitenziaria, strumento non solo simbolico della repressione statale.
Poiché con tale sentenza tutti i responsabili dell'omicidio Palma risultavano identificati, ad eccezione di una sesta persona rimasta sconosciuta, pur essendosene individuato il ruolo disimpegnato nella vicenda, le indagini erano proseguite per dare un nome a colui che, secondo le risultanze già acquisite, nella progettazione dell'attentato avrebbe dovuto materialmente sparare sulla vittima ma che, essendo stato colto da un attimo di incertezza, era stato soppiantato sul posto da Prospero Gallinari che, sempre secondo l'originario progetto, aveva il compito di "copertura ravvicinata" ed era infatti immediatamente subentrato al primo, facendo fuoco sul giudice Palma.
Raimondo Etro, già noto in altro processo come il prestanome del covo di Via dei Savorelli a cui avevano fatto capo il Morucci e la Faranda, era stato individuato come il sesto uomo dell'omicidio Palma perché, mentre egli era all'estero, il Morucci aveva affermato senza spenderne il nome che quel "sesto uomo" era il prestanome del covo di Via dei Savorelli. Costituitosi in quanto ricercato, ha reso ampia confessione di questo delitto, confermando il quadro probatorio che era stato disegnato nei processi precedenti e lo specifico ruolo che era stato a lui attribuito. Tale confessione, resa quindi fin dalla fase delle indagini preliminari e preannunziata all'inizio di questo dibattimento dal difensore, trova positivo riscontro anche nell'accertata appartenenza dell'Etro all'organizzazione terroristica delle Brigate Rosse (sentenza irrevocabile della Corte d'Assise di Roma del 25 novembre 1986), anche se deve essere precisato che prima di questo dibattimento l'Etro si era limitato ad ammettere la sua partecipazione criminosa limitatamente al periodo successivo alla cosiddetta "campagna di primavera" che aveva segnato il culmine della violenza terroristica, verosimilmente proprio per escludere le sue responsabilità nei fatti di sangue del febbraio e marzo del 1978. Tale limitazione é ora venuta meno, e le attuali più ampie ammissioni devono essere ritenute pienamente attendibili, sia per le numerose circostanze di dettaglio da lui stesso riferite, sia per il riscontro rappresentato dalle dichiarazioni del Morucci e soprattutto dalla chiamata in correità della Faranda, di cui é già stata provata giudiziariamente la corresponsabilità nello stesso delitto.
Analogamente, le parti non hanno ritenuto necessario rinnovare l'analitica dimostrazione delle modalità con cui, la mattina del 16 marzo 1978, dieci componenti delle Brigate Rosse assaltarono le autovetture che trasportavano l'on. Moro e la scorta in Via Fani, sequestrando il primo ed uccidendo tutti gli altri. Il Pubblico Ministero si é limitato, infatti, ad acquisire le testimonianze di tre testimoni oculari che però, a causa della confusione e la concitazione del momento oltre che per effetto del lungo tempo trascorso fino ad oggi, hanno avuto il semplice valore dell'insieme di una serie di colpi d'occhio, utili soltanto a fissare singoli e non sempre significativi dettagli. Sul piano oggettivo della prova generica, però, il Pubblico Ministero ha prodotto la documentazione dei rilievi compiuti nell'immediatezza dei fatti dalla polizia, le relazioni peritali medico-legali e balistiche nonché la consulenza del dottor Enrico Ronchetti, concernente le necroscopie delle cinque vittime di Via Fani, che rappresentano le basi probatorie fondamentali del gravissimo fatto. In questa sede, del resto, non occorre una verifica più dettagliata, anche perché la stessa tesi accusatoria dà per pacifico che né l'Etro né il Maccari parteciparono materialmente all'assalto di Via Fani ma vi concorsero solo moralmente.
Inoltre, va tenuto presente l'apporto fornito in questo processo dalla Balzerani con gli interrogatori resi al Pubblico Ministero ed acquisiti a norma dell'art. 513 c.p.p. e dal Morucci con la memoria prodotta all'udienza del 4 luglio 1996 dalla difesa del Maccari (memoria richiamata e confermata più volte dal Morucci negli interrogatori resi al Pubblico Ministero e qui acquisiti come quelli della Faranda): si tratta di un complesso di informazioni molto particolareggiate, promananti da soggetti che parteciparono personalmente all'episodio e quindi in condizione di riferirne attendibilmente, anche se debbono formularsi riserve su tale attendibilità dato che essi hanno esplicitamente avvertito di essere mossi dallo specifico intento di dimostrare che le Brigate Rosse operarono nel sequestro e nell'uccisione dell'on. Moro in assoluta indipendenza ed autonomia da ogni infiltrazione o suggestione esterna.
Poiché in questa sede si tratta di giudicare le responsabilità penali (e quindi personali) dell'Etro e del Maccari, e non di ricostruire la vicenda nel suo complesso, le preoccupazioni espresse dalla Balzerani e dal Morucci al fine di escludere l'ipotesi che oltre i dieci brigatisti da loro indicati anche altre persone possano aver partecipato a quell'attentato non hanno qui un peso, di rilievo, tanto più che dalle loro dichiarazioni non sono emersi elementi atti a far dubitare che per il raggiungimento dell'obiettivo di dimostrare la loro tesi la Balzerani ed il Morucci abbiano alterato la verità per ciò che specificamente concerneva i ruoli svolti dai soggetti che sono stati individuato nell'Etro e nel Maccari.
Il Morucci, per la verità, negli interrogatori resi al Pubblico Ministero si é mostrato propenso ad escludere che l'Etro avesse compiuto inchieste in preparazione della cosiddetta l'operazione Moro", ed ha ammesso soltanto che egli potrebbe aver partecipato al furto di qualcuna delle autovetture che furono poi impiegate o che avrebbero potuto essere impiegate in quell'operazione. Egli ha però confermato che in quel periodo l'Etro era un militante irregolare delle Brigate Rosse e che, oltre ad aver fatto da prestanome per il "covo" di Via dei Savorelli, destinato ad uso della Faranda e dello stesso Morucci, aveva fatto parte della brigata Nord (o di Primavalle) e poi del Fronte della Contro, che si occupava precipuamente delle inchieste e degli attentati contro personalità politiche, ed ha infine ammesso sia pur cripticamente che l'Etro poteva aver "potuto raccogliere alcune delle armi lunghe utilizzate in Via Fani immediatamente dopo l'azione" (fl.282, fasc. 2, cont. N. 2).
Ma l'Etro, nella sua confessione, non ha dichiarato di essere stato incaricato delle inchieste sull'on. Moro dal Morucci, ma bensì dal Gallinari, unicamente al Casimirri ed alla Algranati. Pertanto la propensione del Morucci ad escludere l'Etro da tali inchieste si spiega con l'ipotesi che il Morucci non ne fosse semplicemente al corrente e non contraddice perciò a quanto affermato dall'Etro. Per il resto, la concordanza fra le ammissioni dell'Etro e le dichiarazioni del Morucci é pienamente lineare. Ancora più esplicite nel senso della confessione dell'Etro sono le dichiarazioni della Faranda, che indica l'Etro come istituzionalmente preposto - al pari degli altri componenti della "Contro" allo svolgimento di inchieste nei confronti di personalità politiche (fl. 71, fasc. 4, cont. N.3).
Alla luce di queste considerazioni, e soprattutto poiché non vi sono elementi per dubitare della sincerità della confessione dell'Etro che é coerente, lineare e particolareggiata, si deve ritenere pienamente provato che l' Etro collaborò all'inchiesta per l'esecuzione del sequestro dell'on. Moro, cosi ben rendendosi conto della protezione armata apprestatagli dalla scorta e quindi della ineluttabilità di un conflitto a fuoco in occasione del sequestro, e quindi della estrema probabilità che in tale occasione vi fossero molte vittime; collaborò alla realizzazione dei furti di autovetture nell'immediatezza dell'operazione e quindi con la consapevolezza di collaborare anche in questo modo all'operazione stessa; opero a stretto contatto con il Casimirri, che due giorni prima del fatto lo preavverti dell'operazione che avrebbe avuto luogo e lo incaricò, successivamente, della custodia di una parte delle armi che erano state adoperate nell'operazione. Nella consapevolezza di tutto ciò da parte dell'Etro, si deve concludere che l'uccisione dell'on. Moro con cui l'operazione si concluse era necessariamente prevedibile e va quindi imputata e rimproverata all'Etro a titolo di dolo eventuale, anche se egli non ebbe mai occasione di vedere dopo il sequestro l'on. Moro né conobbe il luogo in cui il sequestrato era stato custodito.
Non si può dubitare, perciò, della piena responsabilità dell'Etro sia in relazione all'omicidio del giudice Palma, sia in relazione all'omicidio degli uomini della scorta dell'on. Moro, necessariamente strumentale al sequestro dell'importante uomo politico, sia infine al sequestro ed al successivo omicidio dello stesso on. Moro.
Avuto riguardo alla cronologia dei fatti e soprattutto all'unitarietà del fine terroristico ed eversivo che li ha ispirati, é doveroso riconoscere l'unicità del disegno criminoso che collegò tutti i delitti ascritti all'Etro. Da qui la applicabilità in suo favore della disposizione dell'art. 81 C.P.
Quanto alla qualificazione giuridica dei singoli delitti, nulla é da osservare relativamente alla formulazione delle imputazioni di cui ai capi A) e B) , e cioè agli omicidi commessi in danno del giudice Palma e dei pubblici ufficiali che costituivano la, scorta dell'on. Moro: ricorrono pacificamente in tali omicidi tutte le aggravanti contestate; in particolare, l'aggravante dell'art. 112 n.1 C.P., la cui ricorrenza osta altresì alla configurabilità dell'attenuante della minima partecipazione di cui all'art. 114 C.P..
Occorre, invece, procedere - a norma dell'art. 521,. comma 1, c.p.p. - alla rettifica ed unificazione delle imputazioni di cui ai capi C) e D), relative al sequestro ed all'omicidio aggravato dell'on. Moro, dovendosi ritenere che, in seguito all'emanazione del decreto-legge 21 marzo 1978, n.59, ed ancor più chiaramente dopo la legge di conversione di tale decreto (legge 18 maggio 1978, n.191), il legislatore abbia voluto dar vita ad una unica figura di reato complesso, in cui la morte del sequestrato assume il rilievo di circostanza aggravante quando. sia un evento non voluto dal reo, e un elemento costitutivo quando sia stata intenzionalmente cagionata dal sequestrante, come nel caso in esame.
Poiché il sequestro di persona é comunque uno degli elementi costitutivi del reato che lo qualifica come reato permanente, il fatto che la norma incriminatrice sia stata emanata dopo il 16 marzo 1978 ma sempre durante il sequestro non osta alla applicabilità della stessa alla fattispecie in esame, poiché la condotta criminosa dei sequestratori si é protratta nel tempo anche dopo l'emanazione della nuova normativa. Precetto e sanzione erano già contenuti nella disposizione dell'art. 2 del decreto, ancorché riferiti promiscuamente al sequestro di persona per finalità di terrorismo ed al sequestro di persona a scopo di estorsione, mentre la legge di conversione - da ritenere più favorevole di quella da convertire per aver operato la distinzione fra il caso della morte intenzionalmente provocata dal reo e quello della morte comunque verificatasi - é destinata ad operare anche retroattivamente non avendo carattere innovativo (Cass. sez. II- 14 marzo 1984, Germani).
Pacifico essendo che le Brigate- Rosse, e con esse l'Etro, abbiano voluto procedere al sequestro dell'on. Moro ed alla sua successiva uccisione per finalità di terrorismo e di evasione dell'ordine democratico, cosi come inteso dai poteri costituiti, non può esservi dubbio circa la sussistenza del delitto previsto dall'art. 289 bis C.P.- Il fatto, inoltre, che i dirigenti dell'organizzazione criminosa, prima di procedere all'omicidio, abbiano pubblicamente prospettato l'eventualità della liberazione del sequestrato, introduce un elemento di dubbio in ordine alla concorrente configurabilità anche del sequestro di persona a fini di estorsione, dato che il rilascio dell'on. Moro veniva ipotizzato come contropartita del rilascio, da parte dello Stato, di persone detenute sotto l'imputazione di appartenenza alle Brigate Rosse. Ma tale eventualità, e cioè il concorso dei delitti di cui agli artt. 289 bis e 630 C.P., non muterebbe comunque effetti in ordine alla individuazione della sanzione applicabile, e cioè l'ergastolo. Ma, alla stregua delle prove raccolte in questo processo, si deve concludere che in ordine alla prospettiva dello scambio dell'on. Moro con i detenuti, nulla di serio é stato dimostrato circa le ventilate trattative fra lo Stato e le Brigate Rosse. Conseguentemente, la Corte deve ritenere raggiunta la prova solo in relazione al delitto di cui all'art. 289 bis C.P.. Quanto alle aggravanti, non é in discussione né che i concorrenti nel delitto furono più di cinque, né che l'on. Moro rivestiva la qualità di parlamentare della Repubblica.
Dovendosi ora procedere all'individuazione della più grave fra le violazioni ascritte all'Etro, ai fini dell'applicazione dell'art. 81 C.P., la Corte non può che individuarla nell'art. 289 bis C.P., poiché é tale norma che stabilisce la pena dell'ergastolo edittalmente e non quale effetto dì determinate circostanze. Se anche, cioè, i delitti di omicidio di cui ai capi A) e B) comportano la pena perpetua, si deve considerare che in tali casi il concorso di circostanze attenuanti , a norma dell'art. 69 C.P. può totalmente eliminare gli effetti delle aggravanti che comporterebbero la pena dell'ergastolo, mentre ciò non può verificarsi allo stesso modo nel delitto di cui all'art. 289 bis C.P., ostandovi la disposizione del quinto comma dello stesso articolo.
Poiché l'individuazione della violazione più grave, secondo la più recente interpretazione dell'art. 81 C.P., deve essere operata con criteri formali in ossequio al principio di legalità, non può la Corte condividere la tesi del difensore dell'Etro, secondo cui la violazione più grave dovrebbe essere individuata - con indagine discrezionale in punto di fatto - nell'omicidio del giudice Palma in quanto rappresentò allora il primo omicidio dell'Etro; né- si può condividere la tesi del Pubblico Ministero, secondo cui tale violazione sarebbe quella in cui l'Etro sarebbe stato coinvolto in maggior grado, sia dal punto di vista psicologico sia da quello causale.
Ne consegue che la pena base, insuscettibile per sua natura di graduazione a norma dell'art. 132 C.P., é semplicemente quella dell'ergastolo.
Tuttavia, pur non potendo pervenire nella quantificazione della pena alla misura proposta dal Pubblico Ministero, la Corte ritiene l'Etro pienamente meritevole della concessione delle attenuanti generiche. Egli, infatti, ha tenuto in tutto il procedimento una condotta improntata alla massima collaborazione, confessando fin dalla fase delle indagini preliminari tutti i fatti a lui ascritti e dando altresì la sua collaborazione per l'accertamento della responsabilità dei suoi favoreggiatori, dando cosi convincente dimostrazione del suo pieno sradicamento dall'area del crimine. Tale condotta, fra l'altro, ove non fosse stato di ostacolo il titolo delle imputazioni, avrebbe potuto fargli conseguire i benefici conseguenti all'adozione del rito abbreviato. L'Etro, inoltre, in relazione al fatto più grave ascrittogli, ed in particolare all'omicidio dell'on. Moro, ha dato un contributo psicologico e causale veramente marginale
rispetto a quello fornito dai brigatisti che operarono armati in Via Fani e a quelli che, durante il sequestro, custodirono materialmente l'ostaggio vivendo con lui la mortificazione della reclusione in una cella dalle dimensioni minime e che alla fine di tale mortificazione freddamente lo uccisero. Tutta questa parte dell'attività criminosa, pur vedendolo consenziente, lo vide praticamente inattivo. Perfino nell'esecuzione del giudice Palma l'Etro ha dimostrato una ben scarsa capacità criminosa, come si desume dal fatto che egli non riuscì a trovare la determinazione a sparare, malgrado la preventiva intesa sul punto fra lui e i suoi complici. A quel tempo, del resto, egli era molto giovane, non avendo ancora compiuto i venti anni e si può quindi ritenere che abbia aderito alle Brigate Rosse ed ai programmi criminali di quella banda armata sotto l'influenza di personalità più forti della sua.
Pertanto, dovendosi tener fermo l'automatismo dettato dalla norma dell'art. 289 bis, comma 5, C. P. , in luogo dell'ergastolo deve all'Etro essere applicata la pena di anni ventiquattro di reclusione. A tale pena, a titolo di continuazione, va apportato l'aumento di pena per i delitti di cui ai capi A) e B), che in via clemenziale può essere contenuto nel simbolico aumento di mesi sei di reclusione.
La pena complessiva é quindi quella di anni ventiquattro e mesi sei di reclusione, alla quale conseguono le pene accessori e previste per legge, nonché le statuizioni relative alle spese processuali e di custodia cautelare e la pronuncia sulle domande proposte dalle singole parti civili, che vanno accolte come da dispositivo.
Passando ad esaminare la posizione del Maccari, deve considerarsi quanto segue.
Già prima della sua incriminazione, da dichiarazioni rese in varie sedi dal Moretti, dalla Braghetti e dal Morucci, era emerso un profilo molto concreto della persona che, in considerazione del suo passato politico e delle sue doti personali, era stata prescelta su indicazione dei responsabili della colonna romana delle Brigate Rosse per svolgere nella sede di Via Montalcini il ruolo manifesto di "marito" della Braghetti. Tale personaggio, infatti, con il falso nome di Luigi Altobelli,
Essendo invece ovvio che l'ubicazione della base di Via Montalcini era nota anche al Seghetti (cosa Morucci, fl.245, fasc.2, N.2), che aveva coadiuvato la Braghetti nell'acquisto dell'appartamento, e necessariamente anche al Bonisoli che, in caso di impossibilità per il Moretti di condurre a termine l'operazione Moro, era predisposto a sostituirlo nelle sue incombenze in Via Montalcini essendo anche lui componente del Comitato Esecutivo delle Brigate Rosse, l'insistenza del Maccari é anche per questo verso sospetta.
A parte ciò, la confessione del Maccari non é tale da acquisirgli dei meriti in questo processo, perché oltre che tardiva, come si é visto, é apparsa ed é interessata e parziale. Soltanto attraverso la confessione, infatti, egli ha potuto attuare il tentativo di attenuare i profili di responsabilità che - attendibilmente perché disinteressatamente - erano stati attribuiti all'Altobelli (quando ancora non ne era prevedibile l'identificazione col Maccari) dalla Braghetti e dal Morucci. All'Altobelli, infatti, la Braghetti aveva attribuito il fatto, personalmente constatato, di aver collaborato materialmente al trasporto dell'on. Moro, chiuso nella cassa di legno che lo stesso Altobelli aveva acquistata, dal garage della Standa sito in Via dei Colli Portuensi fino al box di Via Montalcini servendosi per tale trasporto dell'auto della Braghetti. Non essendovi motivo di dubitare della veridicità di tale inequivocabile affermazione (" vidi arrivare la AMI 8 condotta dall'Altobelli ... ", fl.176, fasc. 2, cont. N.2), inserita nel contesto di una più ampia descrizione autobiografica della mattina del 16 marzo 1978, la Corte ritiene di doverle attribuire maggior credito di quella del Moretti, resa in un contesto extraprocessuale (fl. 27, fasc.1, cont. N. 1), anche perché perfettamente consonante con la versione del Morucci. Questi, infatti, avendo escluso la presenza sua e del Seghetti all'atto del trasbordo della cassa nel garage della Standa e avendo affermato che il Gallinari da Via Stresa si era recato direttamente in Via Montalcini, ha rappresentato la situazione di fatto nella quale il Moretti necessitava della collaborazione di un altro uomo (mem.,pag.38). E' quindi da qualificare inattendibile perché interessata la versione del Maccari, il quale tuttavia ammette di essere stato l'artefice dell'acquisizione della cassa in vista del sequestro, ed ammette anche di aver aiutato il Moretti a trasportare la cassa con l'on. Moro dal box all'appartamento in cui egli stesso aveva realizzato la "prigione del popolo".
Tale elemento di fatto (il trasporto da Via dei Colli Portuensi a Via Montalcini), a giudizio della Corte é assai importante perché denota il ruolo particolarmente incisivo del Maccari nell'azione del 16 marzo 1978. Egli, infatti, se ha potuto trovarsi al momento giusto e con il mezzo appropriato nel garage della Standa per ricevere il sequestrato, doveva necessariamente essere stato con congruo anticipo inserito nell'organigramma che prevedeva in quella mattinata il sequestro in Via Fani e l'inevitabile sparatoria indispensabile per sottrarre l'importante personaggio alla sua scorta. Da ciò consegue l'ineluttabilità dello stretto inserimento del Maccari in quell'operazione e quindi il suo concorso nei delitti commessi in Via Fani: a titolo di dolo diretto per ciò che riguarda il sequestro dell'on. Moro (indipendentemente dal fatto che il Maccari sapesse che il sequestrando fosse l'on. Moro o altra personalità democristiana di rilievo, ex art. 82 C.P.), e a titolo di dolo eventuale per gli omicidi ivi commessi. La soppressione della scorta, infatti, nemmeno alla stregua delle esperienze di allora poteva essere considerata un fatto imprevedibile, dovendosi fra l'altro ricordare che nella stessa storia delle Brigate Rosse già si era verificata la soppressione della scorta del giudice Coco, ed essendo ormai il fenomeno delle scorte più che notorio.
Con la sua confessione, inoltre, il Maccari ha inteso correggere la versione ormai invalsa sulle modalità esecutive dell'uccisione dell'on Moro. La Faranda e il Moretti, infatti, hanno ripetutamente dichiarato chi il giorno prima dell'esecuzione il Moretti, non essendosi offerto nessun altro militante, si era assunto tale incarico. La Faranda ha anche aggiunto che, in conformità dell'operare corrente delle Brigate Rosse, nella predisposizione dei particolari era anche stato stabilito che nella circostanza il ruolo "di copertura ravvicinata" sarebbe stato disimpegnato dal militante "irregolare" che avrebbe poi anche accompagnato il Moretti nel trasporto del cadavere nel luogo in cui sarebbe stato abbandonato. Ciò al fine di non esporre il Gallinari che era -ben conosciuto per esserne stata diffusa l'immagine dalla stampa dopo la sua recente evasione. Ad integrazione di quanto oggetto di testimonianza diretta, la Faranda aveva anche riferito di aver appreso poi dal Morucci, ciò sostenendo anche in sede di reiterati confronti con il Morucci, che contro l'on. Moro avevano dovuto sparare sia il Moretti sia l'altro militante, perché si era verificato un inconveniente che aveva reso insufficiente l'azione del Moretti, probabilmente l'inceppamento dell'arma di cui il Moretti era dotato.
Nella rappresentazione della Faranda, quindi, era chiaro quale fosse stato in quella circostanza il ruolo della persona predesignata per la "copertura ravvicinata": e cioè quello stesso ruolo che il Gallinari aveva svolto surrogandosi all'Etro in occasione dell'omicidio del giudice Palma.
D'altra parte, era ed é ben noto che le perizie medico-legali compiute sul corpo dell'on. Moro e sulla Renault rossa hanno dato la certezza che le armi adoperate in quella circostanza erano state due.
Prima di questo processo, inoltre, si era data per acquisita la versione secondo cui a sparare erano stati il Moretti ed il Gallinari; e nessuno di quelli che erano in grado di correggerla si era attivato in tal senso, perché - come é stato spiegato dal Morucci - "spettava al Moretti chiarire questa vicenda assumendosene la responsabilità" (fl.294, fasc.2, cont.N.2).
Senza la confessione del Maccari, dunque, si doveva presumere che tanto il Moretti quanto il secondo militante delle Brigate Rosse che era con lui avessero esploso dei colpi contro l'on. Moro e che fosse stato il secondo ad esplodere i colpi che avevano finito la vittima; e ciò perché il Moretti nella sua intervista alle giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda aveva dato dell'episodio una versione in chiave dichiaratamente politica, affermando in punto di fatto delle circostanze non convincenti (Morucci, fl.253, fasc.2, cont.N.2), né le due giornaliste hanno qui riferito che fosse loro intento precisare la vicenda nei suoi particolari di fatto nell'intervistare il Moretti. Non si poteva, quindi, sulla base della sola versione del Moretti, ritenere provato che materialmente fosse stato solo lui a sparare. Dalle dichiarazioni del Morucci, relative alla riunione dell'8 maggio 1978, nella quale il Moretti aveva comunicato la decisione di uccidere l'on. Moro adottata dal Comitato Esecutivo, risultava del resto che il Moretti aveva deciso di eseguirla personalmente perché nessuno dei presenti si era offerto di farlo (fl.294, fasc.2, cont.N.2). Ma nulla si conosce di quanto poi il Moretti poté operativamente concordare con i quattro di Via Montalcini, se non ciò che il Maccari ha ritenuto di dire in questo processo. Non é neppure da trascurare il fatto che la Faranda era tanto convinta, sulla base degli elementi in suo possesso, che fossero stati in due a sparare, che - indottasi a rivelare la vera identità dell'Altobelli - ha qui spiegato di aver ritenuto necessario farlo anche per scagionare il Gallinari, liberandolo da questa parte di responsabilità.
In questo quadro, la confessione del Maccari, su questo specifico punto, risulta essere l'unico elemento informativo e non appare pienamente convincente: sia perché contrasta con quanto la Faranda ha riferito di aver appreso dal Morucci, sia perché nella versione del Maccari scompare il ruolo di "copertura ravvicinata" nella figura teorizzata dalle Brigate Rosse e compare invece il ruolo inedito di "portatore" della seconda arma per conto del Moretti.
Altro elemento della confessione, dovuto alla sola parola del Maccari, é quello concernente la sua posizione contraria all'uccisione dell'ostaggio. E' bene precisare che, dal punto di vista della legge penale, l'ipotizzata presa di posizione é irrilevante, perché l'unico comportamento concludente sarebbe stato quello previsto dall'art. 289 bis, comma 4, C.P., e cioè quello di dissociarsi concretamente al fine di far riacquistare all'ostaggio la libertà. Non si può certo ritenere che l'essersi il Maccari ritenuto vincolato dalla disciplina interna delle Brigate Rosse possa valere come una diminuzione delle sue responsabilità, specie se si considera il suo rilevantissimo concorso materiale nell'omicidio che lo vede secondo soltanto al Moretti.
Ciò detto, nemmeno questo aspetto della confessione trova riscontro in altri elementi processuali. Il Morucci, per la precisione, ha bensì riferito, sia pure in termini induttivi, di probabili contrasti fra il Maccari e gli altri occupanti della "base'' di Via Montalcini. Ma poiché é pacifico che il Morucci - insieme alla Faranda - rappresentava l'anima dell'opposizione all'omicidio dell'on. Moro, sorprende che né lui né la Faranda abbiano finora avuto notizia della solidarietà del Maccari. Addirittura in senso incompatibile con la versione del Maccari risultano e dichiarazioni della Faranda circa il comportamento del Maccari dopo l'omicidio. Essa, infatti, ha precisato che il Maccari, da loro destinato dopo l'operazione Moro a transitare nella Brigata di Monte Spaccato, non aveva visto di buon occhio tale destinazione ed ha espresso l'opinione che, dietro l'argomento esplicitato dal militante secondo cui l'area territoriale della brigata gli risultava estranea, si celasse la vera ragione che il Maccari, animato da spirito "maschilista", non gradiva militare in una unità diretta dalla Balzerani e dalla stessa Faranda. Secondo la Faranda, dunque, l'allontanamento del Maccari dopo l'epilogo mortale dell'operazione Moro, non era affatto dipeso da motivi ideali ma da ben più povere ragioni, fra cui quella di essersi visto degradato rispetto ad un'altra donna, la Braghetti, alla quale era stato riconosciuto lo "status" di militante regolare.
In conseguenza da tutte queste considerazioni, dunque, la confessione dell'imputato, specie per il momento processuale in cui é stata resa, non appare né meritevole né disinteressata. Malgrado certi toni verbali che si possono ritenere di circostanza, essa non costituisce un sicuro segno di ravvedimento, ma piuttosto la resa del Maccari davanti alle prove di accusa divenute invincibili. Naturalmente la Corte non ha nulla da rimproverare all'imputato per quanto attiene alle sue scelte difensive, né prima né dopo la confessione, anche se non appare commendevole il fatto di aver strumentalizzato ai suoi fini l'indubbia buona fede della fidanzata, della madre e della sorella. Né é segno di ravvedimento l'essere riuscito, l'imputato, ad assumere con molta intelligenza il ruolo innocentista anche nel serrato confronto con la Faranda, per poi manifestare la stessa intelligenza in senso contrario durante la confessione. Ma, affinché la confessione assuma un valore positivo, occorre che tale valore ci sia e sia obiettivamente percepibile, il che nella specie non appare.
Il Maccari va dunque sottoposto a pena per tutti i reati che gli sono stati contestati, previo assorbimento di quelli relativi al sequestro ed all'omicidio dell'on. Moro in un unico capo di imputazione, richiamando le ragioni già svolte nel trattare la posizione dell'Etro. Il Maccari, in particolare, va condannato per il reato associativo così come contestatogli, essendo innegabile che egli svolse nell'operazione Moro un ruolo organizzativo di primo piano, collaborando al pari della Braghetti all'allestimento della base di Via Montalcini e, più ancora della Braghetti, nell'allestire il locale in cui rinchiudere il sequestrato. Il fatto, poi, che egli possa aver ignorato fino all'ultimo momento l'identità del sequestrato non ha rilievo giuridico, essendo comunque pacifico che egli, come tutti gli altri brigatisti che partecipavano all'operazione, sapevano che si trattava di sequestrare un uomo politico di altissimo rilievo e che la sua prigionia si sarebbe potuta protrarre per molto tempo. In modo particolare tutto ciò era noto al Maccari che era stato reclutato proprio in vista di questa operazione, fin da prima che la Braghetti, con parte del denaro realizzato dall'organizzazione con il sequestro Costa, acquistasse la casa di Via Montalcini, e comunque almeno dall'11 luglio 1977, data in cui sottoscrisse il contratto con
l'A.C.E.A. per quello stesso appartamento con il nome di Luigi Altobelli. Egli, infine, rimase nella stessa base anche dopo il compimento dell'operazione Moro, collaborando al suo smantellamento alcuni mesi dopo. In questo quadro complessivo e per le altre già svolte considerazioni, egli va ritenuto responsabile anche dell'omicidio degli uomini della scorta, in quanto strettamente funzionale al sequestro e chiaramente prevedibile da tutti i partecipanti all'operazione terroristica in questione.
Anche per il Maccari, come per l'Etro, si impone il riconoscimento dell'unicità del disegno criminoso che collega tutti i delitti a lui ascritti, mentre é evidente anche in fatto, a differenza che per l'Etro, che la violazione più grave per il Maccari é quella dell'art. 289 bis C.P..
Poiché la pena prevista é quella dell'ergastolo, non é possibile alcuna graduazione a norma dell'art. 132 C.P.
Non ricorrono, a giudizio di questa Corte, le condizioni per il riconoscimento di attenuanti di sorta, pur dovendosi ricordare che sia il Pubblico Ministero sia i difensori dell'imputato hanno raccomandato la concessione delle attenuanti generiche a norma dell'art. 62 bis C.P.
Ma il Pubblico Ministero, nella motivazione della richiestasi e limitato a riferirsi alla confessione dibattimentale dell'imputato, pur avendo dimostrato, nell'analisi delle prove, che tale confessione non aveva apportato alcun nuovo elemento di conoscenza sul caso Moro, né ha potuto indicare segni attendibili di ravvedimento nella condotta processuale dell'imputato.
La difesa, da parte sua, ha comprensibilmente attribuito il massimo valore all'ultima parte della condotta processuale dell'imputato e ha tentato di dimostrarne l'utilità sul piano probatorio, attraverso la sottovalutazione della prove a carico, tra cui la perizia grafica. Ritiene però la Corte che il quadro probatorio si sia sviluppato in senso sempre più favorevole all'accusa, secondo le argomentazioni già svolte nell'indicare il momento in cui la confessione é intervenuta, e che debba quindi essere tenuto fermo il giudizio sulla totale strumentalità della confessione stessa.
Lo stesso Maccari, rispondendo al suo difensore (fl. 3 e sgg., fasc.3, cont. N.4), che gli chiedeva di spiegare le ragioni della confessione appena un mese dopo l'esame nel quale si era dichiarato innocente, ha chiaramente sorvolato sulle ragioni del mutamento ed ha dato la sua, spiegazione dell'ultimo atteggiamento affermando che non riteneva suo dovere "fare il primo passo", essendo suo diritto difendersi. Soprattutto, ha imperniato l'argomento sul ritardo della confessione sulla considerazione che sarebbe stato difficile spiegare a dei giudici perché egli - nell'ambito della sua organizzazione - si fosse indotto a tenere un comportamento che non condivideva.
Sull'opportunismo nella scelta del tempo della confessione, dunque, la Corte non può che mantenere la già indicata conclusione. Pacifico, invece, ma non significativo nel senso che qui interessa, é il diritto dell'imputato a difendersi. Più complessa, certamente, è la questione concernente la comunicabilità al giudice delle interne motivazioni di un terrorista nel tener fede alla "affectio societatis" che lo ha così stretto all'associazione criminosa. Ma, trattandosi di confrontare dei giudizi di valore, il giudice non può che attenersi a quelli propri dell'ordinamento giuridico a cui appartiene e, una volta stabilita la rilevanza penale di un comportamento, non può che rifarsi alla giurisprudenza formatasi sulle disposizioni positive degli artt. 61, n.1, 62, n.1, e 133 C.P. e, ove ne ricorrano i presupposti, dell'art. 51 C.P. Alla stregua di questi criteri, appare evidente come non possa attribuirsi un valore eticamente positivo alla fedeltà del singolo componente rispetto ad una associazione criminosa perché ciò comporterebbe una valutazione positiva dell'essenza dell'associazione stessa, in contrasto perciò con l'ordinamento stesso dello Stato.
In sostanza, le ragioni reali per cui il Maccari dovrebbe ottenere un trattamento penale diverso da quello a suo tempo riservato agli altri tre brigatisti che si occuparono di sorvegliare il sequestrato prima di maturare la decisione di ucciderlo, non potrebbe che risiedere una volta dimostrata la strumentalità della confessione del Maccari o nel ritardo con cui la giustizia é pervenuta alla sua identificazione o in considerazioni che, attenendo al merito della norma incriminatrice o alla mutata sensibilità politica nei riguardi del fenomeno terroristico, non possono essere fatte proprie dal giudice della cognizione del fatto ma, se del caso, da altri organi giudiziari o da altri poteri dello Stato. Il fatto che la norma da applicare al caso in esame sia stata formulata proprio durante il sequestro dell'on. Moro é stato una scelta legislativa, il cui merito come tale é sottratto all'apprezzamento di questa Corte. Sul piano formale, vi é solo da osservare che al tempo del fatto il Maccari, come ogni altro cittadino, ebbe conoscenza della norma che con il permanere del sequestro si andava violando, tanto é vero che in questo dibattimento egli ha avuto occasione di ricordare una delle disposizioni contenute nel decreto legge, e cioè quella che concerneva l'obbligo della denuncia dei contratti di cessione di immobili. Non vi fu quindi violazione né dell'art. 2 né dell'art. 5 del codice penale. Il Maccari, come gli altri complici, accolse la sfida dell'ordinamento e perseverò nella sua condotta antigiuridica.
Il ritardo nell'individuazione del Maccari, poi, si é dovuto essenzialmente all'omertà che lo ha coperto fino al 1993, oltre che alla regola della "compartimentazione" che non ha probabilmente consentito ai collaboratori della giustizia di indicarlo tempestivamente a chi di dovere.
Il decorso del tempo, in relazione a questo delitto, non ha registrato certamente una attenuazione della pretesa punitiva dello Stato, come si rileva anche dal rigore con cui il Pubblico Ministero ha proceduto in questo procedimento, annunciando inoltre di voler proseguire oltre nelle indagini, in ossequio del resto alla disposizione dell'art. 112 Cost., cosicché neppure sotto questo profilo sarebbe equa la concessione dell'attenuante in parola.
Quanto alla mutata sensibilità politica per questo tipo di criminalità, deve rilevarsi che essa non si é finora tradotta nell'emanazione di nuove norme, modificative di quelle vigenti; l'opinabilità di tale fenomeno, quindi, non consente di trarne in questa sede elementi utili ad influenzare legittimamente l'esercizio della giurisdizione.
Ed infine, l'appello della difesa alla normativa in favore dei dissociati, di cui alle leggi 29 maggio 1982, n.304 e 18 febbraio 1987, n.34, non appare sotto alcun profilo riferibile al Maccari: a parte, infatti, la considerazione del rigore che l'art. 2 della legge del 1982 ha conservato proprio in relazione all'art. 289 bis C.P., escludendo dal beneficio di tale legge anche gli imputati pienamente confessi, deve tenersi presente che tale normativa, formalmente non più applicabile ai reati in discussione perché soggetta a termini ormai scaduti, presuppone pur sempre una condotta dissociativa dal delitto e di efficace collaborazione con la giustizia quale non può essere ritenuta, per le ragioni già dette, quella tenuta dal Maccari in questo dibattimento.
Di nessun rilievo, infine, é il richiamo alla condotta tenuta dal predetto imputato in carcere, durante la detenzione relativa ai fatti del 1974-1977, allorché egli aderì all'area omogenea di Rebibbia, perché dopo l'accertamento - compiuto in questo processo - delle sue responsabilità per l' "operazione Moro", tale condotta non appare meritoria ma bensì meramente opportunistica in relazione ai reati allora accertati ed ispirata alla fiducia che i reati ulteriori non sarebbero mai stati scoperti in relazione a lui.
Pertanto questa Corte, in armonia con l'orientamento della giurisdizione di legittimità (Cass. , sez.VI, 28 febbraio 1991, Cely; Cass., sez. I 31 marzo 1993, Maiorano; Cass. , sez. I, 24 ottobre 1994, Fiorentino), non ritenendo meritoria la confessione del Maccari non può riconoscergli le attenuanti generiche. Né la sua personalità globalmente considerata può comportare un apprezzamento positivo sotto altri profili. Rispetto all'età media dei brigatisti, egli non era certamente fra i più giovani, avendo già compiuto venticinque anni; aveva già partecipato ad altri delitti contro la persona; non aveva assunto responsabilità di rilievo nell'ambito familiare; non aveva completato gli studi intrapresi; non aveva mai svolto professionalmente alcun lavoro né l'ha svolto finora. Non si comprende neppure, in conclusione, come possa giustificarsi la sua affermazione del 19 giugno 1996, secondo cui la sua vita sarebbe ora cambiata.
Pertanto la pena, stabilita dalla legge per il delitto principale da lui commesso e già applicata ai concorrenti nello stesso delitto nei processi precedenti, non può che essere quella dell'ergastolo.
Per effetto della continuazione, tale pena va inasprita con l'isolamento diurno che, a norma dell'art. 72 C.P., si dispone per la durata di mesi sei in relazione ai delitti di cui ai capi A) e B).
Conseguono per legge le pene accessorie di cui al dispositivo.
In relazione alle domande spiegate in questo giudizio dalle parti civili, seguono le statuizioni di cui al dispositivo, sostanzialmente conformi alle richieste. Le relative spese sono liquidate secondo le risultanze degli atti e gli onorari secondo il contributo dato da ciascuno dei difensori nel corso del dibattimento e nella discussione finale.

P. Q. M.

visti gli artt. 521-533-535 c.p.p., dichiara ETRO Raimondo e MACCARI Germano colpevoli del reato di cui agli artt. 110-112, n.1-61, n.10 e 289 bis C.P., così unificate le imputazioni di cui ai rispettivi capi C) e D), nonché colpevoli dei reati di cui ai rispettivi capi A) e B), e unificati tutti i predetti reati dal vincolo della continuazione, individuata la violazione più grave nel reato di cui all'art. 289 bis C.P. e concesse all'ETRO le attenuanti generiche, condanna ETRO Raimondo alla pena di anni ventiquattro e mesi sei di reclusione e MACCARI Germano alla pena dell'ergastolo, con l'isolamento diurno per sei mesi; entrambi, in solido fra loro, al pagamento delle spese processuali e ciascuno di essi al pagamento delle spese della rispettiva custodia cautelare; visti gli artt. 29 e 32 C.P. , dichiara ETRO Raimondo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale e sospeso dall'esercizio della potestà di genitore durante l'esecuzione della pena;
dichiara MACCARI Germano interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale;
visti gli artt. 538 e segg. c.p.p., condanna ETRO Raimondo e MACCARI Germano, in solido fra loro, al risarcimento dei danni materiali e morali da liquidarsi in separato giudizio in favore delle costituite parti civili (...).
 
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