Processo Moro Quinquies - II grado

03. Motivi della decisione

Documento aggiornato al 15/04/2005
1. Con il primo motivo di gravame la difesa di Maccari Germano sollecita l'assoluzione del suo assistito per non aver commesso il fatto dalla imputazione di cui al capo B), relativa alla uccisione di Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci e Giulio Rivera, commessa in Via Fani il 16 marzo 1978.
A tale riguardo deduce che. l'impugnata sentenza ha fondato il giudizio di responsabilità in ordine ai fatti di cui si tratta sulle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, ma non confermate nel dibattimento al sensi dell'art. 210 C.p.p., da Braghetti Anna Laura. La quale in quella sede aveva affermato di aver visto arrivare in Via Montalcini la propria autovettura "Ami 8" con a bordo l'On. Moro, tenuto in una cassa di legno ed accompagnato dai tre militanti delle Brigate Rosse che avevano abitato con lei in quell'appartamento.
Precisando che la stessa autovettura era in precedenza partita da Via Montalcini con a bordo il solo Altobelli e vi aveva fatto ritorno con la cassa ed i tre militanti, due dei quali avevano materialmente partecipato alla strage di Via Fani.
E sostiene che tali indicazioni - utilizzate dal giudice di primo grado per attribuire al Maccari, alias Altobelli, il ruolo di colui che nella immediatezza del sequestro aveva ricevuto l'ostaggio nel garage della Standa di Viale dei Colli Portuensi e lo aveva poi trasferito nel luogo destinato alla sua prigionia nonché per derivarne la conclusione che l'imputato, essendosi trovato al momento giusto e con il mezzo appropriato nel posto prestabilito per la consegna del sequestrato, doveva necessariamente essere stato con congruo anticipo inserito nell'organigramma che prevedeva il sequestro di Via Fani e l'inevitabile sparatoria indispensabile per sottrarre l'importante personaggio alla sua scorta non hanno trovato conforto in altri elementi di prova idonei a confermarne l'attendibilità, secondo quanto disposto dall'art. 192 n. 3 C.p.p., ed anzi risultano contrastate sia dalle dichiarazioni rese da altri imputati sia dalla logica che ha presieduto all'intera operazione Moro.
Le argomentazioni dell'appellante sono però manifestamente prive di fondamento e debbono essere disattese.
Intanto, le dichiarazioni dalla Braghetti si sottraggono a qualsiasi rilievo sotto il profilo dell'attendibilità intrinseca che, come è noto, costituisce il criterio pregiudiziale per ogni verifica della chiamata in correità. E' del tutto sfornito di consistenza l'assunto secondo cui le sue affermazioni potrebbero essere state dettate dall'intento di attenuare le proprie responsabilità nella vicenda ovvero attribuite ad errore ricostruttivo, dovuto al decorso del tempo o alla stessa naturale e comprensibile volontà della dichiarante di rimuovere un episodio che sarebbe ancora causa di rimorso. In realtà tali osservazioni noi si attagliano minimamente alla figura della Braghetti, emersa come personaggio di spicco delle Brigate Rosse e tuttora appartenente alla schiera degli “irriducibili". Quanto mai lontana perciò, in questa sua veste, da qualsivoglia tentazione di minimizzare il proprio apporto alle campagne terroristiche di quella organizzazione. Ed anzi proprio per questo accreditabile, fino a prova contraria, di sufficiente lealtà verso il Maccari, come degli altri militanti, da spingerla certamente a chiarire al dibattimento, senza trincerarsi dietro al rifiuto di sottoporsi all'esame, la reale portata delle indicazioni eventualmente non veritiere rilasciate in precedenza sul conto del medesimo.
Tanto meno l'attendibilità intrinseca della chiamata in correità può ritenersi in qualche misura invalidata dal fatto che essa sia stata formulata nell'interrogatorio reso il 10 novembre 1993, ossia in epoca nella quale il sedicente Ing. Altobelli non era stato ancora compiutamente identificato, e fosse pertanto destinata a non avere effetti nei confronti di un determinato soggetto. Proprio in ciò sta invero la più efficace garanzia di genuinità della indicazione accusatoria proveniente dalla Braghetti. Giacché l'interesse "storiografico" della medesima, non meno evidente di quello esplicitamente dichiarato dalla Balzerani e dal Morucci, a chiarire definitivamente, nel pieno fervore delle discussioni intorno alle ipotesi da più parti ventilate di una "eterodirezione" delle Brigate Rosse, la figura di non infiltrato dell'Ing. Altobelli travalica senza alcun dubbio ogni altra esigenza di strumentalizzazione ragionevolmente prospettabile della fonte di prova, in funzione di un interesse della Braghetti o di chiunque altro alla copertura, dietro un personaggio non ancora identificato, di altro soggetto.
In secondo luogo, la versione accusatoria non appare efficacemente contrastata, come si assume nell'atto di appello, dalle indicazioni rese da altri imputati.
In realtà l'unica voce di segno contrario richiamata dalla difesa del Maccari è quella del Moretti il quale, ricostruendo nell'intervista rilasciata alle giornaliste Rossana Rossanda e Carla Mosca le fasi del trasbordo del baule nel quale era stato introdotto l'On. Moro dal furgone all'autovettura che avrebbe dovuto trasferirlo nel covo di Via Montalcini, ha affermato che quell'automobile apparteneva alla Braghetti ed era da lei guidata. Sennonché, anche prescindendo dalle riserve giustificate dal contesto extraprocessuale nel quale essa ha preso corpo, la versione del Moretti può sicuramente annoverarsi tra le meno affidabili. Basta considerare che egli, nel corso della stessa intervista e sempre con riferimento alle modalità della traduzione del sequestrato dal garage della Standa all'appartamento di Via Montalcini non è stato in grado di fornire precise delucidazioni neppure sulla propria condotta e su quella del Gallinari nel medesimo frangente. Alla domanda delle intervistatrici su cosa avesse personalmente fatto in quel momento, ha infatti testualmente risposto: "Io non ricordo esattamente ma sicuramente non stavo in questa macchina. Penso che io e Prospero di lì a piedi ci avviammo o forse uno salì, forse io salgo lì, mi sembra del tutto improbabile. Prospero sicuramente no. Ci avviammo alla base di Via Montalcini dove Moro rimarrà sempre lì”. E dunque sarebbe veramente arduo, anche a tacere delle vistose incongruenze che caratterizzano il complesso del suo racconto, assegnare all'assunto del Moretti sul conto della Braghetti, palesemente frutto di una sua personale associazione di costei in veste di conducente all'autovettura a lei appartenente, un peso probatorio capace di vincere il dato emerso dalla chiamata in correità. D'altro canto, a ben guardare, l'indicazione del Moretti a proposito del ruolo che in quella circostanza avrebbe svolto la Braghetti è smentita proprio dal Maccari. Nel corso delle spontanee dichiarazioni rese dinanzi a questa Corte il giudicabile, modificando la sua precedente versione secondo cui egli quella mattina era rimasto sempre all'interno dell'appartamento in attesa dell'arrivo della macchina con il sequestrato, ha affermato invece che, nell'occasione aveva fatto continuamente la spola tra l'alloggio e la strada. Giustificando tale suo comportamento con l'argomento che la sua, presenza al momento dell'ingresso dell'autovettura, condotta da "persone sconosciute" agli inquilini dello stabile, sarebbe valsa a fugare i sospetti di coloro che avessero eventualmente assistito all'avvenimento. Ebbene, la versione da ultimo introdotta dal Maccari, diversamente dalla precedente, è con ogni evidenza incompatibile con l'ipotesi avvalorata dalla ricostruzione del Moretti. Posto che, se fosse stata la Braghetti, che era persona ben conosciuta dagli inquilini dello stabile, a trovarsi al posto di guida della propria autovettura avente a bordo il prigioniero, l'imputato non avrebbe avuto alcun motivo di preoccuparsi in merito alla eventuale presenza di testimoni al momento del suo ingresso e di ricorrere al comportamento precauzionale che dice di aver adottato.
Viceversa nessun elemento di contrasto con l'indicazione fornita dalla Braghetti è dato cogliere nel contenuto del memoriale del Morucci, anch'esso menzionato dalla difesa dell'appellante. In verità l'affermazione di costui, secondo cui subito dopo l'azione di Via Fani e la consegna in un bar di Piazza delle Medaglie d'Oro da parte di Fiori e Bonisoli dei giubbetti antiproiettile ad altri brigatisti colà appositamente convenuti il Gallinari si era subito allontanato per raggiungere Via Montalcini, non vuol dire affatto che lo stesso Gallinari si era separato anche dal Moretti, in modo da non poter raggiungere insieme a lui ed a bordo dell'autovettura della Braghetti, secondo il postulato della versione di quest'ultima, il covo destinato a prigione del sequestrato. Anche perché una tale circostanza non si accorda con le dichiarazioni rese dallo stesso Moretti nel corso dell'intervista in precedenza ricordata, nel punto in cui viene da lui attestata la presenza al suo fianco del Gallinari, quanto meno durante le fasi sviluppatesi all'interno del garage della Standa di Viale dei Colli Portuensi. In ogni caso - anche a ritenere veritiera la circostanza della immediata separazione del Gallinari dal Moretti, che si ritiene di poter fondare su quel passaggio del memoriale del Morucci - non per questo potrebbe derivarsene la esclusione della partecipazione del Maccari al trasferimento dell'On. Moro dal suddetto garage al covo di Via Montalcini. Anzi, a dire il vero, l'esclusione del Gallinari da quell'operazione finirebbe per reclamare con maggior forza, a causa dell'assoluta inverosimiglianza dell'ipotesi che vi abbia preso parte il solo Moretti, la presenza alla stessa del giudicabile. Conferendo un solidissimo fondamento all'apprezzamento dei primi giudici in merito alla sostanziale “consonanza" tra la versione della Braghetti e quella del Morucci. D'altra parte la tesi accusatoria non è in alcun modo indebolita dalla osservazione che la presenza della Braghetti nel garage del supermercato sarebbe stata assai più logica in quanto una figura femminile avrebbe dato meno nell'occhio in quel particolare ambiente. Potendosi a tale riguardo rinviare alle già esposte ragioni, talune ricavabili addirittura da indicazioni fornite dallo stesso Maccari, che si oppongono all'attribuzione alla persona della Braghetti del ruolo di conducente dell'autovettura "Ami 8" impiegata nel trasferimento dell'On. Moro nell'appartamento di Via Montalcini.
Né la ricostruzione offerta dalla Braghetti può ritenersi contrastata dalla considerazione che non più di due persone avrebbero potuto prendere posto in quell'autovettura. La quale viene basata, da un lato, sulla circostanza che i sedili posteriori erano stati reclinati per far spazio alla cassa; e, dall'altro, sull'impossibilità di ritenere che le tre persone abbiano scelto di viaggiare sui sedili anteriori, commettendo un'infrazione alla disciplina sulla circolazione stradale e correndo così il rischio di incappare in un controllo, che avrebbe potuto compromettere l'esito dell'operazione. Potendosi a tutto ciò replicare che non si ricava da alcun dato del processo l'assoluta impossibilità per uno dei passeggeri di prendere posto sul sedile posteriore nonostante la presenza della cassa; e che, comunque, il rischio evocato dalla difesa dell'appellante sarebbe stato certamente trascurabile, tenuto conto sia della brevità del tragitto tra Viale dei Colli Portuensi e Via Montalcini sia della notoria inefficienza dei servizi di controllo della circolazione stradale, soprattutto in una zona periferica della città come quella interessata a quel segmento dell'operazione.
Infine la chiamata in correità rivolta dalla Braghetti al Maccari appare assistita da elementi oggettivi di riscontro idonei a confermarne l'attendibilità.
Premesso, in conformità ai principi affermati nella materia dalla giurisprudenza, che i riscontri estrinseci possono essere di qualsiasi specie e non debbono a loro volta rivestire la consistenza di autonome ed autosufficienti prove di responsabilità, essendo viceversa sufficiente che essi si riferiscano al fatto storico costituente l'oggetto dell'accusa ed esprimano la concreta probabilità che il chiamato lo abbia commesso, si deve infatti rilevare che le risultanze processuali hanno fornito, all'esterno dalla indicazione proveniente dalla chiamante in correità, elementi capaci di dimostrare in concreto la probabilità che il Maccari abbia commesso il fatto attribuitogli, nel caso la partecipazione alla traduzione del sequestrato dal garage di Viale dei Colli Portuensi alla prigione di Via Montalcini.
E' da annoverarsi tra i punti fermi dell'indagine che l'autovettura “Ami8” appartenente alla Braghetti ed utilizzata il giorno del sequestro dell'On. Moro per il trasferimento dell'ostaggio da quel garage al luogo della prigionia, non può essere stata condotta, tanto nel viaggio di andata dal covo al Viale dei Colli Portuensi quanto in quello di ritorno con la cassa del prigioniero, che dalla stessa Braghetti ovvero dal Maccari. Non solo perché gli altri due militanti delle Brigate Rosse alloggiati nell'appartamento, cioè il Moretti ed il Gallinari, non avrebbero potuto farlo essendo rettamente impegnati nell'azione di Via Fani. Ma anche per la ragione esposta dinanzi a questa Corte proprio dal Maccari e connessa alla qualità, sua e della Braghetti, di soggetti abitanti in quello stabile e muniti come militanti “irregolari"' di una identità non brigatista, che avrebbe loro consentito di muoversi liberamente senza destare sospetto negli altri inquilini, anche nella fase cruciale dell'introduzione del sequestrato nella prigione a lui destinata. Ora, già questo si traduce in un consistente. riscontro dell'indicazione accusatoria proveniente dalla Braghetti, dal momento che è in grado di esprimere l'elevata probabilità che proprio il Maccari abbia commesso, essendo stato egli uno dei due soggetti abilitati a farlo, l'azione che gli è attribuita. Peraltro il dato di riscontro appena evidenziato appare rafforzato, fin quasi a risolversi in una autonoma ed autosufficiente prova sia pure di carattere logico del fatto imputatogli, per effetto dell'ammissione del giudicabile all'odierno dibattimento di avere durante la mattinata del sequestro fatto continuamente la spola dall'appartamento alla strada in attesa dell'arrivo della macchina con l'ostaggio, allo scopo di evitare che il suo ingresso nel garage condominiale con a bordo degli sconosciuti potesse destare sospetto negli altri inquilini. Tale ammissione comporta infatti, secondo quanto si è già osservato, la sicura esclusione della Braghetti tra i componenti dell'equipaggio dell'autovettura "Ami 8" e si traduce perciò nella implicita autocollocazione del Maccari al posto di guida della stessa. Del resto anche la ritrattazione della precedente indicazione, quella di essersi trattenuto nell'appartamento fino all'ingresso della macchina nel garage e di essere stato poi chiamato a collaborare al trasporto della cassa all'interno del covo, ne rappresenta una significativa conferita. Atteso che essa non trova giustificazione al di fuori della acquisita consapevolezza, da parte del Maccari, dell'insostenibilità della linea con la quale aveva in precedenza inteso opporre un insuperabile diaframma nei riguardi della propria partecipazione all'operazione di Via Fani nei termini risultanti dalle dichiarazioni della Braghetti.
Ed allora, risultando la stessa comprovata dalle emergenze fin qui analizzate, deve condividersi, siccome ineccepibile sotto ogni profilo, il giudizio di responsabilità espresso nei confronti del prevenuto anche per l'uccisione degli uomini della scorta dell'On. Moro. Appare invero incontestabile la conclusione secondo cui la circostanza che il Maccari si sia trovato al momento giusto e con il mezzo adeguato nel garage della Standa di Viale dei Colli. Portuensi, pronto per ricevere l'uomo politico appena sequestrato e per trasferirlo nel covo di Via Montalcini, è idonea a dimostrare al di là di ogni dubbio che egli era stato con congruo anticipo inserito, e con ruolo di particolarissimo rilievo, nel piano dell'operazione organizzata dalle Brigate Rosse per il sequestro dell'On. Moro.
Peraltro la particolare incisività ed articolazione dell'apporto del Maccari alla realizzazione del progetto brigatista comporta, quale ulteriore ed ineludibile implicazione, la piena consapevolezza dell'agente delle modalità esecutive del piano, comprese quelle riguardanti l'eliminazione degli uomini della scorta in quanto mezzo indispensabile per l'attuazione del sequestro dell'On. Moro. La quale a sua volta vale, in virtù della preventiva adesione ad un progetto che prevedeva come necessaria ai fini della sua realizzazione l'uccisione degli agenti addetti alla sicurezza del sequestrando, a qualificare come dolo diretto anche l'elemento soggettivo che caratterizza la compartecipazione dell'imputato ai fatti omicidiari in danno di Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Raffaele lozzino, Domenico Ricci e Giulio Rivera.
Il giudizio di responsabilità a carico del Maccari in merito alla uccisione degli uomini della scorta dell'On. Moro non è in alcun modo contrastato dalla "logica che ha presieduto l'intera operazione Moro". La quale fa riferimento, per un verso, all'assunto dell'imputato, che ha sostenuto di aver ricevuto l'ordine di rimanere alcuni giorni nell'abitazione di Via Montalcini e successivamente nella mattinata del 16 marzo 1978, quando già l'On. Moro si trovava nel garage dello stabile, la richiesta di cooperare al trasporto della cassa dal box all'appartamento, accorgendosi poi, soltanto al termine di tale operazione, che il sequestrato si identificava in quella personalità politica; e, per l'altro, alle regole di compartimentazione adottate dalle Brigate Rosse che, imponendo per evidenti ragioni di sicurezza la frammentazione di ogni azione in segmenti separati uno dall'altro, avrebbero impedito di comunicare anticipatamente all'imputato, militante irregolare e non inserito con un ruolo organico nell'operazione, i particolari dell'azione delittuosa da compiere.
A tale riguardo va segnalato, anzitutto, che le deduzioni difensive del Maccari sono contraddette dall'ammissione di essere stato edotto che l'azione da portare a compimento il 16 marzo 1978 sarebbe stata il rapimento di un'alta personalità politica e dalla precisazione, effettuata dinanzi a questa Corte, che egli quella mattina aveva fatto la spola tra l'appartamento e l'ingresso al garage in atteso dell'arrivo della macchina con il sequestrato.
Mentre, per ciò che concerne la cosiddetta compartimentazione, non può farsi a meno di annotare che, se può ammettersi in linea generale che il principio aveva una rigida applicazione per la gran parte delle attività strumentali (le “inchieste" su possibili obiettivi di azioni terroristiche, i furti delle autovetture occorrenti, il trasporto e la successiva raccolta delle armi nel luogo delle operazioni, etc.), è invece francamente inaccettabile la mitizzazione che viene continuamente riproposta. Ed alla stregua della quale si dovrebbe ritenere che la regola avesse assunto per le Brigate Rosse uno "spessore maniacale" e conseguentemente escludere, sempre e comunque, che alcuno dei compartecipi di una determinata impresa dell'organizzazione terroristica potesse conoscere in anticipo, quale che fosse stato il suo rango all'interno della struttura e il ruolo da svolgere nell'operazione, il disegno complessivo nel quale la sua condotta avrebbe dovuto inserirsi. Del resto una più realistica valutazione della effettiva portata del fenomeno della compartimentazione è imposta anche dal rilievo che si è rivelata sufficiente per smantellare l'intera associazione e per far luce quasi completa su tutte le sue imprese, la collaborazione con la giustizia di un limitato numero di militanti decisi a rompere definitivamente con la lotta armata. Che è quanto basta per attestare che ciascuno di essi aveva, ad onta delle ferree regole imposte dalla disciplina, un vasto patrimonio di conoscenze sulle imprese terroristiche delle Brigate Rosse e sulla identità dei militanti.
Oltre tutto, nel caso del Maccari, pacifiche emergenze processuali forniscono elementi univoci e convergenti per affermare che egli era pienamente consapevole che l'azione alla quale era stato chiamato a collaborare era quella del sequestro dell'On. Moro.
Anzitutto, emerge dagli atti del processo una statura "politica" del soggetto idonea ad accreditarlo come personaggio di spicco dell'organizzazione terroristica. Essa è rivelata dalla quasi orgogliosa rivendicazione del proprio passato di animatore nel quartiere di appartenenza del movimento extraparlamentare di "Potere Operaio" e di responsabile locale del relativo "servizio d'ordine" nonché dalle ammissioni relative alle iniziative di carattere sociale svolte nei primi anni '70, alle frequentazioni nell'ambito di quel movimento con soggetti successivamente confluiti nelle Brigate Rosse (Rosati, Davoli, Morucci, Seghetti, Faranda ed altri) ed all'esperienza della partecipazione alla banda armata denominata "L.A.P.P." (Lotta armata per il potere proletario). E non appare sminuita dalla sua qualità di militante "irregolare" delle Brigate Rosse la quale, come è noto, non designava una figura di livello marginale o secondario rispetto agli altri aderenti alla banda armata ma, più semplicemente, lo stato di coloro che, solo in questo distinguendosi dai brigatisti in clandestinità, conservavano la loro identità familiare e sociale onde poter svolgere compiti, altrettanto essenziali per l'esistenza e l'efficienza della struttura associativa, preclusi ai militanti “regolari".
In secondo luogo dall'analisi delle condotte poste in essere dall'imputato nella vicenda Moro risalta un ruolo, variamente articolato e complesso, che può senz'altro giudicarsi tra i più incisivi ai fini della realizzazione dell'operazione.
E' lui che viene chiamato, sulla base delle indicazioni dei responsabili della colonna romana delle Brigate Rosse, a svolgere nell'appartamento di Via Montalcini, ossia nel covo destinato alla prigione del sequestrato, il ruolo di apparente marito della Braghetti. La personale sottoscrizione con la falsa identità di Luigi Altobelli fin dal luglio del 1977, otto mesi prima dell'esecuzione del sequestro, del contratto relativo all'utenza A.C.E.A. dell'abitazione e l'affiancamento ad una personalità brigatista come quella della Braghetti illustrano sufficientemente il rango elevato del Maccari all'interno dell'organizzazione ed il rilievo dell'esperienza maturata nella struttura terroristica, in irriducibile contrasto con il riduttivo assunto di un'adesione alle Brigate Rosse risalente a pochi mesi prima del sequestro. E dello stesso segno sono i collegamenti operativi, nell'azione del sequestro e per tutta la durata dell'operazione fino al tragico epilogo, con personaggi del calibro del Moretti, capo riconosciuto delle Brigate Rosse, e del Gallinari.
E' ancora lui che si incarica di ordinare e di acquisire la cassa destinata al trasporto dell'On. Moro dal luogo del sequestro a quello scelto per la sua prigionia. Come è lui che direttamente appresta, con materiali da lui stesso acquistati, l'insonorizzazione del locale riservato alla detenzione dell'ostaggio.
E' sempre lui che svolge, insieme al Moretti ed al Gallinari, il delicatissimo compito di trasferire I'On. Moro, subito dopo il sequestro, dal garage della Standa di Viale dei Colli Portuensi all'appartamento di Via Montalcini, come di esercitare, per tutti i cinquantacinque giorni del sequestro, salva qualche sporadica eccezione, la custodia dell'ostaggio. è infine lui che si ritrova al fianco del Moretti al momento dell'uccisione dell'uomo politico e che poi funge da scorta durante il viaggio che porta all'abbandono del cadavere in Via Caetani.
Ebbene emergenze di tale rilievo sono più che sufficienti per dimostrare l'assoluta inconsistenza dell'assunto difensivo. E' del tutto inverosimile che l'imputato, pur edotto che la sua condotta era destinata a confluire nel sequestro di un importante uomo politico, abbia appreso soltanto all'atto dell'apertura della cassa all'interno dell'appartamento di Via Montalcini che l'ostaggio si identificava con l'On. Moro. Il fatto stesso che il Maccari sia stato selezionato dalla struttura terroristica per compiti non già di natura esecutiva e fungibile, ma invece della massima rilevanza, nell'operazione di maggior significato politico e di più alto impegno organizzativo della storia delle Brigate Rosse esclude categoricamente che egli sia stato tenuto all'oscuro, come un militante del più basso livello delegato a marginali compiti di tipo esecutivo, dell'identità dell'obiettivo preso di mira. Soprattutto se si considera che il giudicabile è stato sin dal primo giorno del sequestro, con tutte le intuibili implicazioni elle una tale circostanza comporta anche ai fini del successo dell'impresa e della libertà personale o della stessa incolumità dei compartecipi, uno dei pochissimi militanti ammessi alla conoscenza dell'ubicazione della prigione dell'On. A. Moro che era stata invece occultata, secondo le parole della Balzerani, perfino a taluno dei membri della direzione di colonna. Del resto la giustificazione addotta in merito alla mancata preventiva rivelazione al Maccari del nominativo dell'importante uomo politico di cui era stato progettato il sequestro, indicata nel rischio che l'anticipazione della notizia avrebbe potuto comportare per il buon esito dell'operazione, è priva di qualsiasi attendibilità in quanto la stessa valenza avrebbe potuto avere, certo non per un militante della sperimentata affidabilità dell'imputato, l'indicazione che l'azione avrebbe riguardato un'alta personalità politica. Anzi, a tale riguardo, non può non assegnarsi valore risolutivo, nel senso della precisa consapevolezza dell'imputato in merito all'obiettivo dell'azione terroristica, all'argomento del Procuratore Generale che ha individuato proprio nello sbigottimento, o anche soltanto nella sorpresa, che il Maccari avrebbe potuto riportare all'atto della scoperta dell'identità del sequestrato un consistente fattore di rischio, per la possibilità di reazioni incontrollabili che avrebbero potuto, queste si, mettere in forse l'esito dell'operazione.
In ogni caso, anche ad ammettere per assurdo la veridicità della tesi difensiva, il Maccari non potrebbe sottrarsi al giudizio di responsabilità per l'uccisione degli uomini della scorta dell'On. Moro. La sua ammissione di aver comunque saputo che l'azione programmata per il 16 marzo 1978 sarebbe consistita nel sequestro di un'alta personalità politica dà infatti conto della concreta prevedibilità da parte dell'agente, con l'accettazione del relativo rischio, della eliminazione dei componenti del servizio di sicurezza immancabilmente addetto alla stessa, come mezzo inevitabile per la cattura del soggetto avuto di mira e, quindi, per la realizzazione dell'impresa criminosa in progetto. E costituirebbe titolo sufficiente a giustificare l'affermazione dalla penale responsabilità dell'imputato in ordine al delitto di cui si tratta a titolo di dolo eventuale. A nulla rilevando l'obiezione che prima del sequestro Moro soltanto in una occasione, quella dell'assassinio del Procuratore della Repubblica Francesco Coco, un'impresa delle Brigate Rosse si era conclusa con l'annientamento degli agenti di scorta. Poiché a tale considerazione si può replicare che all'epoca era già da qualche tempo fatto notorio, tanto più alle Brigate Rosse che erano solite dedicare accurate indagini sugli obiettivi delle loro campagne, che tutti gli uomini politici di un certo rilievo circolassero protetti da adeguate scorte; da aversi addirittura per scontato nel caso di “un'alta personalità politica" per il quale oltre tutto constava personalmente al Maccari che l'organizzazione era impegnata, anche operativamente, con gli esponenti di più elevato livello, oltre che con un eccezionale spiegamento di uomini e mezzi.

2. E' comune ad entrambi gli appellanti il motivo che ricusa l'unificazione delle imputazioni loro rispettivamente ascritte ai capi C) e D) e la qualificazione dei fatti che ne costituiscono l'oggetto cioè il sequestro dell'On. Moro ed il suo omicidio come violazione dell'art. 289 bis del codice penale.
La censura non si rivolge all'applicazione in sentenza dell'art. 521/1 C.p.p., giudicata corretta in considerazione della mancanza di una qualsiasi imputazione del fatto contestato. Né, tanto meno, alla ritenuta applicabilità al delitto di sequestro di persona sub C), in quanto reato permanente, della disciplina modificativa dell'art. 630 C.p.. introdotta con il D.I,21.3.1978 n. 59 emanato successivamente alla attuazione del sequestro e prima della cessazione della permanenza verificatasi con il tragico, epilogo del 9 maggio 1978. ma, invece, alla assunzione del fatto omicidiario in danno dell'On. Moro sotto la figura di reato prevista dall'art. 289 bis C.p., introdotta dopo l'uccisione dell'ostaggio con la legge di conversione n. 191 del 18.5.1978, anziché sotto quella originariamente contestata come violazione dell'art. 57-D C.p.
Ovviamente non può avere rilievo, ai fini della risoluzione del problema proposto con gli atti di impugnazione, l'argomento, di evidente portata meta giuridica, che la violazione della suddetta norma incriminatrice non sia mai stata contestata nei processi in precedenza celebrati sulla vicenda Moro e non sia stata neppure contemplata nella richiesta della misura cautelare nei confronti del Maccari e nella relativa ordinanza. Né lo ha la circostanza che il nuovo titolo di reato sia stato aggiunto soltanto al momento della richiesta di rinvio a giudizio, peraltro senza le modificazioni del capo di imputazione che avrebbero dovuto seguire alla trasformazione dell'omicidio Moro da reato autonomo a elemento costitutivo ovvero a circostanza aggravante di un altro reato.
Appare invece corretta la impostazione data al problema di fondo da entrambe le difese degli appellanti. Giacché esso - a parte l'improprio richiamo in uno degli atti di gravame, all'art. 2 del codice penale, dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio nella parte riguardante l'applicabilità della norma nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge o nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti (Corte Cost., sent. 22.2.1985,n. 51) - è stato puntualmente ricondotto nell'ambito del rapporto tra la normativa introdotta con il D.L. n. 59/78 egli emendamenti approvati con la legge di conversione n. 191/78.E ciò con la tesi che la legge di conversione avrebbe operato, a mezzo di veri e propri emendamenti innovativi capaci come tali di determinare l'inefficacia ex tunc del D.L. n. 59/787
“uno stravolgimento totale della normativa introdotta con il provvedimento di urgenza".
E tuttavia la tesi prospettata dagli appellanti è priva di qualsiasi fondamento e non può essere seguita.
A parte il fatto che la deduzione in merito alla natura innovativo degli emendamenti approvati in sede di conversione del decreto legge è rimasta allo stato di mera enunciazione, mancando perfino l'indicazione degli elementi normativi di radicale novità che sarebbero stati immessi nell'impianto proposto con la decretazione d'urgenza, è il caso di osservare che il semplice, forse pedante, raffronto dei due complessi normativi fa risaltare l'assenza tra l'uno e l'altro di rilevanti elementi distintivi, tali da denotare una sostanziale difformità dell'orientamento del legislatore rispetto al punto di vista espresso nel provvedimento del governo.
Invero l'art. 2 del D.L. 21.3.1978 n. 59 così disponeva: "L'art. 630 del codice penale è sostituito dal seguente: Art. 630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo o di eversione).- Chiunque, allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, ovvero per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, sequestra una persona è punito con la reclusione di anni trenta -. Se dal sequestro deriva la morte della persona sequestrata si applica la pena dell'ergastolo. Nel caso di sequestro a scopo esclusivo di estorsione, se la persona sequestrata è liberata senza che sia stato conseguito il prezzo della liberazione, la pena prevista nel primo comma è diminuita se taluno dei concorrenti, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall'art. 605.- Nel caso di sequestro per finalità di terrorismo o di evasione dell'ordine democratico, se taluno dei concorrenti, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, si applica la reclusione da due a otto anni. - Nei casi previsti dalla seconda parte del terzo comma e dal quarto comma, se il soggetto passivo muore, dopo la liberazione, in conseguenza del sequestro, si applica, rispettivamente, la reclusione da sei a dodici anni e da otto a quindici anni".
Mentre l'articolo unico della legge di conversione n. 191 del 18.5.1978, per la parte che interessa la questione di cui si tratta, ha invece statuito:
a) L'art. 2 è sostituito dal seguente: "Dopo l'art. 289 del codice penale è inserito il seguente: Art. 289 bis (Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di evasione).- Chiunque per finalità di terrorismo o di evasione dell'ordine democratico sequestra una persona è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni.- e dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta.- Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell'ergastolo .- Il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà è punito con la reclusione da due a otto anni; se il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da otto a diciotto anni.- Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni- alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da. ventiquattro a trenta anni. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiori a dieci anni, nell'ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell'ipotesi prevista dal terzo comma.
b) L'art. 630 del codice penale è sostituito dal seguente: Art.630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione).- Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta. - Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applicala pena dell'ergastolo .- Quando la persona sequestrata senza che conseguito il prezzo della liberazione, la pena prevista nel primo comma è diminuita. Al concorrente che, dissociandosi dagli adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall'art. 605.- Nel caso previsto dalla seconda parte del comma precedente se il soggetto passivo muore in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni .- Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell'ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni nell'ipotesi prevista dal terzo comma".
Orbene, la comparazione delle due discipline sul sequestro di persona a scopo di terrorismo o di evasione dell'ordine costituzionale non evidenze sostanziali differenze tra l'una e l'altra. La legge di conversione si è infatti limitata - oltre che alla separazione della fattispecie punitiva in questione da quella del sequestro di persona a scopo di estorsione ed alla sua collocazione, per evidenti ragioni di carattere sistematico, fra i delitti contro la personalità interna dello Stato - ad una semplice e più accurata ridefinizione del regime sanzionatorio. Dal momento che, da un lato; ha sostituito la pena di trenta anni di reclusione originariamente prevista per il sequestro non seguito dalla morte dell'ostaggio con quella della reclusione da venticinque a trenta anni; e, dall'altro, ha introdotto, per il caso di sequestro con la morte del sequestrato, in precedenza punito sempre con la pena dell'ergastolo, la distinzione tra l'ipotesi della morte come conseguenza non voluta dal reo, sanzionata con la reclusione di trenta anni e quella della morte da lui cagionata, punita con l'ergastolo.
E dunque deve riconoscersi che la legge di conversione non ha determinato una radicale modifica della normativa della decretazione d'urgenza. Dal che deriva che le modificazioni introdotte non rivestono la qualità di emendamenti innovativi o soppressivi, ma hanno invece natura semplicemente sostitutiva. In forza della quale entrano in vigore sin dall'origine, sostituendosi con effetto retroattivo alla disposizione soppressa.
La conclusione è del resto pienamente conforme alla pronuncia dei giudici di legittimità citata nell'impugnata sentenza (Cass. Pen. Il Sezione, 14.3.1984), che ha affrontato il tema degli emendamenti innovativi proprio con riferimento al D.L.21.3.1978 n. 59 e dalla Legge di conversione n. 191 del 18.5.1978. Ed a nulla rileva che la questione sia stata trattata in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, in quanto il perfetto parallelismo delle modifiche introdotte in sede di conversione alle due fattispecie considerate nel decreto-legge comporta di necessità l'identità dei problemi e della soluzione da adottare.
La conclusione elimina ovviamente alla radice, per effetto della retroattività della entrata in vigore della legge di conversione, anche la questione circa la possibilità di un rapporto di successione nel tempo della normativa del decreto - legge e di quella della legge di conversione. Per tale ragione è inaccoglibile la richiesta di riduzione di pena avanzata dal Procuratore Generale nei confronti di Etro Raimondo, sul presupposto dell'applicabilità come a lui più favorevole del decreto- legge e, per effetto del mancato regolamento in tale provvedimento del concorso di circostanze attenuanti, dell'art, 65 n. 2 -C.p. che prevede la costituzione della pena dell'ergastolo con la reclusione da venti a ventiquattro anni, in luogo di quella da ventiquattro a trenta anni indicata nell'art. 289 bis C.p.

3. Ugualmente prive di fondamento sono le doglianze rivolte dalla difesa di Etro Raimondo alla identificazione del reato più grave operata dai primi giudici ai fini della determinazione della pena base applicabile. Con le quali si deduce che l'inapplicabilità della figura di reato delineata dall'art. 289 bis C.p. - comportando un raffronto tra i vari reati di omicidio specificati ai capi A), B) ed D), tutti puniti con la stessa pena edittale dell'ergastolo - farebbe entrare in gioco, quali criteri sussidiari di valutazione, il dato cronologico o quello del fatto materiale più grave. E, inoltre, che l'individuazione della violazione più grave nel reato di cui all'art. 289 bis C.p., ove applicabile, sarebbe comunque errata in quanto "effettuata attraverso il riconoscimento delle attenuanti generiche". La conferma della statuizione dell'impugnata sentenza ,concernente la qualificazione dei fatti di cui ai capi C) e D) come violazione dell'art. 289 bis C.p. travolge il primo profilo dell'assunto difensivo. Poiché la permanenza della predetta figura di reato elimina, come è implicitamente riconosciuto anche dalla difesa dell'appellante, la condizione del raffronto tra ipotesi della stessa gravità e la conseguente possibilità del ricorso ai criteri sussidiari di valutazione. A proposito dei quali si deve peraltro precisare che sarebbe errata la individuazione della violazione più grave, siccome fatto materiale più grave, nel quintuplice omicidio di via Fani, costituendo anche questo un reato continuato che a sua volta riproporrebbe al suo interno il medesimo problema. Come sbagliata sarebbe, in quanto fondata esclusivamente su dati. di carattere soggettivo, l'identificazione del fatto materiale più grave nell'omicidio del giudice Palma in ragione del più forte coinvolgimento morale e materiale che in esso avrebbe avuto l'Etro.
Mentre, per quanto riguarda il superstite argomento, si può sottolineare che non è esatto che i giudici di primo grado, violando i criteri fissati dalla giurisprudenza in materia di continuazione, abbiano individuato il reato più grave attraverso e dopo la concessione delle attenuanti generiche. In realtà il ragionamento della Corte d'Assise appare rigorosamente ancorato al principio di legalità perché la identificazione della violazione più grave nel reato ex art. 289 bis C.p. è ricollegata in via esclusiva al rilievo che tale norma incriminatrice prevede edittalmente la pena dell'ergastolo, laddove tale sanzione richiede, nel reato di omicidio ai sensi dell'art. 575 C.p., la presenza di talune circostanze aggravanti. Ed all'argomento aggiuntivo che, mentre in quest'ultimo reato sarebbe possibile in caso di concorso di circostanze attenuanti ed a seguito del dovuto giudizio di comparazione la totale eliminazione degli effetti delle aggravanti che comporterebbero la pena dell'ergastolo (e, potrebbe soggiungersi, perfino l'applicazione di una pena inferiore al minimo edittale), ciò non può invece verificarsi per il reato di cui all'art. 289 bis C.p., stante la rigida delimitazione degli effetti riduttivi di eventuali circostanze attenuanti stabilita nel quinto comma.

4) Nell'interesse dello stesso Etro è invocata, con l'ultimo motivo di gravame, la prevalenza delle concesse attenuanti generiche, con conseguente massima riduzione della pena inflitta. Anche tale istanza è inaccoglibile perché la formulazione dell'art. 289 bis C.p. non consente, per quanto già rilevato in merito allo specifico regolamento in esso contenuto del concorso di circostanze attenuanti il giudizio di comparazione richiesto dall'appellante.
D'altro canto la pena inflitta non può essere ridotta per altra via, risultando che la pena base è stata stabilita nel minimo editale di ventiquattro anni di reclusione e che l'aumento applicato a titolo di continuazione è stato contenuto, avuto riguardo al numero ed alla gravità delle altre violazioni, nella misura quasi simbolica di sei mesi di reclusione.

5. In favore del Maccari è invece sollecitata l'applicazione dei benefici riconosciuti ai dissociati dall'art. 4 D.L. 15.12.1979 n. 625, convertito in Legge 6.2.1980 n. 15, e dall'art. 2 della Legge 18.2.1987 n. 34.

A parte la questione circa la ricorrenza della condizione stabilita dal provvedimento il quale, come è noto, richiede che l'aspirante, dissociandosi dagli altri, si sia adoperato per evitare che l'attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori, ovvero abbia aiutato concretamente l'autorità di polizia e l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti - è di ostacolo all'applicazione dei benefici previsti dalla legge n. 15/1980 l'espressa esclusione (cfr. art. 4) del reato di cui all'art. 289 bis C.p.- ritenuto anche nella presente sentenza, a carico dell'imputato. Mentre osta al riconoscimento dei benefici della legge sulla dissociazione n. 34/1987, peraltro legati anch'essi all'ammissione delle attività effettivamente svolte e ad altre precise condizioni, il decorso del termine di trenta giorni, dall'entrata in vigore della legge. Non può infatti condividersi l'assunto secondo cui, avendo già il Maccari usufruito dei benefici di tale normativa, l'applicazione di essi anche nell'attuale processo potrebbe essere considerata come un'estensione non soggetta a termini di decadenza. Né, tanto meno, può ritenersi che il termine di decadenza stabilito dalla legge si riferisca soltanto a coloro che avessero già assunto all'epoca la qualità di imputato o di condannato. Senza contare che, neppure aderendo a tale azzardata tesi, potrebbe apprezzarsi come tempestiva la dissociazione del Maccari, sempre ammesso che essa possa qualificarsi per tale, atteso che egli ha comunque assunto la veste di imputato sin dal 1995 ed ha confessato la sua partecipazione ai fatti di Via Fani soltanto il 19 giugno 1996.
E' infine avanzata in favore di Maccari Germano la richiesta di concessione delle attenuanti generiche, specificamente motivata con il dissenso da lui manifestato nell'ambito dell'organizzazione circa la sorte dell'On. Moro; con la sua uscita dalle B.R. avvenuta nel maggio 1978, cioè nel momento in cui l'organizzazione era all'apice del successo, con l'abbandono della lotta armata, non seguito dall'ingresso in altre strutture eversive; con la mancata commissione in epoca successiva ai fatti di causa di reati, anche di minima entità; con la completa dissociazione all'epoca del primo arresto e con la rischiosa condotta di collaborazione alla fine del terrorismo; con la confessione totale sincera e incondizionata resa davanti ai primi giudici; con la giovane età all'epoca dei fatti e la conseguente influenza di un'aberrante ideologia; con la disponibilità a sottomettersi al giudizio dimostrata anche dopo la sentenza di primo grado ed il provvedimento del Tribunale del riesame; con il totale cambiamento della sua persona intervenuto a distanza di ormai quasi venti anni dal delitto.
A tale riguardo sono da condividere per la maggior parte le valutazioni espresse in sentenza dai primi giudici e dal Procuratore Generale nel corso della sua requisitoria.
In verità non vi sono in atti, se si fa eccezione per le generiche indicazioni del Morucci su contrasti a tale proposito insorti nell'ambito dei militanti presenti nella base di Via Montalcini, elementi idonei a comprovare la contrarietà del Maccari alla uccisione dell'ostaggio. In ogni caso, ammesso pure che egli abbia manifestato una siffatta posizione al cospetto del Moretti e del Gallinari, non sono emersi, anzi non sono stati neppure rivelati dal diretto interessato, atti conseguenti di alcun genere. Risultando, per contro, la piena e continua collaborazione dell'imputato anche nella fase finale dell'eliminazione del prigioniero, con condotte di enorme rilevanza sotto il profilo dell'apporto personale alla realizzazione del delitto.
La fuoriuscita dall'organizzazione delle Brigate Rosse in epoca immediatamente successiva a quella della conclusione dell'operazione Moro, che aveva coinciso con il momento del massimo successo della struttura terroristica, non è suscettibile di apprezzamento positivo sufficientemente significativo. Sebbene non sia rimasto adeguatamente provato che essa sia stata determinata, secondo le indicazioni della Faranda, dallo scarso, gradimento del soggetto verso la sua destinazione alla brigata di Monte Spaccato, e per giunta in sottordine rispetto a militanti di sesso femminile, rileva negativamente che a tale fuoriuscita non abbiano fatto seguito comportamenti dimostrativi di una effettiva revisione critica del proprio passato e della definitiva ripulsa del terrorismo come metodo di lotta politica. Come è attestato dal ritardo della dissociazione, intervenuta soltanto in epoca successiva al primo arresto, e soprattutto dalla sua incompletezza. La stessa conclusione deve adottarsi per quanto concerne il fatto che dopo l'abbandono delle Brigate Rosse egli non sia entrato, a differenza di quanto riscontrato per altri militanti approdati a posizioni di contrasto con la linea dell'organizzazione, in altre gruppi terroristici. Anche in questo caso il comportamento del Maccari, seppure non ascrivibile con sicurezza ad un senso di appagamento per quanto già fatto nell'ambito complessivo della sua militanza e della partecipazione alla vicenda Moro, non costituisce prova di un effettivo ripensamento della propria esperienza all'interno del movimento eversivo.
Quanto alla mancata commissione di altri reati in epoca successiva a quella del sequestro Moro, non può farsi a meno di osservare anche a voler sorvolare sull'accenno del Procuratore Generale alle gravi reticenze dell'imputato ed alla parzialità delle sue ammissioni in occasione della "dissociazione" seguita al primo arresto, che non possono ricavarsi da un tale dato - avuto soprattutto riguardo alla estrema gravità.. dell'assassinio dell'On. Moro, quale chiunque può cogliere, senza per questo mancare di rispetto verso le eroiche figure degli uomini della scorta e sottrarsi al debito di riconoscenza che compete a tanto devoti servitori dello Stato, dalla profonda umiliazione con esso inflitta a tutti i cittadini e dal radicale cambiamento impresso alla storia del paese; nonché alla particolare efferatezza delle modalità di esecuzione ed al grado di coinvolgimento, morale e materiale, del Maccari nel delitto, elementi idonei a giustificare un più indulgente giudizio sul fatto - reato.
In merito poi alla dissociazione dell'imputato in occasione del primo arresto ed alla rischiosa opera di collaborazione alla sconfitta del terrorismo, attuatasi quest'ultima attraverso la promozione , della dissociazione all'interno dell'istituzione carceraria, occorre ribadire ancora una volta la evidente strumentalità della posizione del Maccari siccome assunta in vista dei benefici puntualmente riconosciutigli. E soprattutto la sua parzialità, in contrasto con la precisa condizione della “ammissione delle attività effettivamente svolte" inoppugnabilmente dimostrata dalle successive rivelazioni in ordine alla militanza nelle Brigate Rosse ed alla partecipazione al sequestro ed alla uccisione dell'On. Moro.
Neanche la confessione "totale sincera ed incondizionata" resa davanti ai primi giudici consente i positivi apprezzamenti sul conto del Maccari reclamati dalla difesa.
E' indubitabile, anzitutto, che essa si debba considerare, in conformità delle annotazioni sul punto dell'impugnata sentenza, tardiva. E' infatti intervenuta soltanto all'udienza del 19 giugno 1996, dopo una lunga e tormentata indagine preliminare ed un altrettanto lunga e defatigante istruttoria dibattimentale, nel corso delle quali l'imputato non si è limitato, come avrebbe potuto fare nell'esercizio del diritto di difesa, a protestare la propria estraneità ai fatti. Ma ha addirittura assunto un atteggiamento di tracotante sfida nei confronti della sua accusatrice, con esplicite minacce di denuncia per calunnia. E non ha esitato ad esporre a rischio di incriminazione la fidanzata dell'epoca e prossimi congiunti, incautamente indotti come testi a discarico su fatti incompatibili con la sua partecipazione alla vicenda nel ruolo, in seguito ammesso, del sedicente Ing. Altobelli.
E' ugualmente certo che la confessione non presenti in alcuna misura il carattere della spontaneità, che comunemente si annovera tra gli indici del ravvedimento del reo. Essendo stata necessitata dalla finalmente riuscita acquisizione del contratto dell'utenza A.C.E.A. relativa all'appartamento di Via Montalcini e dalla disposta perizia grafica, per la consapevolezza che questa avrebbe immancabilmente accertato l'appartenenza al prevenuto delle sottoscrizioni al nome di Luigi Altobelli in esso apposte. Ed apparendo sicuramente inaccoglibile la tesi della difesa nel punto in cui sostiene che il giudizio di identità tra la firma dell'Altobelli e quella del Maccari, espresso dal perito dopo la confessione dell'imputato, sia stato influenzato dal mutamento della sua posizione processuale; ovvero che il suddetto giudizio non avrebbe avuto l'effetto di precludere inesorabilmente la possibilità di una assoluzione dell'imputato, dato il limitato valore probatorio assegnato a quelle indagini peritali. Soprattutto se si ha la dovuta considerazione per la decisa opposizione del Maccari all'espletamento della perizia grafica e per il suo astuto tentativo di invalidare le scritture di comparazione già acquisite in atti, le più affidabili in quanto coeve a quelle da sottoporre alla verifica, evidentemente ispirato dal convincimento che un accertamento su di esse fondato noli avrebbe potuto avere un esito per lui favorevole.
E' comprovato, infine, come la confessione del Maccari sia tutt'altro che completa anche per aspetti tra i più rilevanti della vicenda. A parte l'accertato mendacio dell'imputato sulla cooperazione da lui prestata per il trasferimento dell'ostaggio dal garage della Standa di Viale dei Colli Portuensi alla base di via Montalcini, deve infatti ritenersi per falso il suo assunto di non aver sparato personalmente sulla persona dell'On. Moro, ma di essersi limitato a passare al Moretti, a seguito dell'inceppamento dopo i primi colpi della pistola Walter PFK la mitraglietta Skorpion con la quale era stato finito lo statista. A tale proposito - tralasciando la questione circa la pertinenza all'una o all'altra condotta, perfettamente equivalenti sotto il profilo della responsabilità penale, del primato della spregevolezza dal punto di vista etico - è il caso di osservare che l'attribuzione al Maccari, in correlazione al suo ruolo di "copertura ravvicinata" al fianco del Moretti, di una parte diretta nella esplosione dei colpi di arma da fuoco contro l'On. Moro non costituisce una forzatura interpretativa delle dichiarazione rese dalla Faranda. Tanto più che essa non appare in alcun modo contrastata dagli esiti della perizia necroscopica sulla vittima e, segnatamente, dal decorso intrasomatico sostanzialmente unidirezionale dei proiettili, certamente idoneo a dimostrare l'identità del punto di origine dei colpi, ma non ad escludere che due diverse persone, in momenti successivi ed a causa dell'inceppamento di una delle armi, si siano collocate nella medesima posizione di sparo. E non è affatto smentita dall'affermazione del sempre ambiguo Moretti, fatta anch'essa nel corso della quasi salottiera intervista alle giornaliste Rossanda e Mosca come a rivendicazione della indivisibilità con altri militanti dello storico "onore" della materiale eliminazione dello statista, secondo cui egli non avrebbe permesso ad altri di sparare contro l'ostaggio. Essendo tale affermazione a sua volta contraddetta da quanto riportato dal Morucci in merito proprio a quella sorta di referendum su chi avrebbe ucciso l'On. Moro tenuto dal Moretti nel corso della riunione della direzione di colonna dell'8 maggio 1978 ed alla sua risoluzione inevitabile dopo il glaciale silenzio osservato da tutti gli interpellati, di farlo personalmente.
E' tuttavia, riconfermata la negatività di tutti gli elementi fin qui analizzati, può essere apprezzata favorevolmente, fino a prevalere sui dati di segno contrario e perfino su quello rappresentato dal più rigoroso trattamento sanzionatorio riservato agli altri tre carcerieri dell'uomo politico, la circostanza che la condanna interviene a distanza di quasi venti dagli eventi. Certo il decorso del tempo non è un mero accidente, essendo anch'esso ricollegabile a condotte di tipo omertoso di alcuni dei protagonista della vicenda, e comunque non può attenuare il giudizio che l'eliminazione dell'On. Moro è ancora tra i crimini più gravi nella storia del paese. Però non si può obliterare il fatto oggettivo che la condanna colpisce un soggetto, cui fra l'altro non si potrebbe rimproverare di non aver confessato prima le proprie responsabilità, che è radicalmente diverso da quello che negli anni giovanili si è reso autore dell'impresa delittuosa. Il Maccari, per quanto emerge dagli atti di causa, ha ormai acquisito una maturità ed una capacità di riflessione che, seppure non si sono tradotte in atti concreti di ravvedimento, consentono di ritenere che abbia ormai improntato la sua esistenza ai valori della vita e della democrazia. Risulta inoltre dedito alla famiglia e ad un lavoro dagli ampi risvolti sociali, utile perciò ad accrescere la comprensione delle reali esigenze della collettività. Ed ha dato adeguata dimostrazione, anche con la condotta successiva alla scarcerazione disposta dal Tribunale del riesame, di non volersi sottrarre al giudizio ed all'esecuzione della pena.
Il tutto assevera una condizione complessiva dell'individuo che giustifica in termini di certezza, non di prognosi soltanto, il suo pieno reinserimento nella società. Che, a sua volta, può essere senza alcun dubbio considerato fattore di maggiore afflittività della sanzione.
Appare pertanto giustificata la concessione delle attenuanti generiche. La pena può essere conseguentemente determinata in trenta anni di reclusione, quale risulta dalla pena base di ventisei anni di reclusione per il più grave reato di cui all'art. 289 bis C.p., aumentata di nove mesi per ciascuno degli omicidi di cui al capo B), perciò nella complessiva misura di tre anni e nove mesi, e di tre mesi per il delitto di cui al capo A).

7. Riformata nei termini sopra esposti, l'impugnata sentenza deve essere confermata nelle residue statuizioni.
Etro Raimondo deve essere condannato al pagamento delle spese del grado.
Lo stesso Etro ed il Maccari debbono essere condannati in solido al rimborso delle spese delle parti civili Maria Agnese Moro e Giovanni Moro, Giovanni Ricci e Sandro Leonardi, Ileana Lattanzi e Maria Rocchetti, mentre il Maccari deve essere condannato al rimborso di quelle sostenute dalle altri parti civili Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell'Interno, nelle misure risultanti dal dispositivo.

P. Q. M.

visto l'art. 605 C.P.P. in riforma della sentenza della Corte di Assise di Roma in data 16.7.1996 appellata da MACCARI Germano e ETRO Raimondo concede al MACCARI le attenuanti generiche e riduce la pena allo stesso inflitta a trenta anni di reclusione;
conferma nel resto l'impugnata sentenza e condanna ETRO Raimondo al pagamento delle spese del grado; condanna, MACCARI Germano e ETRO Raimondo al rimborso sostenute dalle parti civili che le liquida in lire 4.040.000 di cui lire 4.000.000 per onorario in favore di Maria Agnese Moro e Giovanni Moro, in lire 4.060.000 di cui lire 4.000.000 per onorario in favore di Giovanni Ricci e Sandro Leonardi e in lire 4.000.000 di onorario per Ileana Lattanzi e Maria Rocchetti;
condanna infine MACCARI Germano al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell'Interno che liquida in complessive lire 4.000.000 di cui lire 3.700.000 per onorario di avvocato.
 
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