Relazione di Minoranza PLI

03. Disfunzioni, omissioni e responsabilità nella direzione e nell'espletamento delle indagini dopo

Documento aggiornato al 15/04/2005
La conclusione cui si arriva quasi naturalmente è che le indagini sul caso più clamoroso di sequestro politico furono svolte affannosamente e confusamente, senza strategia e senza obiettivi mirati. Fu la prova della grande inefficienza dei servizi di sicurezza e della mancanza di una intelligente e sistematica capacità di intervento delle forze di polizia, che peraltro scesero in campo in numero ingente effettuando migliaia di controlli, perquisizioni, accertamenti, rastrellamenti. Anche reparti dell'esercito vennero utilizzati per le ricerche e i controlli. Dal 16 marzo al 10 maggio 1978 circa 13 mila uomini impiegati giornalmente effettuarono 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella cinta urbana di Roma; 37.702 perquisizioni domiciliari, di cui 6.933 nella cinta urbana di Roma; 6.413.713 controlli di persona, di cui 167.409 nella cinta urbana di Roma.
Nonostante tanto dispiego di forze, si è appurato - ed è sconcertante che all'epoca del caso Moro era in vigore un sistema di pianificazione per l'ordine pubblico che risaliva agli anni '50. Esso prevedeva - annota la Commissione in un suo documento - fenomeni di grave turbamento eversivo da parte di masse ma non azioni di tipo terroristico.
Sta di fatto che i terroristi in quei giorni hanno continuato a muoversi senza difficoltà: furono recapitate 24 lettere di Moro dalla prigione, furono diffusi 9 comunicati delle BR, furono compiuti due omicidi (a Torino fu ucciso l'l1 aprile l'agente di custodia Lorenzo Cotugno; a Milano il 20 aprile fu ucciso il maresciallo degli agenti di custodia Francesco Di Cataldo), 6 ferimenti, 5 incendi d'auto, un attentato ad una caserma dei carabinieri.
L'episodio più clamoroso fu quello del covo di via Gradoli, definito giustamente una occasione mancata. Più tardi, quando finalmente la polizia penetrò, dopo una segnalazione, nello stesso covo venne scoperto materiale prezioso per le indagini. Ma ormai era tardi.
Vi fu, poi, la "retata" degli autonomi del 3 aprile e del 6 maggio 1978. La polizia romana fermò e denunciò complessivamente 60 persone per partecipazione ad associazione sovversiva, scarcerandole poi tutte dopo qualche giorno. Tra costoro erano nomi come Valerio Morucci, Adriana Faranda, Stefano Ceriani Sebregondi, Renata Bruschi, Lanfranco Pace, Daniele Pifano, Franco Piperno, Maria Fiora Pirri Ardizzone, Bruno Seghetti.
Ancora:tra le foto di terroristi ricercati diffuse il pomeriggio del 16 marzo, e cioè subito dopo il fatto di via Fani, ve ne erano due di persone già in carcere e due che si riferivano alla stessa persona indicata con nomi diversi. Qui si raggiunse il grottesco.
Significative sono alcune deposizioni.
Onorevole Cossiga, allora ministro dell'interno: "Le forze di polizia potevano fronteggiare episodi sporadici di terrorismo, ma lo Stato nel suo complesso non era preparato ad affrontare fenomeni terroristici tipo caso Moro da un punto di vista ordinamentale e organizzativo."
Generale Corsini, comandante dell'Arma dei carabinieri: "Il terrorismo è passato da obiettivi fino ad allora considerati normali ad obiettivi impensabili senza immaginare le profonde ramificazioni, prendendoci in contropiede dopo un lungo periodo di incubazione."
Il Capo della polizia, il prefetto Parlato: "All'epoca della tragedia di via Fani ci siamo trovati in una condizione di vacanza dei servizi di sicurezza".
Generale Giudice, comandante della Guardia di Finanza: "Può essersi verificata qualche disfunzione per lo scarso peso che in quel momento avevano gli organi informativi dello Stato. Mi riferisco particolarmente al SISMI e al SISDE".
Dunque: indagini fatte a caso, senza un organo coordinatore, senza un'organizzazione investigativa efficiente, senza un "patrimonio" di conoscenza del fenomeno terroristico, senza piani né per la prevenzione né per la repressione. Lo scompaginamento dei servizi informativi operato a suo tempo ebbe in sostanza una conseguenza nefasta.
Solo più tardi - ma ci volle la tragedia di via Fani - si affidò l'incarico di coordinamento della lotta contro il terrorismo al gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Scoordinamento nelle indagini vi fu anche nell'opera della magistratura. Il dottor Luciano Infelisi, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, che ebbe la responsabilità dell'indagine fino al 29 aprile 1978, ha dichiarato alla Commissione che si trovò a dover occuparsi del clamoroso caso Moro insieme con casi di furto, normali udienze dibattimentali, senza avere a disposizione "alcun ufficiale di polizia giudiziaria, con una sola dattilografa e senza neanche un telefono nella stanza." Quando egli se ne lamentò con i superiori, la risposta fu che "bisognava arrangiarsi".
Il Procuratore capo della Repubblica di Roma, dottor Giovanni De Matteo, ha ammesso che nella fase delle indagini preliminari si brancolava nel buio.
Il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, dottor Pietro Pascalino, ha deposto a sua volta che in quei giorni si fecero operazioni di parata più che ricerche.
Si verificarono naturalmente conflitti di competenze tra polizia e carabinieri, tra questi e la magistratura, con le autorità politiche e quelle militari, con ritardi, omissioni, indagini alla cieca. E' quasi incredibile il fatto che una borsa e un portamonete siano stati rinvenuti nell'auto dell'on. Moro, che era stata portata nel cortile della Questura di Roma, solo dopo cinque giorni.
 
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