Relazione del Sen. Raniero La Valle

09. Le lettere di Moro

Gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente del Senato

Documento aggiornato al 29/04/2005
Al di là dell'emozione e del tormento che tradivano, le lettere di Moro cercavano in effetti di fornire alla classe politica, ponendosi sul suo stesso terreno, argomenti e ragioni giuridiche, politiche e morali, che a partire dalle sue stesse motivazioni, potessero condurla a scelte e comportamenti diversi. Moro recepiva ad esempio il motivo della ragion di Stato, e suggeriva un'altra ragion di Stato (evitare la spirale di sangue, il prolungamento del processo, l'indurimento dell'immagine delle forze politiche, ecc.); recepiva il principio della inviolabile legalità, e suggeriva di attuarlo tenendo presente altresì il principio giuridico formale dello stato di necessità, il principio sostanziale della giustizia come contenuto e fine della legalità, quello dottrinale della storicità del diritto e del rapporto tra astrazione della norma e giuridicità concreta; recepiva l'argomento politico della fermezza come estremo argine contro le Brigate Rosse, e suggeriva un'altra metodologia politica a suo avviso più efficace nella tragica partita apertasi tra lo Stato e il terrorismo; recepiva la distinzione tra piano politico e piano umanitario, e suggeriva di non confondere "umanitario" con gratuito o a buon mercato, chiedendo alla stessa politica di assumersi il carico delle intenzioni umanitarie.
Evocando questi contenuti delle lettere di Moro, non si vuole qui entrare nel merito di essi, per accettarli o respingerli. Ma è importante ricordare che di questo parlavano le lettere, di una tematica cioè propria al mondo della politica e delle istituzioni, comune a Moro e ai destinatari delle lettere, e del tutto estranea invece alla cultura, alla mentalità e alle metodologie delle Brigate Rosse; sicché a parte ogni altra considerazione, riesce impossibile schiacciare le parole di Moro su quelle delle BR, considerandole articolazioni di un unico discorso. Piuttosto è da rilevare che la insistenza di Moro nello scrivere una così grande quantità di lettere, più che il segno di una concitata volontà di salvare la vita, era indice della fiducia che egli manteneva verso coloro cui scriveva, della convinzione della loro buona fede, e della persuasione che attraverso la riflessione e il ragionamento essi potessero essere portati a determinazioni diverse. Altrimenti Moro avrebbe smesso di scrivere. E questa fiducia nella utilità di un rapporto a cui mai rinunciare, anche nelle condizioni più difficili, questa strenua fiducia nella capacità del pensiero, del ragionamento, del dialogo a cambiare le menti e a mutare le cose, questa fedeltà alla mediazione tentata fino alla fine, anche quando tutto era contro di essa, è forse una delle non ultime lezioni venute dal prigioniero.
In quanto non si identificavano con nessuna delle due linee che allora si contrapponevano, le tesi di Moro avrebbero potuto fungere come termine di confronto e di interazione per ambedue. Ma la rimozione delle lettere di Moro, come a lui non ascrivibili, evitarono ad ambedue le linee di misurarsi con quella posizione di Moro, col risultato che esse apparvero, ambedue, insufficientemente motivate, capaci di garantire solo alcuni, ma non tutti i valori in gioco, e di fatto subalterne al terreno di scontro o di mediazione imposto dalle Brigate Rosse. Quel trascendimento della rigida contrapposizione tra le due linee non è stato possibile nemmeno nel confronto tra le forze politiche ripetutosi nel corso dei lavori della Commissione Parlamentare, il che spiega il perché degli schieramenti che si, sono formati nel voto finale della relazione e spiega ulteriormente il perché della nostra astensione.

Roma, 30 giugno 1983
 
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