Il covo di via Gradoli

Documento aggiornato al 25/02/2004
Al numero 96 di via Gradoli agenti del Corpo di Polizia (brigadiere Domenico Merola, vice brigadiere Ferdinando Di Spirito, appuntato Vincenzo Colucci, appuntato Domenico Firmani e guardia Michele Di Muccio) si recarono per la prima volta ad appena due giorni dalla strage, il 18 marzo, per compiere una perquisizione in esecuzione della disposizione impartita dalla Direzione generale di PS. In quella strada si trovano due soli edifici, costituiti da mini-appartamenti normalmente affittati per non lungo periodo.
L'appartamento che si sarebbe poi rivelato un covo, non venne tuttavia perquisito in quanto, trovata chiusa la porta, il sottufficiale di P.S. incaricato dell'ispezione e gli altri agenti si fidarono dell'assicurazione dei vicini, secondo la quale gli inquilini erano persone tranquille.
Alla Commissione, invece, è stato riferito - e in sede di indagine giudiziaria e dibattimentale dinanzi alla Corte d'Assise di Roma la circostanza è stata confermata - che due giovani, Gianni Diana e Lucia Mokbel - che abitavano nell'appartamento posto sullo stesso pianerottolo dell'appartamento-covo - riferirono agli agenti di PS che la notte precedente alla strage avevano percepito rumori, simili a segnali "morse", provenienti però da direzione opposta a quella dell'appartamento in questione. Essi avrebbero fatto verbalizzare la circostanza, affidando agli stessi agenti l'incarico di riferirne al funzionario di Polizia dottor Cioppa. Il sottufficiale che diresse l'operazione di via Gradoli ha escluso, tuttavia, in modo categorico che sia stato dichiarato qualcosa di simile a lui o ad elementi della squadra e di avere ricevuto alcun messaggio da riferire ad alcuno. Sull'episodio non è stata compiuta alcun inchiesta da parte dei superiori degli agenti incaricati dell'ispezione, né alcun provvedimento è stato adottato per la grave inosservanza delle prescrizioni relative alle perquisizioni.
Le modalità di effettuazione dei controlli di via Gradoli hanno richiamato l'attenzione della Commissione, che non ha mancato di compiere i necessari approfondimenti circa le disposizioni impartite dalle autorità.
Il Ministro dell'Interno e i Capi delle forze di Polizia hanno rappresentato le difficoltà notevoli che sarebbero derivate dallo sfondamento di tutte le porte trovate chiuse, e non solo di quelle di appartamenti in ordine ai quali esistevano specifiche ragioni di sospetto.
Il dottor Infelisi ha dichiarato che a via Gradoli 96 si andò, e si andò non solo lì, si andò a cercare tutti i miniappartamenti e i residences della zona; fra questi 30 o 40 palazzi c'era anche via Gradoli n. 96. Non c'era stata nessuna indicazione per via Gradoli n. 96".
Il Questore di Roma aveva però fatto presente che se fossero stati aperti tutti gli appartamenti degli assenti, non si sarebbero avuti uomini sufficienti per poterli piantonare e difendere dai ladri. In conseguenza di questa obiezione l'ordine tassativo del magistrato fu limitato alla zona di competenza del Commissariato Monte Mario: se gli inquilini non rispondevano alla chiamata delle forze di polizia si doveva aprire con la forza; se nessuno degli inquilini veniva trovato all'interno gli agenti avrebbero dovuto piantonare lo stabile fino all'arrivo di qualcuno di essi.
Gli ordini furono impartiti oralmente nel corso di una riunione svoltasi nella sede della Procura della Repubblica. Ma essi non furono sempre eseguiti per la difficoltà di attendere gli inquilini, magari per tutta la notte; e diversi furono i comportamenti da parte delle forze di polizia: gli uomini della guardia di finanza lo rispettarono, in molti casi aspettando tutta la notte, facendo irruzione la mattina e poi rimettendo con i fabbri tutto a posto.
Tuttavia non si può dire che perquisizioni e sfondamenti siano stati limitati ai pochi casi in cui qualche segnalazione od altri elementi potevano averne suggerito l'opportunità.
Infatti sfondamenti di porte furono effettuati, non di rado in maniera massiccia ed indiscriminata, producendo ovviamente diffusi disagi e critiche.
Le abitazioni non verificate non sono state successivamente sottoposte a controlli; perciò è verosimile ritenere che i terroristi, saputo del primo infruttuoso controllo, abbiano continuato tranquillamente a frequentare ed utilizzare l'alloggio, sentendosi in un certo senso "coperti" dalla effettuata perquisizione.
Il nome Gradoli venne di nuovo in evidenza il 6 aprile, ma non come strada urbana di Roma, bensì come paese, allorché vennero controllate, ad opera della Questura di Viterbo, alcune case coloniche nel comune di Gradoli, vicino al lago di Bolsena.
L'operazione fu compiuta a seguito di una segnalazione pervenuta alla Direzione generale di PS per il tramite del Gabinetto del Ministro dell'Interno. Il biglietto autografo, trasmesso al Capo della polizia dal dottor Luigi Zanda Loi, capo ufficio stampa del Ministro Cossiga, conteneva due indicazioni: una relativa a "Casa Giovoni - Via Monreale, 11 - scala D int. 1 piano terreno - Milano"; la seconda diceva: "lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina". L'appunto è del 5 aprile. Il 6 aprile personale della Questura di Viterbo compiva il sopralluogo, con esito negativo.
La segnalazione ebbe origine da una seduta parapsicologica tenutasi il 2 aprile in casa del professor Alberto Clò, nella campagna bolognese. Il professor Romano Prodi che, insieme ad altri docenti ed amici partecipò alla riunione, trasmise l'indicazione al capo dell'ufficio stampa dell'onorevole Zaccagnini, dottor Umberto Cavina.
Questi ha dichiarato al giudice istruttore Francesco Amato, innanzitutto "di aver ricevuto da varie fonti svariate notizie circa la prigione dell'onorevole Moro e di averne sempre informato il Ministero dell'interno, prescindendo da qualsiasi valutazione sulla loro attendibilità e provenienza"; di ,non ricordare chi gli segnalò la notizia relativa a "Casa Giovoni, via Monreale 11, Milano"; peraltro molte notizie gli pervenivano anche da anonimi a mezzo telefono. Per quanto riguarda la notizia concernente la località Gradoli, il dottor Cavina ha ricordato che gli fu data dal professor Prodi, che andò appositamente da lui e gli precisò, manifestando un certo imbarazzo, che essa era risultata da una seduta spiritica.
Sempre al giudice Francesco Amato, il 22 dicembre 1978, il professor Prodi ha confermato la testimonianza del dottor Cavina, aggiungendo che precedentemente ne aveva parlato "ad un collega dell'Università di Bologna, il quale aveva avvertito la DIGOS di Bologna". Il collega è stato identificato nel professor Augusto Balloni. Ma la Questura di Bologna in data 28 dicembre 1978 ha smentito di aver mai ricevuto alcuna segnalazione in merito, ed ha aggiunto, ad ogni buon fine, che il professor Balloni, titolare della cattedra di criminologia all'Università di Bologna, aveva dichiarato che la notizia era stata riferita come fatto curioso negli ambienti giudiziari del capoluogo emiliano, riservandosi di comunicare il nominativo, che al momento non ricordava, del giudice con il quale parlò.
Il professor Prodi, con il professor Mario Baldassarri, l'ingegner Franco Bernardi, la professoressa Gabriella Bernardi, il professor Alberto Clò, il professor Carlo Clò, la dottoressa Emilia Fanciulli, la dottoressa Flavia Franzoni Prodi, il professor Fabio Gobbo, la dottoressa Adriana Grechi Clò, la dottoressa Gabriella Sagrati Baldassarri, la dottoressa Licia Stecca Clò, tutti amici e parenti tra loro, hanno prima scritto e successivamente ribadito formalmente alla Commissione che tutto venne fuori da un gioco. Un piattino fu fatto scorrere su un tavolo, sul quale erano state disposte a caso le lettere dell'alfabeto, per rispondere a svariate domande. Alcune domande furono appunto poste circa il luogo in cui l'onorevole Moro era tenuto prigioniero. Tra una serie di indicazioni prive di senso compiuto e altre rilevanti, anche se non logicamente connesse, venne fuori la parola "Gradoli": nome ignoto a tutti, ma che, riscontrato su una carta geografica, si rivelò corrispondente ad una località in provincia di Viterbo. Anche "Bolsena" risultò tra le parole di senso compiuto indicate dal gioco.
La Commissione si è posta il quesito se la seduta spiritica nella campagna di Bologna non sia stata il tramite, da parte di uno dei partecipanti, per far pervenire un messaggio. Per questo ha compiuto specifiche indagini, senza tuttavia trovare alcun elemento probante di questa ipotesi. Tuttavia sono rimasti gli interrogativi, se non altro per la ricchezza dei particolari indicati nell'appunto.
Ad ogni modo, pervenuta alla Direzione generale di PS la comunicazione e riscontrato l'esito negativo dell'accertamento effettuato in provincia di Viterbo, nessuno degli inquirenti pensò di collegare l'indicazione di Gradoli-paese a quella di Gradoli-strada di Roma, dove pure un'ispezione era stata compiuta il 18 marzo 1978.
La signora Moro, che fu informata del fatto dall'onorevole Tina Anselmi, che frequentava la sua casa, ha affermato di aver fatto presente ad un funzionario di polizia, del quale peraltro non è stata in grado di ricordare il nome, l'esistenza a Roma di una via Gradoli. Alla Commissione non è stato possibile identificare il funzionario, pur avendo posto il quesito ai vari dirigenti di PS via via ascoltati.
La signora Moro ha riferito altresì che lo stesso funzionario avrebbe detto che via Gradoli non esisteva nelle "pagine gialle" dell'elenco telefonico e che essa, verificata l'inesattezza della risposta, aveva insistito inutilmente presso la stessa persona.
Deponendo successivamente dinanzi alla Corte di Assise di Roma, la signora Moro ha affermato di averne parlato direttamente con il Ministro dell'Interno onorevole Cossiga, il quale peraltro, a sua volta, nella stessa sede ha smentito decisamente la circostanza.
La scoperta del covo di via Gradoli 96 avvenne casualmente la mattina del 18 aprile ad opera dei vigili del fuoco, chiamati telefonicamente alle ore 9,47 da un inquilino dello stabile che aveva riscontrato una infiltrazione d'acqua.
Alcuni vigili del distaccamento del quartiere "Prati", agli ordini del Capo squadra Pietro Leonardi, constatata l'esistenza, nel soffitto della cucina dell'appartamento all'interno 7, di una vasta macchia, con stillicidio d'acqua proveniente dall'appartamento sovrastante ed accertato che nessuno si trovava in esso, vi entrarono attraverso un balcone, mediante scala a ganci, richiedendo contemporaneamente, secondo la prassi, l'intervento della Polizia. Una volta entrati constatarono che l'infiltrazione nel soffitto sottostante era stata provocata da una doccia, del tipo a telefono, lasciata aperta rivolta verso il muro, in corrispondenza di una sconnessione fra le mattonelle di rivestimento.
Gli stessi vigili del fuoco notarono nell'appartamento numerosi volantini delle BR. Della scoperta avvisarono subito per radio il loro Comando, perché provvedesse a far giungere sul posto la PS, già avvisata genericamente dell'intervento.
Dagli atti della Questura è risultato che la prima chiamata da parte dei vigili del fuoco pervenne alle ore 10.08 e che si provvide ad inviare subito sul posto "la Volante 5" e successivamente, a richiesta dell'equipaggio di questa ultima, le Volanti "Beta" 3 e 4.
Personale della DIGOS di Roma e del Gabinetto di Polizia Scientifica, prontamente accorso, procedette ad una minuziosa perquisizione dell'appartamento, composto di due piccoli vani, cucinino e bagno, nel quale venne rinvenuto copioso materiale: volantini delle BR, numerose armi, esplosivo ed altri documenti.
Vennero in particolare rinvenute patenti automobilistiche, carte di identità e tessere per concessioni ferroviarie per impiegati dello Stato in bianco, centinaia di volantini delle Brigate Rosse, rivendicanti attentati, tra cui quello al Procuratore Generale di Genova, dott. Francesco Coco, e quello al Maresciallo Rosario Berardi.
Inoltre, furono sequestrati, una divisa da Guardia di PS; una divisa da aviatore di linee aeree, una tuta da operaio della SIP, un camice da impiegato delle PP.TT., nonché numerosi manoscritti, una piantina di un carcere imprecisato, matrici di ciclostile ed altro.
Dalle prime sommarie indagini emerse che l'appartamento era stato locato, circa due anni prima, ad un sedicente Mario Borghi nato a Genova l'l febbraio 1945, ivi residente in corso Europa n. 37, che successivamente, fu identificato per il noto brigatista Mario Moretti, allora latitante.
La scoperta della vera identità di Borghi avvenne attraverso l'esame di alcuni manoscritti, trovati nel covo, contenenti appunti di carattere ideologico ed organizzativo, che sembravano provenienti da persona avente una posizione di preminenza nell'organizzazione terroristica. Posta a confronto la grafia con quella dei più importanti brigatisti rossi e con quella di altri scritti e documenti rinvenuti in altri covi, si accertò che la medesima grafia era comparsa nei carteggi di una base, fino ad allora ritenuta dei NAP, scoperta nel 1976 a Torvaianica e, soprattutto, era identificabile sicuramente con quella del latitante Mario Moretti, uno dei capi storici delle BR. La scoperta è stata confermata da parte dei periti, i quali hanno assicurato che è di Moretti la firma apposta da Borghi in calce al contratto di locazione dell'appartamento.
Dal materiale trovato in via Gradoli, e specialmente da un paio di lenti, si riuscì ad identificare anche la donna che viveva nell'appartamento insieme con Moretti, e che risultò essere la nota brigatista Barbara Balzerani.
L'importanza del materiale rinvenuto nel covo di via Gradoli è stata confermata dai successivi sviluppi delle indagine sulle BR.
Nel covo vennero rinvenuti, infatti, appunti con annotati dati anagrafici ed estremi di documenti di persona che è risultata aver prestato la sua attività professionale presso la scuola media statale Bruno Buozzi in località La Storta. L'attenzione della DIGOS e della Questura di Roma si è soffermata così su Marina Petrella, segretario di quell'istituto dal gennaio al settembre 1977, la quale era stata già denunciata, nel novembre del 1977, per partecipazione a banda armata. L'esame comparato di esemplari della grafia della Petrella con gli appunti trovati in via Gradoli hanno fatto emergere una rilevante omogeneità di scrittura, per cui il magistrato inquirente ha potuto emettere, il 3 gennaio 1979, mandato di cattura a carico della stessa Petrella.
Nel corso della perquisizione domiciliare furono rinvenute parti di una pistola di grosso calibro e, nella bottega del marito della Petrella, Luigi Novelli, punzoni e presse per timbri a secco, idonei alla falsificazione di documenti. Anche Novelli fu tratto in arresto e denunciato all'autorità giudiziaria per banda armata.
In ordine alle modalità con le quali fu condotta l'operazione di via Gradoli, la Commissione si è chiesta se con una maggiore accortezza e discrezione non sarebbe stato possibile arrivare anche alla cattura dei terroristi frequentanti il covo.
Il dottor Spinella ha affermato che la presenza in via Gradoli degli automezzi dei vigili del fuoco e delle autovetture della Polizia, peraltro giunte a sirene spiegate, aveva richiamato l'attenzione e la curiosità dei passanti e dei vicini. Quando arrivò sul posto il primo funzionario della DIGOS, davanti alla palazzina vi era già una vera e propria folla di curiosi, molti dei quali erano ormai a conoscenza che era stato trovato un "covo" delle BR. Pertanto un possibile servizio riservato, diretto ad arrestare gli inquilini dell'appartamento, al momento del loro ritorno a casa, non apparve più possibile.
In ordine all'importante materiale rinvenuto la Commissione si è preoccupata di accertare se l'esame di esso sia stato tempestivo o se, per avventura - come ha lamentato tra l'altro la signora Moro - non si sia perso del tempo prezioso. Il Questore pro tempore di Roma, dottor De Francesco, ha assicurato che le indagini sul materiale sono state svolte con la dovuta tempestività. Lo stesso Questore ha affermato che di esso fu data copia ai Servizi di Sicurezza e all'Arma dei carabinieri.
Quindi fu esaminato da più parti contemporaneamente, anche se il lavoro, che ha richiesto tempo e coordinamento, è stato svolto a livello delle disponibilità organizzativi esistenti nel 1978. A giudizio del Questore le cose sarebbero andate meglio se la Polizia avesse potuto disporre di un centro di elaborazione dei dati sul terrorismo. Si dovette invece utilizzare semplicemente la memoria di funzionari e ufficiali che portavano avanti le indagini.
Tra gli inconvenienti lamentati, peraltro, non è trascurabile quello della mancata identificazione delle impronte rinvenute nell'appartamento, nonché il fatto che non furono disposte dall'autorità giudiziaria perizie sui timbri sequestrati nello stesso covo.
In via Gradoli, tra l'altro, furono rinvenute numerose armi, alcune delle quali risultarono poi acquistate con una licenza di porto d'armi rubata ad un certo Lunerti, insieme ad altre due licenze di suoi amici, che si trovavano tutte e tre sull'auto dello stesso Lunerti. Una di queste ultime due licenze fu poi rinvenuta nella tipografia di via Foà.
A questo proposito la Commissione rileva che, all'epoca, esisteva presso il Ministero dell'interno solo uno schedario a mano per il controllo del commercio delle armi; la polizia quindi si trovava nella materiale impossibilità di accorgersi in tempo breve se qualcuno, munito di regolare porto d'armi, faceva incetta di armi comperandole in differenti negozi.
Da ultimo non può non rilevarsi che a Gradoli paese, dopo la segnalazione conseguente alla "seduta spiritica", l'ispezione fu compiuta da uomini della Questura di Viterbo il 6 aprile; la prima ispezione in via Gradoli era stata compiuta dal Commissariato Flaminio di Roma il 18 marzo. La prima operazione è rimasta isolata dalla successiva perché l'una e l'altra furono svolte da uffici diversi; sicché neppure il ricorrere dell'identica denominazione poté richiamare una maggiore attenzione. Non si vuole porre in discussione il criterio della competenza territoriale, ma è chiaro che la mancanza di un centro di direzione unitaria delle indagini ha impedito la circolazione delle informazioni e, di conseguenza, una proficua gestione delle stesse.
L'effettivo coordinamento operativo delle indagini, assicurato da una unica direzione, misura questa che ha dimostrato la sua reale efficacia nel prosieguo della lotta alle BR (es. sequestro Dozier), restò durante la vicenda di Moro una esigenza insoddisfatta, e la domanda della Commissione, su chi ebbe l'effettiva responsabilità delle indagini e del coordinamento delle operazioni di polizia, non ha trovato risposta.
Né questa esigenza poteva essere soddisfatta con la costituzione del Comitato politico-tecnico-operativo presieduto dal Ministro dell'interno e, per sua delega, dal sottosegretario Lettieri: esso si è rivelato ben presto inutile, tanto che non risulta sia stato più riunito dopo il 3 aprile.
A giudizio della Commissione, la lezione che si può ricavare da come ha lavorato il Comitato è che così non si può e non si deve fare il coordinamento dell'attività delle forze di polizia: in effetti il Comitato non ha coordinato niente, e si è piuttosto rivelato come la sede nella quale si riversarono le frustrazioni derivanti dagli insuccessi.
 
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