Le difficoltà dell'azione giudiziaria

Documento aggiornato al 25/02/2004
Anche l'attività della magistratura inquirente si è rivelata impari alla gravità e complessità degli eventi.
Le indagini preliminari e gli atti di istruzione sommaria per una vicenda giudiziaria che lasciava intravedere tutta la sua complessità sia per la presenza di reati gravissimi, sia per la valenza politico-istituzionale ad essa collegata, furono affidati ad un solo magistrato, il sostituto procuratore di turno al momento dell'agguato in via Fani, che ha proceduto in solitudine, senza l'ausilio di altri magistrati.
Lungi dal sentirsi completamente coinvolta, assumendone la direzione e esercitando un ruolo propulsivo, la magistratura inquirente romana è sembrata quasi come estraniata dalle indagini e comunque portata a rimorchio.
Quanto questa situazione fosse dovuta alla inadeguata e non perfetta conoscenza del fenomeno terroristico e segnatamente dell'organizzazione delle BR, condizione comune a tutte le strutture dello Stato e alla quale non sfuggiva certo la magistratura romana, o quanto questa situazione fosse dovuta al desiderio di non ostacolare, con alcun atto o decisione, sia pure in sé legittimo, la liberazione dell'onorevole Moro, alla Commissione non è stato possibile accertare convenientemente.
Quello che è sicuro è che l'attività della magistratura inquirente romana non è apparsa, nel caso in questione, compiutamente espressiva degli ampi poteri che le spettavano.
La Commissione, conformemente ai quesiti contenuti nella legge istitutiva, si è fatta carico di cercare le ragioni che hanno determinato l'anomala situazione ed ha interrogato il Sostituto procuratore della Repubblica, che ha avuto la responsabilità dell'inchiesta fino al 29 aprile, dottor Luciano Infelisi, il Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Roma dell'epoca, dottor Giovanni De Matteo ed il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, dottor Pietro Pascalino.
Il dottor Infelisi ha tra l'altro dichiarato: "Non sono stato esentato da nessuna udienza dibattimentale, né dal turno degli arrestati per furto. In questa maniera si possono fare anche molti errori. lo non potevo controllare i giornali perché il tempo non c'era. Mi sono lamentato di questo stato di cose a tutti i livelli e in ogni giorno dell'inchiesta. La risposta è stata che bisognava arrangiarsi".
"Manifestai più volte l'opinione che questo processo che aveva già cinque morti e un sequestrato andava sviluppato con una efficienza nuova, con nuovi mezzi. Ribadivo una autonomia concettuale, di iniziativa e di attività che forse non era stata considerata opportuna in relazione al tipo di processo".
"Circa le condizioni deficitarie dell'ufficio non ho fatto richieste scritte perché avrei radicalizzato la situazione. Una richiesta scritta l'avevo fatta per i telefoni. Nel periodo in cui dirigevo le indagini il mio ufficio non disponeva di alcun ufficiale di polizia giudiziaria, conducevo le indagini con una dattilografa, senza neanche un telefono nella stanza".
"Sul corso delle indagini riferivo al dottor De Matteo. Per gli ordini di cattura ho dovuto riferire anche al dottor Pascalino perché il Procuratore generale si interessava molto di questo; essendo Moro vivo, temeva un contraccolpo. Lasciai gli atti al Procuratore della Repubblica e al Procuratore generale per 4-5 giorni, poi mi sono stati restituiti ed io ho emesso gli ordini di cattura. Il dottor Pascalino aveva delle perplessità sull'opportunità di emettere gli ordini di cattura".
Il Procuratore capo della Repubblica, dottor De Matteo, a sua volta ha ammesso che nella fase delle indagini preliminari si brancolava nel buio. Si andava alla ricerca dei probabili autori del grave fatto esaminando la posizione delle persone che erano ritenute appartenenti all'area extraparlamentare e i cui nominativi erano stati trovati nei "covi" fino ad allora scoperti.
Il Procuratore generale, dottor Pascalino, ha affermato che, in conseguenza di queste incertezze, gli ordini di cattura del 24 aprile vennero emessi senza prove, e che in quei giorni si fecero operazioni di parata più che ricerche.
La Commissione ha tratto la convinzione che tra il Sostituto dottor Infelisi e gli altri due Procuratori non c'era, se non altro, molta comunicativa. Il dottor De Matteo ha dichiarato che doveva a volte informarsi direttamente dalla polizia giudiziaria; il Procuratore generale sapeva ovviamente solo quello che gli riferiva il Procuratore capo, il quale però ha dichiarato che lo informava quasi quotidianamente.
I magistrati interrogati hanno lamentato poi che né il Ministro dell'Interno né uomini politici che hanno avuto parte nella vicenda hanno dato loro notizia di contatti avuti ed altre informazioni e riferimenti utili ai fini delle indagini. Una inchiesta come quella del sequestro dell'onorevole Moro avrebbe potuto avere - hanno affermato gli stessi magistrati - concreti sviluppi solo con seri contributi informativi. Al contrario alcuni uomini politici non li avrebbero affatto informati delle loro attività né preventivamente, né contestualmente, né successivamente.
Le stesse lettere di Moro sarebbero talvolta pervenute al Sostituto procuratore solo dopo che erano state consegnate direttamente dal destinatario al Procuratore generale o addirittura dopo la pubblicazione sui giornali.
Anche il dottor Pascalino ha affermato davanti alla Commissione: "Le indagini di polizia giudiziaria le svolgevano soprattutto le forze di pubblica sicurezza, senza avere quasi il tempo di riferire all'autorità giudiziaria. Parlai varie volte col Ministro dell'Interno il quale mi dette tutte le informazioni possibili, ma esse si riferivano a programmi".
La polizia, infine, avrebbe privilegiato il vincolo gerarchico che la lega alla Questura e al Ministro degli Interni, ignorando talvolta la dipendenza funzionale dal magistrato inquirente. Il dottor Infelisi ha ad esempio affermato di avere saputo della scoperta del covo di via Gradoli soltanto a due ore di distanza e attraverso i carabinieri che intercettarono una comunicazione della polizia.
Tenuto conto della enorme quantità di uomini impiegati nelle indagini e della diversità dei reparti e dei corpi impegnati, a giudizio del sostituto Infelisi, era agevole dedurre che sarebbe stata indispensabile una istanza di coordinamento, che informasse poi a sua volta il magistrato inquirente. Se tutti avessero dovuto fare capo direttamente a lui, egli non si sarebbe potuto occupare di altro. Ma questa istanza di coordinamento non è stata realizzata.
Il Procuratore generale, a sua volta, ha tenuto a ricordare che, accanto alle indagini di polizia giudiziaria, le forze dell'ordine compivano anche investigazioni generali di sicurezza. Appunto per evitare incomprensioni e conflitti, frequenti sono stati i collegamenti tra i Ministri dell'Interno e della Giustizia con lo stesso Procuratore generale della Repubblica.
Un segno dell'esistenza di questi conflitti è l'affermazione del dottor Infelisi, fatta in Commissione, che egli, per rendere possibile anche ai carabinieri di esaminare i documenti trovati nel covo di via Gradoli, che il Questore di Roma, dottor De Francesco, aveva ordinato non fossero mostrati ad alcuno, fu costretto a ordinarne il sequestro. Questa affermazione è stata decisamente contestata dal dottor De Francesco, che ha inviato alla Commissione una precisa smentita scritta, dichiarando di non aver mai dato una disposizione del genere, peraltro sicuramente illegittima. Il dottor De Francesco inoltre ha precisato che non è stato mai notificato ad alcuno il preteso atto di sequestro, né alcuno ne ha comunque avuto notizia.
L'allora dirigente della DIGOS di Roma, dottor Spinella, a sua volta, ha precisato che, appunto per consentire agli ufficiali dei carabinieri presenti alla perquisizione del covo di via Gradoli la possibilità di concorrere tempestivamente nelle indagini, egli ordinò che il materiale documentale venisse posto a disposizione dei carabinieri la sera stessa del rinvenimento, mediante riproduzione fotostatica. A sera inoltrata, prima di lasciare i locali della DIGOS, egli accertò che il lavoro era in pieno svolgimento.
La Commissione non può fare a meno di rilevare che la singolare condizione in cui l'inchiesta veniva compiuta ha comportato omissioni o ritardi di atti, cui pure gli inquirenti erano tenuti, e che certo hanno avuto la loro influenza sul seguito delle indagini. Significativi sono, per esempio, la mancata ispezione dell'automobile dell'onorevole Moro, la mancata rilevazione delle impronte nel covo di via Gradoli, il mancato accertamento della provenienza delle macchine tipografiche trovate nella tipografia Triaca in via Pio Foà.
A proposito della mancata tempestiva ispezione dell'auto dell'onorevole Moro va detto che in essa furono scoperte - ben cinque giorni dopo il fatto - due borse, più precisamente una borsa ed una valigetta ventiquattrore. Non si è mai potuto stabilire con certezza quali oggetti avessero portato via i brigatisti; ma, anche ad ammettere che si trattasse di oggetti di rilievo secondario, resta pur sempre il fatto, decisamente inammissibile, di aver trascurato per alcuni giorni un controllo scrupoloso dell'auto dell'onorevole Moro: questa infatti venne portata nel cortile della Questura e solo dopo cinque giorni qualcuno si accorse che una borsa piena di libri era nel bagagliaio e il portamonete del sequestrato era tra i braccioli dell'auto.
Il dottor Rana - segretario particolare dell'onorevole Moro - ha precisato alla Commissione che il Presidente Moro viaggiava sempre con cinque borse: due contenenti libri, erano normalmente nel portabagagli; due le aveva sempre vicine (una contenente medicinali e l'altra atti urgenti della giornata). E' naturale che queste due borse fossero notate subito. La quinta sfuggì probabilmente perché, contenendo - come di solito - notiziari su questioni estere, non era tenuta a portata di mano. Essa fu successivamente restituita alla famiglia dal Procuratore Guido Guasco.
Le prime due, invece, che sono quelle di cui si occupò il sequestrato in una lettera, quando chiese se erano state recuperate, furono prese dalle BR. La preoccupazione manifestata nella lettera dall'onorevole Moro era dovuta al fatto che egli evidentemente non sapeva che le borse erano in possesso dei suoi rapitori.
Secondo quanto affermato dalla signora Moro nessuno dei presenti in via Fani vide prendere le due borse, piene, grandi, e perciò ben visibili, sebbene molti avessero assistito al fatto. A suo dire, quando ella arrivò sul posto, pochi minuti dopo, le due borse non c'erano, e il sangue degli uccisi aveva lasciato sul tappetino dell'auto un contorno netto attorno al posto in cui si trovavano.
Si è avuta la sicurezza che erano stati i brigatisti, o altri per loro, a prenderle solo quando sono stati restituiti gli oggetti in esse contenuti, dopo l'assassinio dello statista.
 
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