Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate rosse

Edito da Milano Libri Edizioni, Torino, 1979
157 pagine

di Adelaide Aglietta

Recensione

alla prefazione di Leonardo Sciascia:

"Nelle prime pagine di questo diario, Adelaide Aglietta ricorda quel mio breve articolo, "per cui tanto reo tempo si volse", in cui esprimevo un'opinione relativamente all'essere giurato in un processo come quello che all'Assise di Torino stava per cominciare contro Curcio e altri delle Brigate Rosse. Opinione che continuo a sostenere come abbastanza sensata e per nulla eversiva, se affermavo che per rispetto e dovere verso me stesso avrei accettato di fare il giurato in un processo di quel tipo: e anzi forzando la mia innata e assoluta ripugnanza a giudicare i miei simili (e mai la parola "simili" ha senso così totale come quando si parla di peccati e di colpe). E ancora non riesco a capire perché tanto scandalo, perché tanta polemica, se di un dovere verso una astrazione ed astratto io facevo un dovere concreto e inamovibile; e con gli stessi effetti.
Ad una opinione uguale - o quasi - erano arrivati i radicali dopo il dibattito interno lungo ed intenso: ma era una opinione non vincolante per ciascuno di loro. Ed ecco che, nel sorteggio per i giurati al processo di Torino, appunto vien fuori il nome di Adelaide Aglietta. E non so come il sorteggio dei giurati avvenga: se si imbussolano dei nomi; se si estraggono, come alla tombola, numeri che corrispondono ai nomi dei probi cittadini che hanno i requisiti per giudicare i loro simili (requisiti che non riguardano, si capisce, la vera e profonda vita morale di ognuno); fatto sta che era proprio un bel caso il venir fuori del nome di Adelaide Aglietta. Ancora più bello sarebbe stato il caso se avesse rifiutato. Ma ha accettato: e certo non senza esitazione, non senza disagio, non senza pena. Per un dovere verso se stessa, per il dovere di non aver paura proprio quando la si ha: alla paura del giudicare aggiungendosi, nella circostanza, quella della propria vita minacciata, in pericolo (e minacciata concretamente, come da esempi che quasi quotidianamente se ne avevano).
Dalla sua esperienza è venuto questo diario: discreto, senza declamazioni, per quel che riguarda i suoi stati d'animo, le sue apprensioni: che diventano quasi marginali rispetto al resoconto del processo - un resoconto tra i più oggettivi, forse il più oggettivo, che se ne abbia. Perché, bisogna dirlo, non molto oggettivi sono stati i resoconti che ogni giorno ne davano i giornali: approssimativi, anzi, e divaganti. E si consideri, per esempio, l'episodio misteriosissimo della lettera di cui parla al processo nell'udienza del 18 aprile: quale groviglio da affrontare e da sciogliere sarebbe stato per un giornalismo avvertito, vigile e - per come richiesto dalla situazione italiana - preoccupato; e come invece è stato sorvolato senza alcuna attenzione e senza nemmeno riuscire a dare un netto ragguaglio dei dati di fatto.
Ve aggiunto che al di là del momento, al di là della particolarità del processo, al di là della singolarità in cui Adelaide Aglietta si trova ad affrontare il suo ruolo di giudice - come divisa tra la "disobbedienza civile" professata in quanto radicale e l'obbedienza alla dignità personale - questo diario è una delle poche, delle pochissime testimonianze dirette, nate da una diretta esperienza, che siano state pubblicate in Italia sull'amministrazione della giustizia. Ne ricordo soltanto un altro, anzi:" Il diario di un giudice "di Dante Troisi.
Dopo essere stato giurato in Corte d'assise, André Gide scrisse un libro di ricordi e prese a dirigere una collana che s'intitolava "Non giudicate." Purtroppo, nella situazione italiana, non ci è permesso di non giudicare: come questo caso dimostra. Non è permesso, cioè, nemmeno a coloro che per principio non vorrebbero. Solo che, giudicando, bisogna anche giudicare i giudici e se stessi giudici: come mi pare Adelaide Aglietta abbia fatto".

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