Da La Repubblica del 31/07/2005

Re, regina e alfiere alla Guerra Fredda

Scacchi e politica

di Stefano Bartegazzi

Ecco come il gioco prediletto dai capi della rivoluzione sovietica è diventato metafora del confronto Usa-Urss Una fortuna per i gran maestri ma forse una fortuna più grande per gli strateghi dell´equilibrio del terrore «Hallo? Qui è il peggiore giocatore al mondo che vuole parlare con il migliore...». Al telefono era Henry Kissinger, nel 1972, e chiamava a Reykjavik il maestro di scacchi americano Bobby Fischer, per convincerlo ad affrontare il campione del mondo, il russo Boris Spassky. Cronache recenti confermano che Fischer è tuttora dotato di una personalità molto disturbata. Arrivato con pazienza e fatica a ottenere il diritto di disputare il titolo di campione del mondo a Spassky, Fischer si era impuntato: accusava i sovietici di slealtà, e pareva non aver alcuna intenzione di mettersi alla scacchiera per il match decisivo. Si convinse dopo due eventi: il raddoppio della borsa prevista per il vincitore (da 125mila a 250mila dollari dell´epoca) e, appunto, la telefonata del consigliere di Nixon. Non sappiamo quale dei due eventi contò di più nella decisione finale. Fischer giocò: dopo un inizio a dir poco incerto, in cui commise errori da giocatore mediocre, si riprese e vinse quasi agevolmente.
Per essere il peggiore giocatore del mondo, Kissinger aveva mosso bene i suoi pedoni. Oggi siamo abituati a governanti che esibiscono le proprie passioni sportive: allora il caso era più raro, ed è lecito dubitare che Kissinger prese il telefono in mano per un personale interesse al gioco delle sessantaquattro caselle. Era invece ovviamente conscio del ruolo che poteva giocare l´eventuale vittoria di Fischer sull´altra scacchiera, quella su cui lo stesso Kissinger era certamente uno dei massimi maestri mondiali: la scacchiera (o "lo scacchiere") della Guerra Fredda.
«Tu giochi alla guerra, io gioco agli scacchi»: così, e in yiddish, durante l´occupazione tedesca della Polonia nel corso della prima guerra mondiale, il campione polacco Reshevsky avrebbe liquidato il comandante tedesco, che aveva voluto disputare un incontro con lui, e aveva perso. Gli scacchi sono già di per sé una guerra. L´araldica dei pezzi ritrae un esercito, insieme assediante e assediato: la fanteria che avanza piano, la cavalleria che scarta di lato, i portabandiera che attraversano il campo in diagonale (ma in inglese il nostro alfiere è un vescovo, bishop, e in francese un matto, fou), i torrioni di rinforzo ai lati e i potenti che si spartiscono il ruolo attivo e offensivo della regina e quello passivo e difensivo del re.
Può venire però il dubbio che gli scacchi abbiano rappresentato una guerra in particolare: la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Sempre circolata almeno in forma di suggestione, l´ipotesi ha particolarmente appassionato un giornalista culturale inglese, Daniel Johnson, che ha già annunciato per l´anno prossimo un suo libro sull´argomento, dal titolo Il Re bianco e la Regina rossa, e ne ha anticipato parte dei contenuti in un saggio pubblicato dal mensile Prospect.
Di remotissime origini orientali, il gioco degli scacchi arrivò in Europa attorno all´ottavo secolo dopo Cristo: ma esordì nel mondo dello spettacolo solo a metà dell´Ottocento, con i primi tornei pubblici. Nel Novecento gli scacchi cambiarono natura. Incontrarono le avanguardie storiche e la cultura del secolo, sul piano iconologico e simbolico (la scacchiera come superficie di scorrimento, piano senza profondità, metafora utile per tutte le teorie del linguaggio, da Saussure a Deleuze), e non solo: Marcel Duchamp fu un Grande Maestro.
Fu però con il ritorno di Lenin (appassionato scacchista, come Marx e Trotzkij) dall´esilio svizzero e con la nascita dell´Unione Sovietica che il gioco conobbe la sua maggiore rivoluzione. Dal punto di vista ideologico, gli scacchi non avevano connotazioni di classe ed era un gioco che abrogava il livello dell´alea, quindi della fortuna individuale: perfettamente ortodosso per il materialismo storico. Dal punto di vista sociologico, offriva un passatempo con indubbie virtù di allenamento mentale a un enorme numero di persone che nel tempo libero erano perlopiù abituate a «fabbricare liquori, berli e litigare con altri ubriachi». Dobbiamo l´impietosa diagnosi al funzionario Nikolai Krylenko, che si sarebbe poi distinto anche per ferocia repressiva, e che nel 1924 era a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per l´educazione fisica dell´Urss. Con lo slogan «Diamo gli scacchi ai lavoratori» diede impulso a un movimento scacchistico che contò presto decine di milioni di partecipanti, guidati anche ideologicamente dalla rivista 64 da lui stesso diretta. Così gli scacchi diventarono una passione di massa, che diede la base demografica al predominio sovietico, che non tardò a imporsi.
Il mito identifica una vera e propria "scuola scacchistica sovietica". Il suo primo campione, Mikhail Botvinnik, descrisse il proprio stile come contrapposto a quello capitalistico, statico e puntato sull´apertura e l´attacco: vantava la capacità sovietica di adattarsi a ogni nuova situazione di gioco (oggi, e più criticamente, si ritiene che la propensione a una certa passività e alle controffensive riproduca in qualche modo la sensazione di "accerchiamento politico" comune alla società sovietica, e una certa carenza di spirito di iniziativa).
Ogni volta che vinceva un match internazionale Botvinnik mandava un telegramma a Stalin, per ringraziarlo dell´aiuto ricevuto. I maestri di scacchi sovietici venivano infatti sostenuti dallo Stato, con stipendi, status privilegiati da ingegneri, "studenti" o giornalisti, possibilità di viaggi all´estero, ma anche puniti con severità dopo le sconfitte (capitò, dopo il match con Fischer, anche a Spassky, che riuscì poi a espatriare ed è attualmente cittadino francese).
La politica scacchistica dell´Unione Sovietica risultò a lungo efficacissima. Già nel 1945, subito dopo la fine della guerra, una partita Urss-Usa giocata via radio finì 15,5 a 4,5: un risultato shockante per gli americani, che avevano sopravvalutato il vantaggio dato dall´avere accolto numerosi maestri ebrei, scappati dall´Europa. Sospette manipolazioni del regolamento, scomuniche, tentativi di fuga, rancori tra establishment sovietico e fuoriusciti: la storia scacchistica del Novecento è un riassunto dell´altra Storia, con vicende di grande rilevanza anche letteraria. Il fuoriuscito Vladimir Nabokov dedicò alla follia degli scacchi uno dei suoi primi romanzi (La difesa di Luzin) e alla poesia degli scacchi una raccolta molto più tarda di poesie interpolate da problemi scacchistici (Poems and Problems). Al dissidente ebreo Natan Sharansky accadde davvero quel che Stefan Zweig aveva immaginato per l´eroe della sua Novella degli scacchi: incarcerato dal regime brezneviano, salvò la ragione giocando innumerevoli partite mentali contro se stesso, e una volta scarcerato ed espatriato in Israele (dove è stato anche ministro del governo Sharon) si tolse la soddisfazione di battere Garry Kasparov in una partita simultanea contro maestri israeliani.
Il match Fischer-Spassky non chiuse definitivamente quella partita simbolica che si era aperta nel 1945 via radio ed era proseguita anche per altri canali (come la partita a scacchi con cui si apre il film di James Bond Dalla Russia con amore): ma ne decretò una svolta irreversibile. Tutto il mondo vide Fischer battere Spassky, e tutta l´America si appassionò - momentaneamente - agli scacchi, comprendendo che una delle poche indiscusse supremazie sovietiche era quanto meno erosa. Non ci fu rivincita, Fischer perse il titolo senza giocare, gli altri match mondiali non ebbero più lo stesso seguito planetario.
Un altro match stava per incominciare: l´ultimo campione sovietico Garry Kasparov avrebbe giocato contro il computer Deep Blue, perdendo uno storico match nel maggio del 1997 e aprendo alcuni interrogativi sul futuro degli scacchi. Ma anche questa partita aveva radici in quella precedente: le prime istruzioni scacchistiche ai computer furono date da Alan Turing (l´inglese che decodificò i codici tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale) e dall´americano George Shannon (fondatore della teoria matematica dei giochi, base del calcolo strategico anche bellico). I loro successori avrebbero inventato i programmi che nelle accademie militari americane come in quelle sovietiche simulavano tramite gli scacchi i conflitti nucleari.
Cosa sono, poi, i giochi? Svolgendo il loro compito simbolico di simulazione, gli scacchi hanno consentito ai sovietici una forma di supremazia durante la Guerra Fredda, poi incrinata dalla sconfitta di Spassky. Ma il conflitto fra i due blocchi, così ben rappresentato dai due protagonisti di Reykjavik, è stato solo simboleggiato o anche sostanzialmente scongiurato dalla sua sublimazione scacchistica?
È stato detto che la Guerra Fredda è una delle migliori fortune mai capitate al gioco degli scacchi: ma forse è vera anche l´affermazione complementare, e cioè che gli scacchi siano state una delle migliori fortune capitate alla Guerra Fredda.
Una telefonata di Kissinger spianò la strada allo storico match di Reykjavik tra Bobby Fischer e Boris Spassky.

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