Da Diario del 29/03/2002

L'inchiesta vecchio stile

Golpi di pistola

Il ministro dell’Interno si è precipitato a dichiarare che l’arma dell’omicidio Biagi è la stessa dell’omicidio D’Antona. Per collegare immediatamente l’azione di Bologna alle Br. E al sindacato. Per tornare a occupare la scena dei media, «rubata» da Cofferati

di Gianni Barbacetto

MILANO. Non era ancora arrivata la rivendicazione eppure, a poche ore dall’omicidio del professor Marco Biagi, autorevolissime dichiarazioni sostenevano che la pistola che aveva sparato martedì 19 marzo a Bologna era certamente la stessa che aveva colpito, tre anni fa, Massimo D’Antona: ad affermarlo senz’ombra di dubbio, mercoledì 20 marzo, erano, nell’ordine, il procuratore di Roma Salvatore Vecchione (ore 18.54), il ministro dell’Interno Claudio Scajola (ore 20.05), il procuratore reggente di Bologna Luigi Persico (20.30). Davvero strano: una seria perizia balistica ha bisogno di molto tempo, almeno alcuni giorni. E poi affermare pubblicamente che la pistola è la stessa potrebbe essere un regalo fatto agli attentatori, nel caso che il gruppo di fuoco entrato in azione non avesse conosciuto la provenienza dell’arma. Perché tanta fretta di dire ufficialmente che la pistola è la stessa, senza certezza scientifica e anche a rischio di dare un eventuale vantaggio ai terroristi? Vecchione voleva incardinare le indagini su Biagi a Roma, dove languono da tre anni quelle su D’Antona. E Scajola? Il ministro voleva rendere nota subito la firma dell’azione, targarla inequivocabilmente Br. Per dare immediatamente la chiave di lettura e utilizzare politicamente e mediaticamente l’evento.
Detto, fatto. È subito partita la campagna sul «clima d’odio». Un uso improprio di cadavere da parte di una frazione della maggioranza (Berlusconi, Bossi, Tremonti, Martino, Schifano...), che ha colto l’occasione per criminalizzare l’opposizione e il sindacato, dipingendoli come terroristi, o almeno terroristogeni, generatori di terrorismo. Ma l’arma è davvero la stessa? Nessuna analisi balistica può averlo assicurato in poche ore.
A distanza di oltre una settimana, invece, è possibile constatare che il ritorno all’azione del partito armato ha evidenziato i grandi limiti istituzionali di fronte al nuovo terrorismo: non lo conosciamo, sappiamo poco o nulla dei gruppi combattenti, e soprattutto non abbiamo strumenti efficaci di contrasto. È ancora impunito l’omicidio precedente a quello di Biagi, che ha avuto come vittima D’Antona, anch’egli consulente del ministero del Lavoro, ucciso il 20 maggio 1999. E cercare di capire, oggi, che cos’è il nuovo terrorismo, significa allora farsi strada tra le congetture più diverse, a volte tra ipotesi diametralmente opposte. Vediamo.

1. La previsione dei servizi. C’è un dato di partenza: i servizi segreti, questa volta, avevano visto giusto. L’ultima relazione semestrale sull’attività d’intelligence aveva previsto azioni «contro le espressioni e le personalità del mondo politico, sindacale e imprenditoriale maggiormente impegnate nelle riforme economico-sociali e del mercato del lavoro e, segnatamente, quelle con ruoli chiave in veste di tecnici e consulenti». Un identikit impressionante. Quasi un annuncio dell’azione di Bologna. Ma poi chi aveva il compito di tradurre in scelte operative le analisi dell’intelligence (il presidente del Consiglio, il ministro dell’Interno) non ha fatto un passo.
Benché fosse certamente tra i personaggi a rischio attentati e avesse chiesto con insistenza una protezione, Biagi è stato privato della scorta che aveva fino all’autunno scorso e lasciato solo. In un altro Paese d’Europa il ministro dell’Interno, dopo una prova come questa, sarebbe stato costretto a dimettersi. Anche la vecchia Dc lo avrebbe probabilmente convinto a farsi da parte, magari promettendogli un buon posto altrove. Invece Scajola ha potuto restare tranquillamente al suo posto, scaricando incredibilmente le responsabilità sui suoi funzionari, sui prefetti. Resta il problema che il governo non ha saputo garantire la sicurezza e la vita a un consulente di un ministro della Repubblica.
Anche sulla natura della previsione non esiste accordo tra gli addetti ai lavori. «Dimostra la buona professionalità dei nostri servizi di sicurezza», dice Giuseppe De Lutiis, studioso dei servizi segreti. «Ma no, era un allarme ovvio e generico», controbatte il magistrato di Venezia Carlo Mastelloni. «La relazione dei servizi indicava molte aree a rischio, tutte quelle che sensatamente chiunque di noi potrebbe ipotizzare: dal terrorismo islamico al fronte del lavoro», gli fa eco un magistrato impegnato nelle indagini sui gruppi terroristici. Troppo poco per convincerci che ci sia una specifica attività d’intelligence sui prossimi obiettivi, ma comunque abbastanza per dare una protezione a Biagi. «La verità è che i servizi, invece di fornire indicazioni utili alla polizia giudiziaria, da questa attingono informazioni: si è invertito il rapporto», segnala il magistrato. «Raccolgono notizie dalle Digos e poi stilano rapporti generici, analisi astratte. Manca completamente il lavoro specifico sui gruppi armati: gli investigatori non hanno più informatori e infiltrati nell’area, cioè gli unici strumenti in grado di dare risultati. Del resto, esaurita – fortunatamente – la grande stagione del terrorismo, gli investigatori migliori si sono spostati su altre emergenze, per esempio quella antimafia. Per fare bene l’antiterrorismo ci vogliono investimenti e uomini: per pedinare un sospetto, per esempio, sono necessari almeno trenta agenti».
Il generale Mario Mori, diventato direttore del Sisde, il servizio segreto civile, sta rinnovando i quadri, sta facendo nuove assunzioni, anche chiamando i suoi uomini migliori dei tempi in cui comandava il Ros-carabinieri. Ma ristrutturare e rilanciare un servizio appesantito dalle vecchie assunzioni clientelari e inquinato dagli scandali del passato non è impresa facile. Oltretutto, negli ultimi mesi le forze migliori sono state concentrate nel contrasto al terrorismo islamico. Il giudizio di Mastelloni sullo stato dell’arte è ancora più duro: «Gli inquirenti confondono ancora l’area dei centri sociali con l’area del partito armato. E poi sono gli stessi magistrati ad aver perso la specializzazione antieversione, oggi non sentono più l’emergenza terrorismo».

2. I gruppi armati. Pochi, senza grande organizzazione, privi di contatti con il movimento. Così sono oggi i nuovi terroristi. Consegnata alla storia la «geometrica potenza» che permetteva alle Br di compiere operazioni militari complesse come il sequestro Moro, oggi i gruppi armati colpiscono obiettivi facili, uomini indifesi come D’Antona e Biagi. «Non sono più di cento in tutta Italia», dice il magistrato antiterrorismo, «e forse già cento è un numero esagerato». Ma di più non è dato sapere. Le ipotesi che sono state avanzate sono tutte prive di riscontri. Biagi è stato davvero ucciso dallo stesso commando che sparò a D’Antona? Oppure è rimasto vittima del Npr, il Nucleo proletario rivoluzionario che compì un attentato alla sede Cisl di Milano il 6 luglio 2000 e ora con l’omicidio Biagi si accredita ed entra a pieno titolo nelle Br-Pcc, le Brigate rosse-Partito comunista combattente? Non ci sono elementi per dirlo. E non c’è chiarezza neppure sui rapporti che intercorrono tra le diverse sigle eversive. Le Br-Pcc sono certamente il gruppo più strutturato, quello che si dice erede diretto delle Brigate rosse storiche. I suoi capi, o comunque coloro che garantiscono la continuità, sono in carcere o latitanti all’estero. Tra loro, Carla Vendetti e Simonetta Giorgieri. «Un personaggio di rilievo nella loro organizzazione è molto probabilmente Nicola Bortone, di recente arrestato in Svizzera», dice Armando Spataro, magistrato a Milano negli anni duri del terrorismo. Con la sigla Ncc (Nuclei comunisti combattenti) gli «irriducibili» delle Br hanno firmato gli attentati compiuti durante la fase della «ritirata strategica»: contro la sede della Confindustria a Roma nel 1992 e nel 1994 contro il Nato Defense College. Poi, tra il 1993 e il 1994, tornano in vita le Br-Pcc: con un attentato nel 1993 alla base militare di Aviano, in Veneto, ma soprattutto con l’omicidio D’Antona, nel maggio 1999. È il loro battesimo del fuoco: ottengono l’avallo dei brigatisti in carcere e, ormai inglobati i Nuclei comunisti combattenti, «rilanciano» con il sangue la sigla Br-Pcc.
Attorno, le altre sigle: Npr (Nuclei proletari rivoluzionari) e Nipr (Nuclei di iniziativa proletaria rivoluzionaria), contingui alle Br-Pcc. I Nipr hanno compiuto un attentato a Roma in via Brunetti, alla sede di un istituto di studi internazionali, il 14 ottobre 2001, e nel gennaio 2002 con un volantino alla Cisl hanno rilanciato la prospettiva della lotta armata. Più impegnati sui temi internazionali i Nuclei territoriali antimperialisti (Nta), che hanno iniziato a operare nel 1995 in Friuli, con azioni contro la Nato. C’è poi la galassia anarco-insurrezionalista, che ha rivendicato con la sigla Si (Solidarietà internazionale) lo zaino-bomba collocato il 28 giugno 2000 nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano e l’ordigno posto sul tetto del Duomo di Milano il 18 dicembre 2000. Si sono rivolte invece a destra le indagini sulla bomba esplosa al palazzo di Giustizia di Rialto a Venezia, segno che c’è ancora chi lavora per cercare di confondere il rosso e il nero.
La tesi del giudice Mastelloni è radicale: «Questi, oltre che assassini, sono truffatori. Sono poche persone, senza la forza di organizzarsi in colonne, che giocano con le sigle, che le usano indifferentemente a seconda degli obiettivi. Nel gennaio scorso hanno tentato un’azione, fallita, all’aeroporto militare di Rivolto, nei pressi di Udine. Poi hanno fatto ritrovare un volantino, firmato dai Nuclei antimperialisti, in cui promettevano: “colpiremo di nuovo molto presto e molto più duro”. Due mesi dopo, ecco l’assassinio di Biagi, firmato Br-Pcc».
Alberto Franceschini, che negli anni Settanta fece parte del gruppo storico delle Brigate rosse, ritiene che i gruppi armati siano oggi separati dalla realtà sociale: «Le Br negli anni Settanta volevano parlare al movimento. Le loro azioni erano rivolte al potere, ma anche “alle masse”, di cui si ritenevano punta avanzata. E i documenti delle vecchie Br fornivano un’analisi del potere, ma anche del movimento. Così i documenti Br dopo i sequestri Amerio o Sossi, per esempio, davano informazioni sullo scontro sociale in atto. Finito il movimento, le Br hanno deciso la “ritirata strategica”. Gli assassini di Biagi, invece, appaiono tutti interni alle logiche del potere: in 26 pagine di farraginose argomentazioni, non dedicano una sola riga al movimento. Del resto, oggi anche la parte più a sinistra dell’opposizione rifiuta i gruppi armati. Luca Casarini li ha definiti “terrorismo di Stato”».
Aggiunge De Lutiis: «Sono un nucleo blindato. Forse non vogliono neanche avere rapporti con l’esterno: crescere vorrebbe dire aprirsi e dunque sottoporsi a rischi d’infiltrazione». Mastelloni conferma: «Sono un organismo operativo in un circuito chiuso. Hanno mostrato i muscoli per ottenere il riconoscimento dai vecchi brigatisti in carcere, ma camminano su una strada cieca, non hanno rapporti con il movimento. Anche il documento di rivendicazione non è rivolto al movimento, non ha fini di “propaganda armata”, come quelli che seguivano le azioni delle Br storiche. Dopo il sequestro Moro le Brigate rosse divennero un polo d’attrazione per molti giovani del movimento. Oggi questi parlano solo tra di loro, forse hanno problemi di leadership interna. E riescono a fare soltanto “terrorismo da strada”, senza grande organizzazione militare».
Se i nuclei armati sono così deboli, però, appare ancora più grave la mancanza di tutela degli uomini a rischio, perché oggi una tutela può significare aver salva la vita. La riduzione delle scorte, comunque la si guardi, sembra dunque un colossale errore. E per di più inutile: i poliziotti tolti alle scorte non sono andati a rafforzare altri servizi. Racconta un magistrato attivo a Milano: «Qui sono cento gli uomini del nucleo scorte. Malgrado i tagli del 30 per cento degli scortati ordinati da Scajola, neppure un poliziotto – ripeto, neppure uno – è stato spostato ad altri servizi, perché comunque sono molti i politici di passaggio a Milano che devono avere in ogni momento uomini a disposizione».
Inoltre ci sono le «personalità» che devono essere scortate: come il figlio di Gheddafi, che viene spessissimo a fare vita notturna a Milano, suite al Principe di Savoia, notti brave nelle discoteche e nei club, bodyguard libici che lo proteggono, ma rafforzati da una squadra di nostri attoniti poliziotti.

3. Indagini sbagliate. Se le indagini sull’omicidio D’Antona fossero state efficaci, forse Biagi sarebbe ancora vivo. Invece, dicono alcuni degli stessi investigatori, è stato fatto un errore dopo l’altro. Il più grave: l’arresto anzitempo (a causa di una fuga di notizie) di Alessandro Geri, finito in carcere il 16 maggio 2000 con l’accusa di essere stato il telefonista del gruppo armato. Una pista investigativa che avrebbe dovuto essere approfondita e invece è stata bruciata. Errore ripetuto il 3 maggio 2001, con l’arresto anticipato di otto persone, tra cui Norberto Natali, leader del piccolo gruppo di Iniziativa comunista.
Oggi la storia sembra ripetersi: perché tanta fretta di dire che la pistola è la stessa, anche a rischio di dare un eventuale vantaggio ai terroristi? Perché lasciar filtrare le notizie sui testimoni e su chi pedinava Biagi? Le piste da battere, dice il tecnico, sono quelle del percorso informatico compiuto dalla rivendicazione; delle comunicazioni telefoniche avvenute nelle ore precedenti l’agguato; delle eventuali immagini catturate da telecamere; delle eventuali tracce lasciate usando tessere magnetiche (bancomat, telepass...) o acquistando biglietti aerei. Utile potrebbe essere anche un «macroconfronto» tra il traffico telefonico nei giorni dei due omicidi, Biagi e D’Antona, realizzato dai sospettati per quest’ultimo assassinio. Ma chissà se, invece d’imparare dagli errori del passato, non si batteranno le stesse strade.

4. Dietrologie. La storia italiana giustifica anche qualche dietrologia. Basta leggere un libro come Lo stato invisibile, di Gianni Cipriani, per ripensare a tutte le infiltrazioni e gli usi di Stato del terrorismo avvenuti fino a pochi anni fa. E oggi? De Lutiis pone qualche problema: «Sono un nucleo serio, che ha dimostrato un’ottima professionalità. Nell’omicidio D’Antona sono stati “pulitissimi”, non hanno lasciato sul luogo dell’azione neanche un bossolo, neppure un capello. Nell’omicidio Biagi sono entrati in funzione molte figure, chi l’ha pedinato da Modena a Bologna, chi l’ha aspettato sotto casa; e sembra che un secondo uomo si sia avvicinato alla vittima già colpita per sparare il colpo di grazia alla nuca. Molto professionali. Dove hanno imparato tanta freddezza? Chi li ha addestrati? E dove? Certo non nel cortile di casa».
Franceschini va oltre: «Abbiamo in poche settimane due azioni annunciate: il ministro della Giustizia Roberto Castelli dice che il Palavobis e i girotondi seminano l’odio e portano al terrorismo, e subito scoppia un motorino-bomba addossato al muro del Viminale; poi il settimanale Panorama scrive che nell’obiettivo dei terroristi ci sono i consulenti del ministro Maroni, e alla vigilia della manifestazione della Cgil a Roma è colpito Biagi». Non ha funzionato. Da qualunque parte la si guardi, l’azione armata di Bologna non ha ottenuto i risultati cinicamente sperati dai killer e dai loro teorici. Ha fallito se voleva spostare una parte del movimento verso la lotta armata: anche l’ala più a sinistra ha condannato l’attentato, bollandolo addirittura come «terrorismo di Stato» e come ripresa della strategia della tensione. Ma avrebbe fallito anche in questo caso, anche se avesse avuto come obiettivo quello di ibernare la protesta, di impedire la saldatura tra indignazione dei girotondi e lotte sindacali: dopo l’assassinio annunciato di un uomo lasciato solo, a Roma è avvenuta la più grande manifestazione dell’Italia repubblicana. Ma se Sergio Cofferati avesse ceduto, avesse annullato la manifestazione? Se il Circo Massimo fosse restato vuoto?
«Viene da pensare che qualcuno attendesse queste azioni, pronte per essere utilizzate per criminalizzare l’intero movimento d’opposizione», commenta Franceschini. «Il Foglio ha addirittura proposto che a Biagi fossero tributati funerali di Stato, da trasmettere in diretta in contemporanea con la manifestazione sindacale: così il governo avrebbe potuto riprendersi la scena mediatica “rubata” da Cofferati. Nei prossimi mesi è possibile che ci sia un innalzamento del contrasto sociale: dobbiamo aspettarci nuove azioni? È l’inizio di una nuova strategia? La strage di piazza Fontana arrivò dopo tanti piccoli attentati e dopo l’“autunno caldo”, con l’obiettivo di terrorizzare chi lottava. Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile nei prossimi mesi? È tornato sulla scena un cadavere che si chiama Br e i suoi effetti sono quelli di mettere in difficoltà i movimenti antagonisti, non certo il governo e la Confindustria, che anzi vi attingono nuovi argomenti (il “clima d’odio”) per attaccare i sindacati e i girotondi. Anche ammessa la buona fede, questi sono degli idioti che compiono azioni controproducenti per il movimento. Si presentano come una specie di Spectre mondiale del terrore anticapitalista, ma producono effetti tattico-politici opposti a quelli che dicono di perseguire. Sembra però che ci siano settori del governo che li aspettavano, che dopo l’allarme non hanno protetto la vittima designata e poi hanno cercato di utilizzare l’evento per riprendersi la scena dei media». Gli esponenti governativi che hanno cavalcato «il clima d’odio» questa volta sono in buona compagnia: Oreste Scalzone, ex leader di Potere operaio e dei Cocori (Comitati comunisti rivoluzionari), ha dichiarato che l’origine dell’omicidio va rintracciata «nelle tematiche del Palavobis», nel «resistere, resistere, resistere» di Francesco Saverio Borrelli e nelle parole di intellettuali come Nanni Moretti e Gianni Vattimo. Nel 1994, del resto, subito dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Toni Negri aveva dichiarato al Corriere della sera che Mani pulite era stata «un colpo di Stato, un tentativo del Pds di andare al potere».

5. Senza stella a cinque punte. Prosegue Franceschini: «La notizia dell’uccisione di Marco Biagi mi ha fatto pensare al ritorno di un gruppo di marziani che ci hanno ributtato in un passato ormai finito. C’è l’orrore per una uomo ucciso, certo, ma c’è anche altro. Il linguaggio delle Brigate rosse io lo dovrei conoscere. Ebbene: mi pare che questa volta prevalgano gli elementi di discontinuità; non c’è più continuità storica con l’esperienza delle Br. Noi ci davamo anche un look da esercito, ci preoccupavamo di mostrarci come gruppi combattenti che compivano azioni occupando, almeno temporaneamente, il territorio. Questi invece fanno un omicidio di strada, con un motorino: come la camorra in Campania. Manca perfino l’elemento rituale: questa è la prima volta che un’azione delle Br viene rivendicata senza un volantino concreto, con disegnata la stella a cinque punte. Il documento di rivendicazione è un messaggio virtuale, inviato via computer e senza la stella: e le ritualità hanno la loro importanza».
«Diciamo la verità», valuta pensoso il magistrato antiterrorismo, «forse dobbiamo abituarci a uno zoccolo d’eversione, che non è un vasto fenomeno terroristico. In Grecia esiste un gruppo, il “17 Novembre”, che da 27 anni uccide personalità greche o statunitensi, una vittima ogni due o tre anni, ammazzata con la stessa pistola: è un gruppo piccolo, chiuso, imprendibile. Dovremo imparare anche noi a convivere con un fenomeno del genere?». E Mastelloni: «Noi, dopo un omicidio, li vediamo con la lente d’ingrandimento. Ma sono soltanto un gruppetto che si muove nel solco delle vecchie Br, morte e sepolte, e suggestionano soltanto qualche frangia marginale. Terrorismo endemico: sembra cinico dirlo, ma è probabile che dovremo imparare a convivere con un’omicidio ogni tanto, compiuto per simulare una rete eversiva che non c’è». Aggiunge invece il magistrato antiterrorismo: «Certo è che le Br-Pcc nel loro ultimo documento dicono di essere contrarie allo spazio giuridico europeo: almeno in questo, sono in linea con il governo italiano, nemico del mandato di cattura europeo».

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