Da La Repubblica del 28/03/1978

Non era questo il processo voluto da Pasolini

di Giorgio Galli

E' già stato rilevato che il secondo messaggio delle Brigate rosse, riecheggia alcuni temi che sono stati propri dell'estrema sinistra italiana, dallo stalinismo degli anni '50 alle formulazioni del '68. Si può aggiungere che l'iniziativa specifica del cosiddetto "processo" al massimo leader della Dc riprende un argomento che era stato dell'ultimo Pasolini. Questi non era congeniale al Pci stalinista (che lo aveva espulso) e aveva criticato il movimento del '68, da lui ritenuto piccolo borghese, solidarizzando, in una famosa poesia, coi poliziotti figli di contadini che fronteggiavano le manifestazioni studentesche. Eppure nel '75 Pasolini immaginava la catarsi e il rinnovamento della vita politica italiana attraverso un processo da intentarsi alla Dc quale responsabile della degradazione della società. Dopo il 15 giugno '75 Pasolini immaginava come pubblico accusatore ideale di questo processo il Pci, da egli ritenuto unico elemento di onestà in mezzo alla corruzione, unico fattore aggregante in una collettività in disgregazione. E' noto che il Pci respingeva drasticamente questa impostazione, perché impegnato nella sua linea politica di possibile collaborazione con una Dc rinnovata. Collaborazione della quale l'accesso comunista all'area di governo avrebbe dovuto costituire il primo atto significativo. Se collochiamo al giusto posto questi elementi del quadro, riusciamo a capire da quali precedenti e in quale momento acquista significato la tragica svolta della vita politica italiana che porta la data 16 marzo. Da un lato la lunga assenza di ricambio al governo ha impedito lo svilupparsi nella nostra società di elementi di cultura liberal-democratica in grado di rendere diffusa la convinzione che l'Italia potesse trasformarsi senza traumi e senza catarsi. Dall'altro lato l'ingresso del Pci nell'area di governo avviene con un ritardo ed in condizioni tali che la sfida delle Brigate rosse deriva la sua maggiore pericolosità da una situazione estremamente deteriorata. Se nella sinistra italiana è rimasta, minoritaria ma tenace, la convinzione che la Dc non fosse un partito da sostituire al governo ma un regime da abbattere con la violenza e da processare, è perché la sua identificazione con tutto il potere per un terzo di secolo in un paese di lunga tradizione cattolica ne ha fatto un caso unico in Occidente. Quando dopo il 20 giugno si è constatato che neppure una sinistra con il 47 per cento dei voti riusciva a indurre una Dc con il 39 per cento a concordare un ragionevole governo di coalizione, la convinzione della inamovibilità della Dc dal potere si è ulteriormente consolidata. Non è una giustificazione, ma un'amara constatazione il fatto che la lotta armata si sia intensificata dopo il 20 giugno '76. Pur tuttavia si era giunti a metà marzo all'accettazione del Pci nella maggioranza parlamentare. Ma di un governo la cui inadeguata composizione è stata rilevata anche da Luigi Granelli nell'intervista qui pubblicata pochi giorni fa dopo il rapimento di Moro. E' comunque al momento di ingresso del Pci nella maggioranza che le brigate rosse hanno lanciato alla sinistra una sfida che il loro ultimo messaggio contiene nei suoi termini essenziali. A mio giudizio la sfida è questa: il Pci entra nell'area di governo con tanto ritardo e in una situazione tanto deteriorata, che non riuscirà ad impedire l'ulteriore degradazione delle istituzioni. E attraverso questa disgregazione, si amplierà lo spazio per una lotta armata che riprenda alcuni temi e alcuni motivi della trentennale lotta della sinistra e soprattutto del Pci. Se questo è il terreno della sfida, a me pare che la risposta valida sia la dimostrazione da parte della sinistra che l'Italia è ancora una democrazia rappresentativa suscettibile di migliorare e non uno Stato che oscilla tra l'evidente decozione e la tentazione repressiva. Quando il Pci sostiene oggi che la nostra democrazia rappresentativa è aperta a tutte le innovazioni; quando afferma che oggi il terrorismo mira soprattutto a impedire un processo di evoluzione democratica con il Pci come protagonista, sviluppa un'analisi che ha una sua coerenza teorica, ma che richiede ancora una concreta dimostrazione politica. Cioè che l'evoluzione democratica sia possibile, che la Costituzione del 1948 possa essere applicata per intero. Ritengo anch'io che la sinistra possa ancora essere protagonista di una svolta democratica nel quadro della Costituzione. Ma occorre darne la dimostrazione a partire da subito: l'opinione pubblica e i militanti progressisti hanno subìto troppe delusioni, perché possano oggi credere sulla parola ai dirigenti del Pci e del Psi. Darne la dimostrazione subito significa non accartocciarsi sulla tematica proposta dalla lotta armata. Traggo due esempi da "La Repubblica" del 25 marzo: "Il processo Lockeed sarà rinviato", si informa a pagina 7. E a pagina 6 uno dei nostri migliori economisti, Claudio Napoleoni, eletto deputato nelle liste del Pci, scrive che le attuali deliberazioni del governo in materia di politica industriale vanno "al di là di ogni previsione, anche la peggiore, sull'inadeguatezza della legge 675 ai fini della formazione di una politica industriale dotata di senso". Ebbene: a me pare evidente che tutta la sinistra che rifiuta la lotta armata si attende dall'ingresso del Pci e del Psi nella maggioranza che si restauri lo Stato di diritto anche nei confronti dei potenti del sistema e che si ponga mano a una politica industriale dotata di senso, sostituendo immediatamente tutti i dirigenti delle imprese pubbliche responsabili del dissenso attuale. Senza segni evidenti di cambiamento, non c'è predica di politici o di intellettuali che possa rinvigorire le nostre istituzioni democratiche. E se agli intellettuali si possono chiedere analisi che siano per quanto possibile valide, tocca ai politici prendere decisioni che siano per quanto possibile risposte alle attese. Questa sembra a me la risposta adeguata alla sfida del 16 marzo.

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Pier Paolo Pasolini
"Basta ai giovani contestatori staccarsi dalla cultura, ed eccoli optare per l’azione e l’utilitarismo, rassegnarsi alla situazione in cui il sistema si ingegna ad integrarli. Questa è la radice del problema: usano contro il neocapitalismo armi che in realtà portano il suo marchio di fabbrica, e sono quindi destinate soltanto a rafforzare il suo dominio. Essi credono di spezzare il cerchio, e invece non fanno altro che rinsaldarlo."

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