Da Il Manifesto del 10/04/2006
Moby Prince. Livorno, quindici anni di bugie
140 uomini bruciati non si sa perché. La giustizia non ce lo dice. Uno dei troppi misteri italiani dove si intrecciano coperture e omissioni. Militari americani e navi somale.
di Tommaso Tintori
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15 anni dopo, nulla è cambiato: quella del Moby Prince resta una strage senza colpevoli. Come piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus, come Ustica, come la stazione di Bologna, come il treno 904 e come molte altre tragedie tipicamente “made in Italy”. Come ogni volta in cui lo Stato italiano ha insabbiato la verità per difendere i propri - e gli altrui - interessi.
Alle 22.25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince sfonda con la prua l’imponente Agip Abruzzo, una petroliera alta come un grattacielo e lunga come tre campi di calcio messi assieme. Muoiono bruciati in 140, uno solo si salverà. Perché la Moby sia andata a sbatterci contro non si è mai saputo: è stato fatto di tutto per non poter mai arrivare alla verità. E purtroppo non è la sola domanda che resta senza risposte, perché la tragedia del Moby Prince è un insieme di misteri contenuti l’uno dentro l’altro, quasi fossero tante scatole cinesi e per questo impenetrabili. Verità sapientemente blindate da una giustizia che ha scelto di non essere giusta.
IL FATTO
L’impatto tra il traghetto e la petroliera è devastante: il Moby perfora uno dei tank dell’Agip Abruzzo e in pochi minuti si genera un incendio di grosse proporzioni. In qualche modo, il traghetto si disincaglia dalla petroliera e il comandante del Moby, Ugo Chessa, lancia il may day. Nel frattempo il Moby, evidentemente a causa dei comandi ormai fuori uso, prende il largo nell’oscurità della notte avvolto dalle fiamme. Il disperato appello di Chessa cade nel vuoto, anch’esso come una cometa nel cielo.
Alle 23 arrivano i primi soccorritori i quali, come espressamente richiesto dal comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, prestano soccorso alla petroliera anziché al traghetto (inspiegabilmente scambiato dallo stesso Superina per una bettolina). Nessuno quindi si occupa di prestare i soccorsi al Moby, tranne un paio di imbarcazioni private che si avvicinano al traghetto. E’ così che salverà la vita colui che alla fine risulterà essere l’unico superstite, Alessio Bertrand, un giovane mozzo alla sua prima navigazione, salvatosi per essersi aggrappato ad un corrimano esterno del traghetto.
OMISSIONI, DEPISTAGGI E MANOMISSIONI
La totale assenza di organizzazione nelle operazioni di soccorso, o meglio ancora la totale assenza di soccorsi al Moby – perché di questo si è trattato – è uno dei misteri più profondi. Per quale motivo, ci si chiede, qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi misfatto si sia voluto coprire, non si è saputo o voluto salvare 140 persone da una morte così atroce. Nelle ore successive al tragico impatto, le comunicazioni radio sono rimaste quasi sempre mute. Chi doveva dirigere le operazioni di salvataggio, vedi il comandante del porto, Sergio Albanese, non lo ha mai fatto. “Assentivo alle disposizioni dell’ufficiale della centrale operativa: mi sembravano giuste e non avevo motivo di contraddirlo”, si è sempre difeso così Albanese, che secondo alcuni non c’era neanche, quella notte, in porto.
Parimenti ininfluenti sono state stimate dal presidente del collegio giudicante del tribunale di Livorno, Germano Lamberti (attualmente nei guai fino al collo perché accusato di corruzione nel processo “Elbopoli”), le “disattenzioni” di Superina. Come quella di aver più volte ritrattato sull’accensione o meno del radar al momento dell’impatto, oppure aver descritto, nel giro di 48 ore, ben 5 posizioni diverse della nave, o quella, forse ancor più grave, di aver dimenticato il diario di bordo nella plancia di comando dell’Agip Abruzzo, magicamente andato distrutto tre giorni dopo. Comunque, il diario di bordo dell’Agip non è l’unico documento andato distrutto: un preziosissimo filmato amatoriale girato a bordo e scampato all’incendio per miracolo, è giunto al magistrato tagliato e incollato con una parte di nastro vergine.
Poco, invece, si è sempre detto delle carenze strutturali del Moby, un traghetto presentato come l’ammiraglia della Moby Lines, ex-Navarma, ma in realtà ritenuto idoneo soltanto a svolgere collegamenti costieri. Interni di gran lusso ma anche parte dell’elica rotta, una radio che non funzionava, un solo radar (dei tre a bordo) funzionante, il sistema antincendio “Sprinkler” fuori servizio così come le cosiddette serrande “taglia-fuoco”. Anche alla luce dell’accertata manomissione del timone da parte del nostromo del Moby, Ciro Di Lauro, su ordine dell’ispettore della Navarma, Pasquale D’Orsi, con l’obiettivo di voler addossare ogni responsabilità dell’incidente al comandante Chessa. “Un atto deprecabile ma non punibile” per il pretore di Livorno, e così, anche per il proprietario della flotta Navarma Achille Onorato, sarà accolta la richiesta di archiviazione. Proprio come Albanese, Superina e tutti gli altri pezzi grossi che girano attorno a questa storia.
LA NEBBIA
L’indicazione che da subito arriva dai “piani alti” è precisa: la causa della tragedia è una e una soltanto: la nebbia. Una nenia insopportabile, un refrain che viene ripetuto da quasi tutti i pezzi grossi della politica nostrana, a cominciare dall’allora ministro della marina mercantile, Carlo Vizzini. Una tesi però condivisa da pochi altri, anche tra chi quella sera si trovava al porto. Un certo Canavina, comandante di un’altra petroliera ancorata in rada, l’Agip Napoli, si trovava a un miglio e mezzo al momento dell’impatto. Via radio comunica di vedere benissimo quanto stava accadendo. Eppure, lui come altri testimoni “scomodi”, non verrà neanche ascoltato come teste al processo.
Lo stesso Superina, tra mille “non so” ed altrettante ritrattazioni, afferma in quei concitati momenti di vedere benissimo la costa: “Livorno ci vede!”. Anche Federico Sgherri, il pilota che accompagna il Moby fuori dal porto, è sicuro: quella notte non c’era nebbia, specificando anche come l’Agip Abruzzo (contrariamente a quanto sospettato da alcuni) fosse illuminato e ben visibile. I dubbi vengono fugati da un video amatoriale trasmesso dal Tg1 due giorni dopo. Si vede chiaramente l’incendio e l’assenza totale di nebbia o foschia. Eppure la sentenza, grazie soprattutto alle dichiarazioni rilasciate dai periti del pubblico ministero, affermerà che la nebbia, seppur a banchi, c’era e doveva essere considerata la vera causa del disastro.
UNA RADA SOVRAFFOLLATA
Quella notte, la rada del porto di Livorno somiglia ad un supermarket. C’è veramente di tutto: due superpetroliere, un traghetto, probabilmente anche una bettolina impegnata in operazioni di bunkeraggio (rifornimento di carburante) o, come sostengono in molti, nell’esatto contrario, ossia nell’aspirazione del greggio, una pratica illegale ma da sempre assai comune nei vari porti ed in particolar modo in quello di Livorno. Sulla sua identità non è mai stata fatta luce. Il ritrovamento di una pompa semicarbonizzata ancora inserita nel bocchettone di uno dei tank dell’Agip Abruzzo confermerebbe una di queste due ipotesi. C’erano poi quattro, forse cinque o addirittura sette navi americane impegnate in losche operazioni di carico e scarico di materiale bellico. E c’era perfino un elicottero statunitense partito dalla vicinissima base Usa di Camp Darby che visionava le operazioni. Azioni di routine da sempre nel porto toscano, a quanto sembra, senza considerare che la prima guerra del Golfo era terminata da un paio di settimane. Un testimone particolarmente attendibile, il capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile, afferma di aver visto con i propri occhi almeno una nave di queste impegnate in operazioni di carico armi. Nessuno ha mai voluto interrogarlo.
Registrata come attraccata ad una banchina c’era anche un’imbarcazione somala, la 21 Oktobar II, una nave-peschereccio donata per operazioni commerciali alla Somalia dalla cooperazione italiana. Ufficialmente a Livorno in riparazione, secondo il pilota del porto avrebbe fatto rifornimento di carburante (non si capisce per quale motivo, in quanto impossibilitata a viaggiare) e secondo altri (notizia mai verificata) sarebbe stata persino vista in rada. Cosa è certo, invece, è che la 21 Oktobar II apparteneva alla flotta Shifco, oggetto di attenzione da parte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.
IL DIRITTO ALLA VERITA’
Uno di coloro che non si è mai arreso è senz’altro Loris Rispoli, dell’associazione “140” che raccoglie i familiari delle vittime. “In questi quindici anni – ha affermato Rispoli al periodico livornese “Senza Soste” - abbiamo chiesto verità e giustizia, due diritti troppo spesso negati in questo Paese. Avevo fiducia nella giustizia, pensavo davvero che il nostro caso fosse diverso da altre tragedie italiane, non vedevo implicazioni internazionali come Ustica, tanto per fare un esempio. Il giorno che il tribunale di Livorno assolse tutti, mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Mi sentivo sconfitto, solo, perché mi ero reso conto che avevo assistito a un processo farsa a imputati che avevano pochissime responsabilità. I veri responsabili, quelli che continuavano a manovrare nell'ombra, non erano mai stati imputati”. Rispoli non si nasconde, non ha paura di fare i nomi: “La sentenza della corte di appello di Firenze è chiara: Rolla, il terzo ufficiale dell'Agip, è colpevole, ma ben più gravi sono le responsabilità di questi che noi familiari delle vittime consideriamo responsabili: l'armatore Onorato, il comandante della Capitaneria Albanese, il comandante della petroliera Superina. Sono loro che con le loro azioni, i loro comportamenti, le loro omissioni hanno permesso che quella notte sul traghetto Moby Prince trovassero la morte 140 persone”. Rispoli, a nome dell’associazione “140”, formula anche una richiesta ben precisa e del tutto legittima: Continuo a chiedermi perché, di fronte a una sentenza accusatoria cosi chiara, non si sia aperto un processo con questi imputati. Continuerò e continueremo a chiedere che il processo sia riaperto, che finalmente i responsabili siano sul banco degli imputati, perché chi ha permesso e causato la morte di 140 persone deve pagare il suo debito con la giustizia. Questo è il Paese delle verità negate, ma vogliamo che diventi un Paese diverso”.
Alle 22.25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince sfonda con la prua l’imponente Agip Abruzzo, una petroliera alta come un grattacielo e lunga come tre campi di calcio messi assieme. Muoiono bruciati in 140, uno solo si salverà. Perché la Moby sia andata a sbatterci contro non si è mai saputo: è stato fatto di tutto per non poter mai arrivare alla verità. E purtroppo non è la sola domanda che resta senza risposte, perché la tragedia del Moby Prince è un insieme di misteri contenuti l’uno dentro l’altro, quasi fossero tante scatole cinesi e per questo impenetrabili. Verità sapientemente blindate da una giustizia che ha scelto di non essere giusta.
IL FATTO
L’impatto tra il traghetto e la petroliera è devastante: il Moby perfora uno dei tank dell’Agip Abruzzo e in pochi minuti si genera un incendio di grosse proporzioni. In qualche modo, il traghetto si disincaglia dalla petroliera e il comandante del Moby, Ugo Chessa, lancia il may day. Nel frattempo il Moby, evidentemente a causa dei comandi ormai fuori uso, prende il largo nell’oscurità della notte avvolto dalle fiamme. Il disperato appello di Chessa cade nel vuoto, anch’esso come una cometa nel cielo.
Alle 23 arrivano i primi soccorritori i quali, come espressamente richiesto dal comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, prestano soccorso alla petroliera anziché al traghetto (inspiegabilmente scambiato dallo stesso Superina per una bettolina). Nessuno quindi si occupa di prestare i soccorsi al Moby, tranne un paio di imbarcazioni private che si avvicinano al traghetto. E’ così che salverà la vita colui che alla fine risulterà essere l’unico superstite, Alessio Bertrand, un giovane mozzo alla sua prima navigazione, salvatosi per essersi aggrappato ad un corrimano esterno del traghetto.
OMISSIONI, DEPISTAGGI E MANOMISSIONI
La totale assenza di organizzazione nelle operazioni di soccorso, o meglio ancora la totale assenza di soccorsi al Moby – perché di questo si è trattato – è uno dei misteri più profondi. Per quale motivo, ci si chiede, qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi misfatto si sia voluto coprire, non si è saputo o voluto salvare 140 persone da una morte così atroce. Nelle ore successive al tragico impatto, le comunicazioni radio sono rimaste quasi sempre mute. Chi doveva dirigere le operazioni di salvataggio, vedi il comandante del porto, Sergio Albanese, non lo ha mai fatto. “Assentivo alle disposizioni dell’ufficiale della centrale operativa: mi sembravano giuste e non avevo motivo di contraddirlo”, si è sempre difeso così Albanese, che secondo alcuni non c’era neanche, quella notte, in porto.
Parimenti ininfluenti sono state stimate dal presidente del collegio giudicante del tribunale di Livorno, Germano Lamberti (attualmente nei guai fino al collo perché accusato di corruzione nel processo “Elbopoli”), le “disattenzioni” di Superina. Come quella di aver più volte ritrattato sull’accensione o meno del radar al momento dell’impatto, oppure aver descritto, nel giro di 48 ore, ben 5 posizioni diverse della nave, o quella, forse ancor più grave, di aver dimenticato il diario di bordo nella plancia di comando dell’Agip Abruzzo, magicamente andato distrutto tre giorni dopo. Comunque, il diario di bordo dell’Agip non è l’unico documento andato distrutto: un preziosissimo filmato amatoriale girato a bordo e scampato all’incendio per miracolo, è giunto al magistrato tagliato e incollato con una parte di nastro vergine.
Poco, invece, si è sempre detto delle carenze strutturali del Moby, un traghetto presentato come l’ammiraglia della Moby Lines, ex-Navarma, ma in realtà ritenuto idoneo soltanto a svolgere collegamenti costieri. Interni di gran lusso ma anche parte dell’elica rotta, una radio che non funzionava, un solo radar (dei tre a bordo) funzionante, il sistema antincendio “Sprinkler” fuori servizio così come le cosiddette serrande “taglia-fuoco”. Anche alla luce dell’accertata manomissione del timone da parte del nostromo del Moby, Ciro Di Lauro, su ordine dell’ispettore della Navarma, Pasquale D’Orsi, con l’obiettivo di voler addossare ogni responsabilità dell’incidente al comandante Chessa. “Un atto deprecabile ma non punibile” per il pretore di Livorno, e così, anche per il proprietario della flotta Navarma Achille Onorato, sarà accolta la richiesta di archiviazione. Proprio come Albanese, Superina e tutti gli altri pezzi grossi che girano attorno a questa storia.
LA NEBBIA
L’indicazione che da subito arriva dai “piani alti” è precisa: la causa della tragedia è una e una soltanto: la nebbia. Una nenia insopportabile, un refrain che viene ripetuto da quasi tutti i pezzi grossi della politica nostrana, a cominciare dall’allora ministro della marina mercantile, Carlo Vizzini. Una tesi però condivisa da pochi altri, anche tra chi quella sera si trovava al porto. Un certo Canavina, comandante di un’altra petroliera ancorata in rada, l’Agip Napoli, si trovava a un miglio e mezzo al momento dell’impatto. Via radio comunica di vedere benissimo quanto stava accadendo. Eppure, lui come altri testimoni “scomodi”, non verrà neanche ascoltato come teste al processo.
Lo stesso Superina, tra mille “non so” ed altrettante ritrattazioni, afferma in quei concitati momenti di vedere benissimo la costa: “Livorno ci vede!”. Anche Federico Sgherri, il pilota che accompagna il Moby fuori dal porto, è sicuro: quella notte non c’era nebbia, specificando anche come l’Agip Abruzzo (contrariamente a quanto sospettato da alcuni) fosse illuminato e ben visibile. I dubbi vengono fugati da un video amatoriale trasmesso dal Tg1 due giorni dopo. Si vede chiaramente l’incendio e l’assenza totale di nebbia o foschia. Eppure la sentenza, grazie soprattutto alle dichiarazioni rilasciate dai periti del pubblico ministero, affermerà che la nebbia, seppur a banchi, c’era e doveva essere considerata la vera causa del disastro.
UNA RADA SOVRAFFOLLATA
Quella notte, la rada del porto di Livorno somiglia ad un supermarket. C’è veramente di tutto: due superpetroliere, un traghetto, probabilmente anche una bettolina impegnata in operazioni di bunkeraggio (rifornimento di carburante) o, come sostengono in molti, nell’esatto contrario, ossia nell’aspirazione del greggio, una pratica illegale ma da sempre assai comune nei vari porti ed in particolar modo in quello di Livorno. Sulla sua identità non è mai stata fatta luce. Il ritrovamento di una pompa semicarbonizzata ancora inserita nel bocchettone di uno dei tank dell’Agip Abruzzo confermerebbe una di queste due ipotesi. C’erano poi quattro, forse cinque o addirittura sette navi americane impegnate in losche operazioni di carico e scarico di materiale bellico. E c’era perfino un elicottero statunitense partito dalla vicinissima base Usa di Camp Darby che visionava le operazioni. Azioni di routine da sempre nel porto toscano, a quanto sembra, senza considerare che la prima guerra del Golfo era terminata da un paio di settimane. Un testimone particolarmente attendibile, il capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile, afferma di aver visto con i propri occhi almeno una nave di queste impegnate in operazioni di carico armi. Nessuno ha mai voluto interrogarlo.
Registrata come attraccata ad una banchina c’era anche un’imbarcazione somala, la 21 Oktobar II, una nave-peschereccio donata per operazioni commerciali alla Somalia dalla cooperazione italiana. Ufficialmente a Livorno in riparazione, secondo il pilota del porto avrebbe fatto rifornimento di carburante (non si capisce per quale motivo, in quanto impossibilitata a viaggiare) e secondo altri (notizia mai verificata) sarebbe stata persino vista in rada. Cosa è certo, invece, è che la 21 Oktobar II apparteneva alla flotta Shifco, oggetto di attenzione da parte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.
IL DIRITTO ALLA VERITA’
Uno di coloro che non si è mai arreso è senz’altro Loris Rispoli, dell’associazione “140” che raccoglie i familiari delle vittime. “In questi quindici anni – ha affermato Rispoli al periodico livornese “Senza Soste” - abbiamo chiesto verità e giustizia, due diritti troppo spesso negati in questo Paese. Avevo fiducia nella giustizia, pensavo davvero che il nostro caso fosse diverso da altre tragedie italiane, non vedevo implicazioni internazionali come Ustica, tanto per fare un esempio. Il giorno che il tribunale di Livorno assolse tutti, mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Mi sentivo sconfitto, solo, perché mi ero reso conto che avevo assistito a un processo farsa a imputati che avevano pochissime responsabilità. I veri responsabili, quelli che continuavano a manovrare nell'ombra, non erano mai stati imputati”. Rispoli non si nasconde, non ha paura di fare i nomi: “La sentenza della corte di appello di Firenze è chiara: Rolla, il terzo ufficiale dell'Agip, è colpevole, ma ben più gravi sono le responsabilità di questi che noi familiari delle vittime consideriamo responsabili: l'armatore Onorato, il comandante della Capitaneria Albanese, il comandante della petroliera Superina. Sono loro che con le loro azioni, i loro comportamenti, le loro omissioni hanno permesso che quella notte sul traghetto Moby Prince trovassero la morte 140 persone”. Rispoli, a nome dell’associazione “140”, formula anche una richiesta ben precisa e del tutto legittima: Continuo a chiedermi perché, di fronte a una sentenza accusatoria cosi chiara, non si sia aperto un processo con questi imputati. Continuerò e continueremo a chiedere che il processo sia riaperto, che finalmente i responsabili siano sul banco degli imputati, perché chi ha permesso e causato la morte di 140 persone deve pagare il suo debito con la giustizia. Questo è il Paese delle verità negate, ma vogliamo che diventi un Paese diverso”.
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