Da La Nuova Sardegna del 11/10/2006

Il procuratore di Livorno: «Un pool per le indagini»

Una strage avvolta da troppi misteri

di Piero Mannironi

LIVORNO. E’ un mistero che si aggiunge a una lunghissima storia di misteri, di depistaggi e di inquietanti omissioni. Le fotografie satellitari, cioé le immagini che avrebbero potuto spiegare cosa accadde la sera del dieci aprile del 1991 nel porto di Livorno, erano dunque in procura. Dentro uno scatolone sigillato che nessuno finora aveva aperto.
I familiari delle 140 vittime della più grande tragedia della marineria civile italiana, quella del Moby Prince, hanno chiesto per anni che si ricorresse agli occhi instancabili e attenti dei satelliti per sapere come e perché il traghetto fosse finito contro la petroliera Agip Abruzzo, prima di trasformarsi in un inferno di fuoco.
E quelle fotografie invece erano lì, in procura, fin dal 1995. Cioé quattro anni dopo la tragedia. E non pochi dubbi aveva sollevato l’atteggiamento del governo americano che aveva sempre negato l’esistenza di immagini della rada di Livorno riprese dal cielo. Ma due satelliti, uno tedesco e uno spagnolo, avevano fotografato in quei giorni il porto di Livorno.
L’avvocato Carlo Palerno, l’ex magistrato che aveva scoperto un gigantesco traffico d’armi e che era stato condannto a morte dalla mafia, è stato il protagonista del clamoroso colpo di teatro che potrebbe non solo riaprire il “caso Moby Prince”, ma addirittura fornire risposte a interrogativi che tre processi non sono riusciti a dare.
Alla procura di Livorno si respira un certo imbarazzo, ma anche una dichiarata disponibilità a scavare ancora sul disastro della Moby Prince. L’idea del procuratore reggente, Antonio Giaconi, è quella di affidare le nuove indagini a un pool di magistrati. Naturalmente nel caso «ci fossero i presupposti per riaprire l’inchiesta.
«Si tratta di una vicenda molto complessa - ha spiegato il capo della procura livornese - e credo che sarebbero necessari la professionalità e l’impegno di più di un magistrato».
Il pool, ovviamente, opererebbe sotto il coordinamento e l’indirizzo dello stesso Giaconi, che non ha voluto commentare le anticipazioni sull’istanza di riapertura delle indagini annunciata dall’avvocato Carlo Palermo.
«Aspetto di riceverla» ha detto. Il legale, nominato da Angelo Chessa, figlio del comandante del traghetto sul quale persero la vita 140 persone (trenta erano sardi) nella collisione con la petroliera Agip Abruzzo, depositerà giovedì mattina un dossier di 140 pagine che tocca punti non ancora chiariti dalle precedenti indagini.
Intanto, il consigliere regionale della Margherita, Erasmo D’Angelis, ha detto che bisogna «fare luce sulla dinamica dello speronamento della Agip Abruzzo e questo deve essere uno degli impegni anche di Parlamento e Governo». Il consigliere della Margherita ha detto che è «inquietante» il ritrovamento in procura di una scatolone mai utilizzato contenente foto satellitari della rada livornese nei giorni dell’incidente e ha definito quella del Moby Prince «una strage che ricorda molto quella di Ustica perchè, nonostante tre processi, non ci sono colpevoli e non è possibile accedere ai tracciati e alle foto satellitari statunitensi che sicuramente monitoravano in quelle ore il mare di fronte alla base di Camp Darby».
D’Angelis ha detto inoltre che «i familiari delle vittime e l’intera Toscana hanno diritto alla verità, anche per fugare dubbi sul ruolo delle cinque navi militari cariche di armi di ritorno dall’Iraq, impegnate la sera dell’incidente nelle operazioni di scarico per Camp Darby, una delle quali dovette rapidamente allontanarsi perchè minacciata dalle fiamme del Moby Prince».
«Ci mostrino le foto satellitari per capire cosa è accaduto» ha concluso D’Angelis.
Ma come queste cinque immagini possono aprire una breccia in quel muro di gomma che ha finora impedito di arrivare alla verità? Prima di tutto possono finalmente documentare oltre ogni ragionevole dubbio il fatto se quella sera nel porto di Livorno c’era o no un banco di nebbia. Una nebbia che avrebbe nascosto alla visuale del timoniere della Moby un gigante del mare come la Agip Abruzzo: 280 metri di lunghezza (quasi quanto tre campi di calcio), trenta di altezza, come un palazzo di dieci piani, e soprattutto illuminata come un albero di Natale da un impianto della potenza di 40 mila watt.
Il primo a parlare di nebbia è stato il comandante della capitaneria di porto di Livorno, l’ammiraglio Sergio Albanese. Alle tre del mattino dell’11 aprile confidò a un cronista: «E’ stata tutta colpa della nebbia».
Poi, successivamente, si dirà anche che il radar del traghetto era spento e che l’equipaggio era distratto da una partita di calcio che veniva trasmessa in tv. Al processo questa tesi si scioglierà come neve al sole per il semplice motivo che in plancia non c’era alcun televisore.
A mettere in crisi la versione ufficiale della nebbia è stato soprattutto un filmato amatoriale, trasmesso nel Tg1 delle venti, il 13 aprile. Il conduttore del telegiornale, Paolo Frajese, commentò: «Una cosa è chiara: non c’è nebbia».
Il colpo di grazia alla “teoria della nebbia” l’ha data un testimone, comparso per la prima volta il 15 maggio del 1996. Nessuno, fino a quell’udienza in tribunale, l’aveva mai sentito. E, soprattutto, di lui sembra quasi ci si volesse dimenticare in fretta. Si tratta del tenente della Guardia di finanza Cesare Gentile. Lui comandava una motovedetta che, pochi minuti dopo la fatale collisione tra il traghetto e la petroliera, era uscita dal porto. Ecco cosa ha detto ai giudici del tribunale: «Alle 22,35 lasciamo gli ormeggi e cinque minuti dopo usciamo dalla Vegliaia, l’imboccatura del porto di Livorno. C’era una giornata chiarissima e ho constatato la posizione delle navi in rada. In quel momento c’era bellissimo tempo, il mare calmissimo e una visibilità meravigliosa».
Dunque, niente nebbia. Ma Gentile, uomo preciso e meticoloso, ha aperto un’altra devastante ferita nella versione ufficiale: «Avevo una petroliera sul lato sinistro, a circa 700-800 metri dall’Accademia navale. Poi c’era la petroliera messa in questa posizione. Sull’altro raggio c’erano altre quattro navi fra cui c’era anche una nave, forse di munizioni; mentre all’imboccatura nord, proprio all’altezza del Calambrone, c’era, illuminta, la nave americana che stava caricando munizioni».
In quei giorni si era conlusa l’operazione Desert Storm, la prima guerra del Golfo, e gli americani stavano riportando armi e munizioni nella loro base di Camp Darby, tra Livorno e Pisa. La testimonianza di Gentile ha introdotto nel processo, per la prima volta, il problema che si stavano svolgendo «operazioni illegali». Sono infatti proibite le attività di movimentazione di merci pericolose e di armi di notte, in una zona non consentita, in un’area interessata dalle rotte dei traghetti e in prossimità dei punti di ormeggio delle navi.
E che in quei giorni ci fosse un notevole traffico di navi americane nel porto di Livorno l’hanno ammesso le stesse autorità Usa. C’è infatti, agli atti, un documento firmato dal colonnello Jan Harpole, nel quale si ammette che c’erano in porto tre mercantili “militarizzati”, cioé tre navi cariche di armi: la Cape Breton, la Efdim Junior e la Gallant II. Dopo undici anni, nel 2002, l’avvocatura militare americana ha smentito il rapporto-Harpole: le navi cariche di armi erano cinque e non tre. Ma misteriosamente non ha fornito i nomi dei due mercantili.
Sarà un’inchiesta giornalistica a svelare la loro identità: la Cape Syros e la Cape Flattery. Era molto probabilmente quest’ultima quella vista dal tenente Gentile che aveva notato anche un intenso via-vai di piccole imbarcazioni intorno alla nave.
Altro mistero mai chiarito: in quei giorni era in porto a Livorno anche la 21 Oktobar II. E’ l’ammiraglia della flotta di pescherecci della Shifco del somalo Omar Mugne. E’ la nave che venne sequestrata nel 1994 dal sultano di Bosaso e sulla quale stava indagando la giornalista Ilaria Alpi. L’inviata del Tg3 sospettava che, oltre al pesce, le navi della Shifco trasportassero anche armi.
C’è la moglie di un ufficiale della capitaneria di porto, la signora Susanna Bonomi, che ha notato l’arrivo nella notte tra il 10 e l’11 aprile di una nave di 70-80 metri nel molo davanti alla sua abitazione. Era la 21 Oktobar II. La donna riferirà la circostanza al processo, ma il movimento notturno di questa nave, che si porta dietro una fama fosca, non sembra sia stato valutato con la dovuta attenzione.
Ma i misteri sono tanti. Il più inquietante: il ritrovamento di esplosivo, il micidiale Semtex, nei locali di prua del Moby Prince.

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Il testo integrale dell'istanza presentata l'11/10/2006 dall'avvocato Carlo Palermo, difensore di parte civile del figlio dell'ammiraglio Chessa, il pilota del traghetto deceduto nella tragedia.
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